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Miti e leggende di Duino

Come tutti i veri castelli anche quello di Duino ha ispirato delle leggende soprattutto nel corso del Medioevo, quando i nobili cortigiani si svagavano con giocolieri, giullari e saltimbanchi o con le storie di briganti e cavalieri narrate da trovatori e menestrelli.
Seppure non difettassero d’ immaginazione si potrebbe supporre che i cantastorie s’ispiravano a fatti reali ma che presentandoli come leggende esorcizzavano le paure del volgo sulle truci vicende accadute tra le torri e i sotterranei delle fortezze dove i signorotti e i loro fedeli vassalli spadroneggiavano su mari e terre in perenne lotta con gli aspiranti usurpatori.
E’ stato proprio Rodolfo Pichler nel suo libro di Memorie sul Castello di Duino a riferirci che l’antica torre diocleziana all’interno delle mura fosse divisa in più piani e usata come carceri per corsari e masnadieri. Attestava che dai minuscoli pertugi delle porte ferrate filtrasse una tenebrosa oscurità e che si percepisse un senso di orrore che aumentava risalendo ai piani più alti dove esistevano trabocchetti e botole collegate a lugubri pozzi dove i carcerati trascorrevano gli ultimi istanti della loro vita. 150394_f70dd96d-f39b-4feb-8395-c838720d2bde_-1[1]

Come tutti i castelli eretti sulle scogliere non potrebbero mancare le leggende di acrobatiche risalite sulle mura o di scenografiche cadute nel mare, ovviamente in tempesta, infatti la più celebre leggenda di Duino racconta che una giovane dama di nome Esterina da Portole (di cui invano abbiamo cercato notizie) fosse stata gettata da una finestra della torre dal suo geloso e perfido consorte e che cercando di risalire aggrappandosi sugli scogli rimase pietrificata per l’eternità.
Sulla infelice castellana rimasta nell’immaginario storico come Dama Bianca per il candore della roccia con le sue sembianze, nel 1869 la romantica principessa Teresa Thurn-Hohenlohe scrisse dei versi di cui riportiamo l’incipit:

Dell’azzurra marina alla sponda,
All’estremo dell’Adria sospiro,
Onde l’onda s’incontra con l’onda…
Del Timavo fuggente nel mar,
Sorge torvo ed altereo uno scoglio,
Coronato da antica ruina. […]
Autocertificazione 2950
Più romantica è invece la leggenda di Lotario, nome di un misterioso Signore sotto cui si celava Giovanni Sbogar, un bellissimo quanto crudele filibustiere terrore dell’Istria e del Carso che alternando il suo duplice ruolo di rispettabile benefattore con quello di spietato omicida, trovò il tempo di innamorarsi della dolce Antonia inseguendola ora tra i boschi del Farneto e le calli di Venezia, ora respingendola tra patemi e rimorsi. La ritroverà poi imprigionata nei sotterranei del castello di Duino dopo essere stata assalita e derubata dai suoi segugi e quando ormai consapevole degli inganni e delle malefatte del suo affascinante masnadiero, sprofonderà nella follia e a un triste destino di monaca. (nota 1)
Autocertificazione 2943Nel suo libro Pichler ha riservato pure alcuni paragrafi relativi al supposto soggiorno a Castelvecchio di Duino di Dante Alighieri nel corso del suo lungo esilio; qui, suggestionato dalle scogliere sferzate ora dai paurosi venti boreali ora dalle inquietanti raffiche di scirocco sospinte dal mare, si ritenne avesse scritto alcuni versi della Divina Commedia. (nota 2)
Andrebbe però considerato che la romantica principessa Teresa Thurn-Hohenlohe contribuì a diffondere questa leggenda componendone un poemetto che l’affezionato abate Pichler riportò nel suo testo senza insinuare, forse per rispetto, alcun dubbio in proposito:

Ma qual fu quell’ora armonica che all’Altissimo Poeta echeggiò per l’ onda cheta
Allorché peregrinando Dalla cieca patria in bando, su quel scoglio si fermò
E di là con mente fervida, guardò a Pola ed al Quarnaro
Forse fu quel tocco flebile, ch’ esortando alla preghiera pei fratelli in altra sfera,
Il suo spirito credente avviò pel regno ardente, pel purgante insino al ciel […]

Certo che il quadro “Dante in esilio” dipinto nel 1860 dal veneto Domenico Peterlin sembrerebbe proprio riprendere il poeta su uno scoglio della costa duinese dove sullo sfondo si nota un promontorio quantomeno rassomigliante a quello reale.
781px-Ita_Dante_Alighieri_in_ballingschap_Domenico_Petarlini[1]Ma poiché si è pure un po’ curiosi, si sono fatte alcune ricerche da cui sono emerse alcune interessanti notizie.
Un abate di nome Giuseppe Bianchi (Codroipo 1789 – Udine 1868) bibliotecario per professione e ricercatore per passione, scrisse sull’argomento un libro dal un lungo titolo: Del preteso soggiorno di Dante in Udine od in Tolmino durante il patriarcato di Pagano della Torre e documenti per la storia del Friuli dal 1317 al 1332, Nuova tipografia di Onofrio Turchetto, Udine, 1844, dove si legge il seguente passaggio:

E nel percorrere i profondi valloni, egli andava talora dalla magione patriarcale al torreggiante castello di Duino e benigno lo accoglieva Ugone signore di Duino e dei paesi ove minaccioso il breve Timavo mette per nove bocche nel’Adriatico”.

Un altro abate di nome Giovanni Battista Fanelli nel testo: Vita Di Dante Alighieri Raccolta Dai Migliori Eruditi Ed Illustrata scrisse:

“Il Patriarca Cassano della Torre (1316/1318), nella sua precedente carica di Vescovo di Milano, incoronò Arrigo Re d’Italia nel 1311. La cerimonia si svolse nella Basilica di Aquileia e vi partecipò, oltre al successore del Patriarca Cassano della Torre, Pagano della Torre, anche Dante Alighieri come ambasciatore di Cangrande della Scala. Sembra che in quella occasione proprio Dante sia stato ospitato nel feudo di Duino da Pagano della Torre, non ancora nominato Patriarca (1319/1332)”.

In un recente articolo riportato sul Messaggero Veneto il 22/5/2015, la dottoressa Marisa de Pauli Filipuzzi comunicò che sarebbe stata stampata una delle copie più antiche al mondo dell’Inferno di Dante con un inedito codice risalente tra il 1324 e il 1334 custodito nella Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli. (nota 3)
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In merito alle tracce del passaggio di Dante in Friuli, la ricercatrice ha ripreso le notizie riportate da Domenico (Quirico) Viviani (1784-1835) il quale, studiando un codice trecentesco della Divina Commedia, sostenne che nel Poema si trovassero alcune desinenze nella lingua friulana dell’epoca e che quindi il poeta potrebbe realmente aver soggiornato nelle terre del Patriarcato di Aquileia anche considerando i suoi vasti territori nel corso del 1300.
Nella foto i confini dopo la Pace di Treviso del 1291.
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Forse ci siamo un po’ smarriti tra Storie e Leggende, ma ci è piaciuto dedicarci un po’ alle memorie del tempo riportando quanto scrive l’Alighiero:

Perché appressando sé al suo disire
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.

Note:

  1. Il libro Giovanni Sbogar, pubblicato nel 1818 dallo scrittore francese Charles Nodier (178 – 1844) fu uno dei primi romanzi storici del Romanticismo che nel corso dell’Ottocento si diffuse in tutta l’Europa.
  2. I celebri versi: “ Io venni in loco d’ogni luce muto, / che mugghia come fa mar per tempesta / se da contrari venti è combattuto” appaiono nel V Canto dell’Inferno dove è narrata la storia di Paolo e Francesca.
  3. La Biblioteca Guarneriana, fondata nel 1466 da Guarnerio d’Artegna a San Daniele del Friuli, è una delle prime biblioteche pubbliche d’Europa e comprende 12000 preziosissimi volumi antichi.

FONTI:

Rodolfo Pichler, Il castello di Duino, Memorie, E. Seiser, Trento, 1882;                        http://messaggeroveneto.gelocal.it/tempo-libero/2015/05/22/news/de-pauli-dante-passo-per-gorizia-e-duino-1.11476601

Carlo Nodier, Giovanni Sbogar, Stamp.Carabba, Lanciano, 1926

 

Raimondo e Carlo principi Torre e Tasso

Autocertificazione 2924Nato nel 1907 dal matrimonio di Alexander Torre e Tasso con la principessa Marie de Ligne, il giovane Raimondo si arruolò nell’ esercito italiano durante la guerra in Etiopia. Partecipò poi alla seconda guerra mondiale come volontario in Russia riuscendo a rientrare in Italia grazie a un passaporto diplomatico procuratogli dalla Croce Rossa dell’Ordine di Malta.
Arrivato al castello di Duino e trovandolo occupato dalle forze militari inglesi, iniziò una protesta accampandosi nel piazzale interno in una tenda con tanto di bandiera blu e rossa del Casato, intrattenendosi pieno di risentimento con gli ufficiali-usurpatori. (nota 1)
Dopo le nozze nel Palazzo Reale di Atene del 1949 con la principessa Eugenia di Grecia e Danimarca (nota 2) riuscirà a ritornare al castello di Duino assieme al figlio Carlo nato nel 1952.

Nella foto il principe Raimondo con la moglie principessa Eugenia e i suoceri Giorgio, principe di Grecia e Danimarca con la consorte Marie, principessa Bonaparte.lobianco513Il principe Raimondo finanziò con generose elargizioni di terreni e denari il prestigioso “Centro Internazionale di Fisica Teorica” di Trieste e da convinto fautore della pacifica convivenza tra i popoli, sostenne gli ideali europeistici esponendo già nel 1955 la bandiera bianca e verde dell’Europa Unita sulla torre del castello.

Assieme a Lord Mountbatten, che divenne il primo Presidente, fondò l’esclusivo “Collegio del Mondo Unito”, uno dei dieci in tutto il mondo. (nota 3)
L’illustre principe ospitò a Duino numerosissimi Convegni e Congressi in collaborazione con l’Università, il Centro di Fisica e l’UNESCO.
Nella foto il principe Carlo d’Inghilterra in occasione della sua visita al Collegio del Mondo Unito il 28/10/1984 (nota 4) Autocertificazione 2937Dopo una lunga malattia il principe Raimondo si spense il 17 marzo 1986
Autocertificazione 2920Dopo una semplice cerimonia nella grotta del castello fu sepolto nel cimitero privato del castello.lobianco515
Note:

1. Durante la seconda guerra il castello fu occupato dai tedeschi di Kesserling, da una scuola per SS, dai partigiani di Tito, dai neozelandesi del generale Freyberg, dal comando Alleato del Territorio Libero di Trieste e dal generale inglese Winterton;

2. La di lei madre principessa Marie Bonaparte era discendente diretta del fratello di Napoleone e Filippo di Edimburgo (marito della regina Elisabetta d’Inghilterra) era un suo primo cugino.

3. Dopo la successiva presidenza di Carlo d’Inghilterra, l’istituzione ebbe ai suoi vertici S.M.  Regina Noor di Giordania e il Presidente della Repubblica del Sud Africa Nelson Mandela.

4. Nella sua biografia José Gustavo Martinez, maggiordomo del principe Raimondo, riferì che S.A.R. Carlo ordinò per la cena prosciutto crudo in gelatina e insalata russa, uova strapazzate e macedonia di fruttaAutocertificazione 2919

Carlo Torre e Tasso

Autocertificazione 2922In seguito alla morte del padre il principe Carlo con la moglie Veronique Lantz e i figli Dimitri e Massimiliano (nota 1) si trasferì da “Casa Sistiana” di Saint Tropez al castello di Duino, alloggiando nell’ex-convento riadattato nel parco.
Purtroppo nel giugno del 1997 i Torre e Tasso furono costretti e mettere all’asta gran parte dei preziosissimi arredi dell’antica dimora con argenti, porcellane, quadri, arazzi e pezzi archeologici che pur si erano conservati nel corso dei secoli e salvati dalle distruzioni della grande Guerra come dalle sciagurate occupazioni della seconda.
Con grande generosità il principe Carlo scelse però di consegnare all’Archivio di Stato di Trieste preziosissime documentazioni sulle famiglie dei castellani di Duino oltre a incisioni, foto storiche, la corrispondenza della nonna Marie Thurn und Taxis con il poeta Rainer Maria Rilke e il manoscritto delle “Elegie duinesi” a lei donato.

Nel 2003, dopo alterne vicende i Torre e Tasso decisero di dare un nuovo assetto allo storico castello e di aprirlo al pubblico sia per le visite che per l’organizzazione di eventi e matrimoni

Si potrà ben sostenere che i Torre e Tasso sono parte di un complesso e vastissimo albero genealogico che vanta parentele con la maggior parte dei regni europei (nota 2) e legami con le più antiche e nobili Casate d’Europa.

E si dovrà pure convenire che questo splendido castello con tutte le sue storie millenarie, si trova in un posto unico per caratteristiche naturali dove il Carso va a incontrarsi con il mare e lo sguardo spazia dalle lagune venete alla costiera triestina, da Trieste fino alle verdi colline d’Istria.

Note:

1. Nel 1989 nascerà Constanza;

2. Oltre ai reali di Francia, Austria, Grecia e Danimarca, gli attuali regnanti di Belgio, Svezia e Spagna, anche con la famiglia imperiale russa degli Zar Romanov.

FONTI:

Trieste 1900-1999 Cent’anni di Storia, Publisport, Trieste; Ettore Campailla, IL CASTELLO DI DUINO, Editoriale MGS Press, Trieste, 1996;  Giulia Schiberna, Duino, Edizioni Fenice, Trieste, 2003;

 

 

 

Il Castello Nuovo di Duino

Autocertificazione 2921Nel 1472, dopo il dominio dei Walsee, il nuovo castello di Duino passò agli Asburgo, di cui il bavarese Mattia Hofer fu l’ultimo Capitano.
Con il matrimonio delle figlie Lodovica prima e Chiara poi con un Conte della Torre Valsassina iniziò il dominio del ramo lombardo dei Torriani che ingrandirono l’estensione dell’edificio trasformandolo sempre di più in un centro umanistico e culturale. (Nota 1)
Nel corso delle loro discendenze i Signori di Duino contrastarono diverse incursioni turche e divennero pazienti mediatori tra l’Impero e la Serenissima Repubblica di Venezia; furono grandi mecenati, provvidero alle bonifiche delle terre circostanti fondando scuole e conventi.
Autocertificazione 2928Dal matrimonio di Giovanni Battista III, ultimo discendente dei della Torre, con Polissena, figlia del Governatore di Trieste Pompeo Brigido, nacquero tre figlie di cui Teresa Maria Beatrice (1817 – 1893) sposatasi in seguito con il principe Egon Hohenlohe divenne un’importante castellana trasformando la nobile dimora in un vero centro di cultura e arte.
Donna intelligentissima e di grande cultura, ospitò nei salotti del castello illustri personaggi del tempo tra cui Johan Strauss e Franz Listz, che le dedicò una composizione musicale. (nota 2)

Nel quadro di Ludwig Rubelli von Sturmfest dipinto nel 1833 è rappresentato il castello ai tempi del suo massimo splendore e quanto rimaneva dell’antica Rocca.

Ludwig_Rubelli_von_Sturmfest_Castello_de_Duino_1883[1]

La figlia Marie (1855 – 1934), sposatasi con il principe Alexander von Thurn und Taxis (nota 3) ne ereditò le passioni invitando al castello letterati, musicisti, filosofi e poeti tra i quali il boemo Rainer Maria Rilke con il quale intraprese una lunga e affettuosa amicizia. (nota 4)
Alexander von Thurn und Taxis (1881 – 1937) uno dei 4 figli di Marie, nel 1934 ottenne l’italianizzazione del nome in Torre e Tasso e s’impegnò nella ricostruzione del castello dopo il bombardamento del 1917 (nota 5).
lobianco518Nella foto la Sala Cavalieri del Castello prima della sua distruzione
lobianco516Una delle più travagliate storie del castello fu vissuta da Raimondo, figlio di Alexander e Marie de Ligne, personaggio molto conosciuto e amato a Trieste, al quale ci permettiamo dedicare un articolo a parte.

Note:

1. La dinastia lombarda dei Valsassina (vicino Bergamo) dopo le devastazioni del Barbarossa ricostruirono Milano, i canali del Ticino istituendo il primo catasto; parteciparono alla prima Crociata verso Gerusalemme al seguito di Goffredo di Buglione;

2. Lo spartito originale del brano musicale “La Perla”, ispirato a una delle molte poesie scritte da Teresa, è conservato all’Archivio di Stato di Trieste;

3. I Thurn und Taxis appartenevano a un ramo della famosa dinastia dei grandi maestri di posta;

4. La principessa Marie nel libro Ricordo di Rainer Maria Rilke (Ed- Fenice, Trieste, 2005) narrò la lunga amicizia con il poeta; Autocertificazione 2923

5. Dopo il divorzio con la moglie Marie de Ligne, si sposò con l’americana Ella Walker, ricca ereditiera della famiglia produttrice del whisky “Jonny Walker”

Fonti:

Rodolfo Pichler, Il castello di Duino, Memorie, E. Seiser, Trento, 1882;
Ettore Campailla, IL CASTELLO DI DUINO, Editoriale MGS Press, Trieste, 1996;
Giulia Schiberna, Duino, Edizioni Fenice, Trieste, 2003

LA ROCCA DI DUINO E DINTORNI

ItinTS-Duino[1]Le origini
Tutta la zona intorno alle foci del fiume Timavo fu abitata fin dall’antichità. Gli scavi effettuati nelle caverne del territorio carsico furono rinvenute armi in pietra di abitanti trogloditi risalenti a epoche ben anteriori alle leggende degli Argonauti qui giunti con le navi dopo la caduta di Troia. (nota 1)
In epoche remote, trovandosi il mare più arretrato rispetto ad oggi e tutto il circondario più vasto e rigoglioso, esisteva il Lacus Timavi, formato dall’ansa dei sette rami formati dalle vicine sorgenti del fiume, protetto dalle 2 Insulae Clarae (nel tempo inabissate) e sufficientemente profondo per essere usato come porto. (nota 2)
In seguito alla fondazione della colonia militare di Aquileia nel 181 a.C. , iniziarono le mire espansionistiche dei Romani che nel corso del loro impero, disseminarono vari edifici e splendide ville che si diramavano intorno alla lunghissima via Gemina, di cui ancora oggi rimangono alcune tracce.
Se una tribù Gallica penetrata dalle abilmente debellata non altrettanto semplici furono le guerre con i vicini Istri, esperti naviganti e avidi predatori dei commerci intorno ai porti, contro i quali tra l’anno 178 e 177 a.C. furono combattute delle cruente guerre tra gli eserciti del console romano Manlio Vulsone e quelli del giovane condottiero Epulo.

Dopo il 46 a.C. , quando l’antica Tergeste divenne anch’essa colonia romana con l’assegnazione di un territorio ben presidiato compreso tra i fiumi Timavo, Vipacco e Risano, le incursioni degli Istri cessarono e sulle falde interne alle coste vennero costruiti edifici e residenze disseminati tra fertili campi e rinomati vigneti.

Il dominio dell’ Impero Romano continuò per quasi cinque secoli di relativa pace fino a un progressivo indebolimento dell’Impero causato sia per le interne lotte di potere che per gli alti costi degli eserciti di mercenari a protezione dei territori.
Le disgregazioni delle frontiere resero così possibili le prime invasioni barbariche e dopo la distruzione di Aquileia nel 452 d.C. per opera degli Unni, nel 568 vi fu la calata dei Longobardi che provocarono devastazioni anche nella stessa Tergeste.
Dopo il 580 sull’altopiano carsico fino alle sponde dell’Isonzo si ebbero le scorrerie degli Slavi con dei violenti saccheggi estesi su tutta l’Istria che neppure le colonie militari per la difesa riuscirono a impedire.

Tra il 752 e l’804 gli storici narrano di ulteriori contese tra Longobardi, Franchi e Bizantini fino alla cacciata dei terribili Slavi in “loca deserta” ritenendo che si riferissero proprio alle terre del Carso all’epoca in stato di abbandono.

Per finire il millennio si verificarono poi le scorrerie degli Ungheri in transito nell’Italia settentrionale dove erano avezzi a far piazza pulita su tutti i territori.
Iniziarono così gli oscuri secoli del Medioevo con innumerevoli battaglie tra feudi e feudatari, vassalli e valvassori con la progressiva ingerenza del potere vescovile per la spartizione dei Comuni.

Note:
1. Dall’Eneide, Libro I: “Attraversando achive terre, Antenore le spiagge dell’Illiria raggiunse ed i remoti regni varcati dei Liburni illeso, superò del Timavo le sorgenti onde per nove sbocchi con rimbombo esce dal monte, quale effuso mare e con flutto sonante i campi allaga

2. Durante l’impero di Ottaviano Augusto (63 a.C. – 14 d.C.) su uno dei 2 isolotti sorse uno stabilimento termale che sfruttava una sorgente d’acqua calda.
Riattivato dai Veneziani nel XV secolo e caduto in disuso all’inizio della seconda guerra mondiale, è sorto a nuova vita nel 2014. Valvasor-15531[1]La Carta del Valvasor (1553)

La Rocca

Autocertificazione 2892Le pochissime tracce dei periodi barbarici e medievali possono essere rintracciate solamente tra le numerose chiese superstiti e la Rocca di Duino (nominata anche Castelvecchio), unica struttura in parte miracolosamente sopravvissuta alle lunghe e sanguinose battaglie su queste terre così contese.

Fin dai tempi dell’imperatore Diocleziano nel III° secolo d.C. (nota 1) sulle più alte falesie dell’alta costiera adriatica compresa tra gli antichi porti di Duinum e Sextilium (l’odierna Sistiana) i romani avevano eretto una torre di difesa e di controllo del mare e delle vie retrostanti, ma la fortezza medievale venne costruita su un promontorio roccioso più a ovest rispetto al torrione romano.
Del resto osservando quell’arditissimo scoglio proteso a picco sul mare si conviene che nessun altro luogo poteva immaginarsi più adatto per erigervi un’inespugnabile rocca. Autocertificazione 2894Nella foto il Castelvecchio come appariva in un’incisione di Gabriel Bodenehr eseguita nei primi anni del Settecento.
Le sue dimensioni erano ristrettissime sia per la natura del sito quanto per la necessità di rendere sicure le difese ed efficaci le aggressioni degli assalitori.
I ruderi della rocca ci inducono a credere che per quanto permettesse l’irregolarità dello scoglio, la forma fosse rettangolare e fiancheggiata da torri merlate sostenute da arcate che si appoggiavano sulle rocce della scogliera.
046[1]Nella parte inferiore della torre principale, che fungeva pure da abitazione, si trovava una cappella di cui sono ancora visibili alcune tracce degli affreschi che decoravano le pareti e la volta del soffitto; i viveri venivano disposti in alcuni anfratti scavati nella roccia mentre l’acqua era raccolta in una grande cisterna a cielo aperto.
castel%20vecchio%20di%20duino%20(3)[1]All’altezza di una piccolissima finestrella gotica esiste ancora un leggio in pietra mentre non sono state rilevate tracce di scale in muratura ritenendo che l’accesso al piano superiore avvenisse per mezzo di scale esterne di legno. Infatti sulle mura della torre si notano incavi quadrati ove presumibilmente erano incastrati i supporti della scala, probabilmente mobile, per assicurare in caso di assedio, una perfetta difesa agli abitanti della torre.
Sulla strettissima lingua di terra che si congiungeva alla terraferma era stato scavato uno stretto andito sia per costringere il passaggio di una sola persona che per rendere agevole lo sbarramento al nemico. Autocertificazione 2896Planimetria di Castelvecchio in un disegno di L. Foscan – E. Vecchiet

Note:
1. Nato nella regione Illirica nel 247 d.C. e morto a Salona (odierna Spalato) nel 313;

Le foto della Rocca come appare oggi sono di Manlio Giona.

Note sui 2 castelli

Fin dalla pace del Timavo nel 1112 erano stati definiti i confini del territorio carsico tra il Marchesato dell’Istria e la Contea di Gorizia, entrambi feudatari dei Patriarchi di Aquileia che nel corso del XII e XIII secolo affideranno poi tutti i territori del Carso ai Signori di Duino, detti Duinati.
Come si è scritto nei paragrafi precedenti, considerando le ridottissime dimensioni della fortezza, è stato supposto che gli uomini di armi e servizi dimorassero anche intorno alla torre romana sulla sponda opposta della scogliera.
Nel 1363, sotto il dominio di Ugone VI vennero rinvenute notizie sulla costruzione di un nuovo edificio proprio intorno all’antichissima torre Diocleziana; da allora i due castelli si distinsero con i nomi di Castelvecchio o basso e di Castel nuovo o alto.
Quando i conti di Duino si dichiararono vassalli dei duchi d’Asburgo dopo il 1383 i lavori nel nuovo maniero vennero ulteriormente incrementati.
1655921_1451041815110470_1828896941_n[1]Nel 1395 la famiglia dei Duinati però si estinse e tutta la contea passò all’Austria che la consegnò ai ricchissimi Signori di Walsee che apportarono ulteriori strutture al nuovo castello.

Dal XV secolo l’antica Rocca di Duino venne del tutto abbandonata e in seguito a un’incursione turca avvenuta nel 1476 fu quasi del tutto distrutta.
Eppure ancora su quell’impervio scoglio battuto dai venti alcune parti delle sue storiche mura sono riuscite a sopravvivere con tutte le sue leggende.

Duino, attività sportive nel limpido mare ph Massimo Goina

Duino, attività sportive nel limpido mare ph Massimo Goina

Origini del nome Duino

Nel suo documentatissimo libro Il castello di Duino, Memorie (pubblicato nel 1882) l’abate professor Rodolfo Pichler sostenne di aver rinvenuto un’antica lapide di marmo dove veniva menzionato un certo abitante della Gallia di nome Douinos, vissuto tra il IX e X secolo e defunto nel luogo che da lui avrebbe preso il nome.
Il testo citato Pichler ne riporta la scritta in greco:
Quegli che per ogni sapienza e venustà era celebre / L’eroe Duino, sommamente illustre, qui giace / Dal contado dei Cauni, nella onninamente felice Galizia”.

In un documento risalente al 1121 scritto dal Patriarca di Aquileia Uldarico risulterebbe il nome di Ortuwin (luogo o terra di Duvino), in una pergamena del 1139, dove fu sancito un compromesso di confine con la città Tergeste, fu rinvenuta per la prima volta la scritta Duinum.

Fonti delle notizie:

Rodolfo Pichler, Il castello di Duino, Memorie, E. Seiser, Trento, 1882;
Dante Cannarella, Il Carso della Provincia di Trieste, Ed. Svevo, Trieste, 1998;
Ettore Campailla, IL CASTELLO DI DUINO, Editoriale MGS Press, Trieste, 1996;

Il colle Cacciatore

Nei primi anni dell’Ottocento fu creata una società, presieduta dal negoziante Ignazio Czeike, per tracciare un sentiero che dalle falde del Boschetto portasse agilmente alla vetta del colle Cacciatore, così chiamato per il guardiaboschi che lì risiedeva.Nella primavera del 1817 venne finalmente aperta alla cittadinanza la strada a serpentina che conduceva in cima alla collina dove, oltre alle passeggiate tra i boschi i cittadini potevano usufruire di una trattoria con i tavolini all’aperto, di un campetto per il gioco dei birilli e di uno spazio per il tiro a segno.boschetto5

Quando nel 1844 Ferdinando I donò al Comune di Trieste i terreni boschivi nella zona del Cacciatore, si pensò di valorizzare tutta la zona con la costruzione di un elegante albergo per i soggiorni dell’élite cittadina commissionando i progetti all’architetto berlinese Friedrich Hitzig.
In seguito all’atto di cessione del 1854 iniziarono i lavori e nel 1857 fu inaugurato il bell’edificio in stile tardo rinascimentale chiamato Ferdinandeo in onore dell’imperatore d’Austria che ne elargì i fondi. Sulla balaustra tra le due torrette laterali al corpo principale del palazzo venne deposto il busto di Ferdinando I con le statue allegoriche della Giustizia e della Gloria e una targa che ricordava la donazione.
Autocertificazione 2369L’ albergo Ferdinandeo venne frequentato da una raffinata clientela che con la bella stagione amava passeggiare tra i boschi e di sera ballare nel salone decorato con colonne e stucchi dorati o starsene al fresco nella terrazza al pianoterra.

La zona intorno, rimasta del tutto incolta, interessò il ricchissimo barone Pasquale Revoltella (Venezia 1795 – Trieste 1869) che essendo alla ricerca di una degna sepoltura per sé stesso e per la madre Domenica (nota 1) ne acquistò una buona parte.
Proponendo al Comune e al vescovo Bartolomeo Legat il progetto di una chiesa, il barone dovette svolgere un lungo iter burocratico per ottenere i permessi.  Nell’ attesa commissionò all’ingegner Giuseppe Sforzi (nota 2) la costruzione di un rustico chalet per trascorrervi brevi vacanze tra una battuta di caccia e l’altra. Fu allestito anche uno uno splendido giardino dotato di vialetti, curatissime aiuole e una grande serra per la coltivazione di piante rare e frutti esotici tra cui i famosi ananas che venivano offerti negli spettacolari banchetti nella principesca residenza di piazza Venezia. (nota 3)Autocertificazione 2372

Autocertificazione 2373Ottenuti tutti i permessi, il barone Revoltella affidò all’architetto praghese Joseph Andress  Kranner i progetti per erigere la chiesa con la cripta sotterranea, ma solo nel 1863 iniziarono i lavori che si protrassero per 4 anni.Autocertificazione 2367Autocertificazione 2368
La chiesa di San Pasquale Bylon fu consacrata il 17 maggio 1867 dal vescovo Legat (nota 4) e dotata di una rendita per la sua manutenzione assieme a quella del parco. Il barone volle inoltre assumere il cappellano e il sacrestano assicurando il loro alloggio nella casa a sinistra dell’ingresso principale con l’impegno di destinarla a Scuola del Contado.
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Nota 1 : Sepolta dal 1830 al Cimitero di Sant’Anna

Nota 2 : Sui disegni dell’architetto Friederich Hitzig

Nota 3: Vedi articolo: https://quitrieste.it/il-barone-pasquale-revoltella/

Nota 4 : Divenuta parrocchia solo nel 1966

La chiesa San Pasquale Bylon lobianco801
Dalla doppia scalinata dell’elegante edificio religioso costruito in pietra bianca del carso si entra nella loggia a tre arcate a porzione di circolo appoggiate sopra le colonne binate e quindi nella splendida chiesa a forma di croce greca sormontata da una cupola ottogonale dipinta a cielo stellato con 8 occhi circolari in vetro istoriato.
Gli interni sono rivestiti in alabastro egiziano riquadrato di cardiglio e rosso di Verona, sulle pareti laterali si ammirano gli affreschi di Domenico Fabris (Osoppo 1814-1901) che rappresentano degli episodi della vita di san Pasquale Bylon.lobianco804Molto bello l’affresco dorato di Trenkwald sulla volta dell’abside raffigurante i 12 apostoli e l’Ascensione di Cristo tra gli angeli. lobianco807

Sepolcro di Pasquale Revoltella Sotto l’elegante struttura progettata dal Kranner, si accede alla suggestiva cripta che accoglie le spoglie di Domenica e Pasquale Revoltella conservate in loculi a forno di lato all’altare a mensa dove è posta una splendida Pietà dello scultore viennese Francesco Bauer, fusa in bronzo da W. Brose. HPIM0468lobianco800

Pasquale Revoltella spirò dopo soli due anni dall’inaugurazione della bella chiesa.

Il parco di Villa Revoltella, esteso su un’area di 50.000 mq. è stato in seguito dotato di un lungo colonnato con panchine di sosta e una gradinata verso i campi giochi e di basket, una pista di pattinaggio e una fontana con il celebre Pinocchio di Nino Spagnoli.
Sempre molto curato il giardino e il laghetti davanti la bianca chiesa di San Pasquale Bylon, scelta dai concittadini per romantici Wedding.Autocertificazione 2370

Fonti:
Silvio Rutteri, TRIESTE Spunti dal suo passato, E. Borsatti Editore, Trieste, 1950;
Una chiesa, una storia, una vita a cura della Comunità Parrocchiale di San Pasquale, Arti Grafiche Stella, Trieste, 1997;  foto collezione personale

 

L’acquedotto romano di Val Rosandra

IMG_0242L’acquedotto romano, risalente al I° secolo d.C., testimonia lo straordinario ingegno idraulico della florida civiltà romana che nell’antica Tergeste e intorno ai sui suoi territori ha lasciato reperti di grandissimo interesse archeologico.
La sua base era costituita da un conglomerato di pietre e malta sovrastato da due muri laterali di piccole pietre squadrate per una larghezza di circa 55 cm. che però variava a seconda dei tratti e della pendenza la cui media si attestava al 2%. A causa degli smottamenti dei detriti di falda non si è stabilito se l’acquedotto fosse un canale scavato o se corresse su delle arcate sopraelevate emerse in alcuni punti.
L’acqua veniva prelevata da una sorgente situata nel corso medio del torrente Rosandra, alla base del Crinale sotto il monte Carso, e dopo aver costeggiato monte San Michele riceveva un secondo ramo proveniente da San Dorligo (nota 1) e un terzo da quello dell’ Antro di Bagnoli (nota 2) (nota 3).

Da qui iniziava la condotta sotterranea che attraverso i 16 – 17 chilometri di lunghezza veniva convogliata in un fontanone pubblico nella zona di piazza Cavana fornendo l’approvvigionamento dell’acqua a tutta la colonia tergestina.
Tracce dell’acquedotto vennero trovate alla fine di via Bramante (nota 4) e in via Madonna del Mare dove, nel 1805, venne scoperta una galleria lunga 264 metri.
Questa importante opera idraulica romana fu descritta dallo storico Ireneo della Croce ((Trieste 1625 – Venezia 1713) nella sua Historia antica e moderna, sacra e profana della città di Trieste e in seguito studiata dal professor Girolamo Agapito (Pinguente d’Istria 1783 – Trieste 1844).

Quando nel 1815 l’architetto Pietro Nobile valutò che le acque trasportate nel canale sotterraneo potessero ammontare a ben 5.800 metri cubi nelle 24 ore, Domenico Rossetti volle propugnare il ripristino di quel notevole approvvigionamento e a seguito della terribile siccità verificatasi nel 1827 avanzò una richiesta ufficiale al governo austriaco.
Si presume che l’acquedotto romano funzionò fino al V o VI secolo quando, per la contrazione demografica, per il progressivo impoverimento della città e l’isolamento di tutto il territorio carsico, sarà abbandonato a sé stesso per lungo tempo.

Considerando che dalla fonte di Val Rosandra al fontanone di Cavana il dislivello è di soli 90 metri, l’acquedotto romano del nostro territorio fu un opera davvero straordinaria sia per l’accuratezza delle misurazioni che per la sua sopravvivenza a ben due millenni di storia.

NOTE:
1. Rinvenuto nel 1954 durante gli scavi alle fondamenta di una casa a Crogole;

2. Si ritenne che i tre rami dell’acquedotto convogliassero in una grande vasca di raccolta;

3. Nel 1976 a Borgo San Sergio venne rinvenuto un manufatto proveniente dall’acquedotto di Bagnoli lungo 216 metri e con una pendenza dell’1,1 per mille a mezza costa della collina (in una quota do di 74 metri) costituito da blocchi irregolari di arenaria legati con malta. Il segmento era dotato di cinque pozzi posti ad una distanza variabile da 30 a 36 metri;

4. Un segmento di 10,65 metri (a sezione quadrata) dell’acquedotto in pendenza verso via Bramante venne scoperto durante gli scavi del 1902.

FONTI:
Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, LINT Editoriale, 1998-2004, Trieste
Siti vari su Internet

http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2015/03/21/news/a-bagnoli-riaffiora-un-acquedotto-romano-1.11089881

 http://www.museifriuliveneziagiulia.it/scheda_museo.html?id=58

L’ultimo soggiorno di Carlotta a Miramare

Tra tutti i personaggi della Trieste di un tempo e particolarmente tra quelli della dinastia degli Asburgo, la principessa reale Marie Charlotte de Saxa-Coburgo-Gotha ha sempre avuto un ruolo marginale e comunque avvolto dall’ingenerosa fama della sua pazzia. Eppure la sua storia tormentata presenta degli aspetti controversi e più intriganti rispetto alla cognata Sissi, la celebratissima Elisabeth von Wittelbach, moglie del potente Francesco d’Asburgo-Lorena.
Se l’avventurosa vita di Massimiliano e le drammatiche vicende messicane sono state documentate e riportate in una bibliografia planetaria si trovano poche notizie su quelle vissute da Carlotta che pur condivise con lui dieci lunghi anni di storia.
Ma i gravissimi fatti accaduti, l’allontanamento forzato dal marito a cui è certo fosse legata da un grande affetto, la comprensibile delusione di un Impero per sempre perduto sarebbero sufficienti a scatenare la follia o avvenne qualcos’altro di ancora più drammatico della cinica indifferenza della corte asburgica, francese, spagnola e vaticana? E se pure la situazione fosse stata, come effettivamente è stata, così perversamente ostile alla nobile coppia da indurre Carlotta a un grave crollo di nervi, è credibile che non avesse potuto risollevarsi riacquistando il senso della realtà?
Addentrandoci nello specifico argomento si sono trovate diverse e come vedremo discutibili notizie sull’esordio della malattia ma quasi nulla su quanto veramente avvenne nei 10 mesi di reclusione al Gartenhaus di Miramare.Così alla Biblioteca di Storia e Arte ho trovato gli interessanti articoli che lo storico Oscar de Incontrera scrisse per la rivista La Porta Orientale (Anno VII, numeri 5 e 6 di maggio-giugno 1937) dal titolo:
L’ultimo soggiorno dell’Imperatrice Carlotta a Miramare secondo documenti inediti
Le sue pazienti ricerche sulle corrispondenze del Consolato di Spagna a Trieste, il Ministero degli Esteri di Madrid e sulle relazioni dei medici inviati sia da Massimiliano che dalla Corte del Belgio inducono a riflettere sugli inquietanti indizi raccolti dai personaggi vissuti ai tempi in cui si svolse il dramma di Carlotta.

Il lungo racconto è stato compreso in una serie di articoli che qui elenchiamo in ordine cronologico per una lettura più agevole:

– La cronologia https://quitrieste.it/carlotta-del-belgio-cronologia/  (18 gennaio)

– Le documentazioni https://quitrieste.it/lultimo-soggiorno-a-miramare-di-carlotta-del-belgio/  (23 gennaio)

– L’antefatto e il viaggio allo Yucatan https://quitrieste.it/carlotta-imperatrice-del-messico/   (27 gennaio)

– Il ritorno di Carlotta a Miramare: i fatti (Ia parte) https://quitrieste.it/il-ritorno-di-carlotta-a-miramare/  (4 febbraio)

– Carlotta a Miramare: i fatti (IIa parte) https://quitrieste.it/carlotta-a-miramare/ (10 febbraio)

– Massimiliano e Carlotta: l’epilogo https://quitrieste.it/massimiliano-e-carlotta/ (14 febbraio)

– Il testamento di Massimiliano d’Asburgo https://quitrieste.it/il-testamento-di-massimiliano-dasburgo/ (20 febbraio)

– L’addio di Massimiliano a Trieste https://quitrieste.it/laddio-di-massimiliano-a-trieste/ (22 febbraio)

Gabriella Amstici

La misteriosa morte di Diego de Henriquez

Alle 23 e 12 minuti del 2 maggio 1974 dal telefono di emergenza dei Vigili del Fuoco arrivò una concitata segnalazione dell’uscita di fumo dal magazzino di via San Maurizio n.13. Dopo pochissimi minuti i vigili sfondarono il portone d’ingresso trovandosi nel mezzo di un incendio propagato quasi tutto il locale senza accorgersi che in uno stanzino si trovava il cadavere del suo occupante.
Diffusasi in un battibaleno la notizia, sul posto si accalcarono giornalisti, fotografi e curiosi mentre in un indescrivibile caos, tra la puzza di fumo e i rivoli d’acqua, gli inquirenti avanzando con le torce tra i cimeli distrutti trovarono i resti carbonizzati dello studioso-collezionista Diego de Henriquez.
Un incidente, si pensò, presupponendo che la caduta di un fornello elettrico avesse dato fuoco alle pile di libri e giornali disseminati nello stanzino dove il professore era stato sorpreso nel sonno nel suo letto-bara accanto alla scrivania (nota 1).
Le forze dell’ordine attestando dunque la causa accidentale, non ritennero di eseguire l’autopsia e meno che mai di indagare su tutto l’ingentissimo inventario di materiali, cimeli e documentazioni raccolti da Henriquez nel corso della sua vita.
L’inchiesta giudiziaria venne così archiviata il 9 luglio impedendo ai famigliari di poter intervenire sulle reali cause dell’ “incidente”.

Dopo l’evento accaddero però dei fatti che provocarono illazioni e commenti anche da parte della stampa: si parlò di furti nel museo-deposito, della sparizione dei diari sulla Risiera avanzando dei dubbi sulla dinamica dell’incendio.
Dalle indagini condotte da qualche giornalista zelante si venne a sapere che Henriquez era entrato solo una ventina di minuti prima del violento incendio e che negli ultimi tempi era stato avvicinato da strani personaggi (forse appartenenti a un certo entourage omosessuale oppure interessati ad acquistare parti delle sue stratosferiche collezioni) procurandogli dei tali sospetti da costringerlo a girare con una pistola carica.
Alcune voci circolanti parlarono che la sua morte coincideva “stranamente” con l’imminente processo dei criminali del lager di San Sabba e che i nomi dei loro collaboratori italiani fossero trascritti proprio su quei diari scomparsi.
Sotto l’incalzare dell’opinione pubblica e della famiglia, la magistratura riaprì una seconda inchiesta affidandola al sostituto procuratore Gianfranco Fermo che, partendo da un fatto dichiarato accidentale, non fu però in grado di effettuare le azioni giudiziarie previste da un omicidio.
Inoltre, dopo lo scavo per il riesame della salma, vennero trovati dei resti così decomposti da non permettere dei referti attendibili sulle radiografie e sulla presenza di alcuni fili di rame che avrebbero avvolto il corpo di Henriquez quando venne trovato nella sua bara- dormitorio.
“Segreto istruttorio” rispose il procuratore Fermo all’incalzare dei giornalisti. Nella relazione finale del novembre 1975 però, pur ribadendo la grave mancanza dell’autopsia all’indomani del fatto, concluse di non aver trovato prove certe di un atto doloso.
Fu dunque un tragico incidente o un omicidio reso “perfetto” dalle omissioni d’indagine? Un mistero che dopo quarant’anni resiste ancora oggi.

Nota:
(1) Negli ultimi tempi Henriquez usava dormire con il volto coperto da una maschera di samurai giapponese (Guido Botteri, articolo “Luci e ombre di una vita”)

Fonte:
Tito Manlio Altomare, articolo pubblicato sulla rivista La Bora, Trieste, ottobre-novembre 1979.

Diego de Henriquez

Diego de Henriquez nacque a Trieste nel 1909 (nota 1) in una famiglia che amava definire “di solide tradizioni militari” asserendo che i suoi avi avessero partecipato addirittura alle Crociate, alle guerre napoleoniche e risorgimentali continuando a combattere nelle due guerre mondiali.
Figlio di un agente di cambio (divenuto nella prima guerra ufficiale del Genio austriaco) e di una madre bellissima (nota 2) che sembra lo avesse allevato come una femminuccia (nota 3), il giovane Diego iniziò a dedicarsi precocemente alle più disparate invenzioni raggiungendo, senza vocazione né interesse, il diploma di capitano marittimo all’Istituto Nautico.

Nel 1926, assieme a Eugenio Zumin e Mario Franzil (nota 4) fondò la SAT, Società di Archeologia Triestina, scoprendo interessanti reperti nelle grotte di rio Ospo (che documentarono i passaggi di Veneti e Turchi nel nostro territorio) e di Luppogliano (donati in seguito al museo di Postumia) (nota 5).

Trovato un impiego presso la Società di navigazione Libera Triestina (in seguito riassorbita dall’Adriatica) a 19 anni si sposò con la figlia di un benestante proprietario terriero di San Daniele del Friuli da cui, oltre alla consistente dote, ebbe 2 figli: Maria Adele e Alfonso.

Richiamato alle armi dal Regio Esercito italiano nel marzo 1941, fu assegnato alla “Compagnia Deposito” a San Pietro del Carso, dichiarata già il mese successivo in stato di guerra.
Dopo una serie di colloqui con il superiore colonnello Ottone Franchini, ottenne l’incarico di raccogliere e selezionare il “materiale P.B.” (preda bellica) per il futuro “Museo Storico di Guerra e di Pace” di cui in seguito sarebbe divenuto Direttore.

Dimessosi nel 1948 dalla Società Adriatica di Navigazione (nota 6) e vendendo progressivamente i beni immobili quanto prosciugando tutte le risorse finanziarie della famiglia, si dedicò completamente alle sue strabilianti collezioni iniziate – con gli aiuti dello storico Pietro Sticotti e dell’archeologo Carlo de Marchesetti – ben vent’anni prima, nonché alla scrittura degli enciclopedici “diari” compilati con incredibile costanza.

Per oltre mezzo secolo Diego de Henriquez prese contatti con tutti gli eserciti del Friuli e della Venezia Giulia: iniziando da quello austriaco passò al Regio italico proseguendo con quello del Terzo Reich, poi con lo jugoslavo (durante l’occupazione di Trieste nei 40 giorni), accordandosi in seguito con gli ufficiali inglesi e americani (di stanza in città fino al 1954) e successivamente ancora con l’Esercito Italiano, divenuto questa volta repubblicano.
Per l’appassionato collezionista le diverse armi erano soltanto dei potenziali fornitori – possibilmente gratuiti – del suo museo e a testimonianza del suo chiacchierato quanto insussistente collaborazionismo, vi furono ben 18 arresti (sia pur di breve durata) da parte delle varie polizie militari per le sue presenze non autorizzate in zone proibite o per le foto scattate in zone strategiche.
Il maniacale e persino ossessivo collezionismo non solo fu sempre finalizzato come suo esclusivo e personale museo e quindi privo di qualsiasi tornaconto, ma fu anzi la causa di una situazione pesantemente debitoria nei confronti dei vari finanziatori, alcuni dei quali si dimostrarono sempre più avidi e spietati (nota 7).

Negli ultimi anni di vita di Henriquez divenne così una sorta di barbone che accattonava qualche piatto di minestra nelle più malfamate bettole della città diventando vittima dell’alcolismo, di patologie sessuali e di una violenta aggressività di cui, a raptus superato, chiedeva in lacrime il perdono. (nota 8).

In aggiunta a questa complessa situazione, venne preso pure da uno sconcertante spirito futurista che, intorno agli anni Sessanta, trascrisse sulle pagine del suo “diario paranormale” dove emergevano le vendette del profeta inascoltato.
Questa sua controversa attestazione fu confermata da Aldo Bobek, il suo più stretto collaboratore nel riordino e la custodia di tutto il materiale (nota 9) che dichiarò di essere stato chiamato “ telepaticamente” dall’amico la notte dell’incendio ma di essersi precipitato nel magazzino di via San Maurizio quando ormai era troppo tardi.
“Vivrò ancora molto a lungo, se non subirò incidenti” diceva Diego de Henriquez solo qualche giorno prima della sua morte che invece avvenne la notte del 2 maggio 1974.

Lo stesso magistrato Gianfranco Fermo alla fine delle due inchieste su quello che venne definito “un incidente” valutò le precarie condizioni psico-fisiche in cui Henriquez si trovava come una possibile, fatale causa della sua tragica fine.

NOTE:

(1) In via delle Acque, oggi via Timeus;

(2) Una Micheluzzi originaria di Gradisca d’Isonzo;

(3) Le cronache ipotizzarono che all’origine delle future distorsioni psicologiche e dell’omosessualità di Henriquez fosse stata la “prosperosa e brillante” personalità della madre e il suo contorto rapporto con il figlio;

(4) Mario Franzil diverrà sindaco di Trieste, Eugenio Zumin presidente della Corte d’Appello;

(5) La tutela pubblica del patrimonio archeologico entrò in vigore solo dopo il 1939;

(6) Alcune cronache avanzarono l’ipotesi di un possibile licenziamento causato dalla sua “svagatezza”;

(7) Il celebre “Ponte verde” sul Canale fu un recupero creditorio come rottame di ferro.

(8) Nel suo articolo “Luci e ombre di una vita” Guido Botteri accennò al drammatico squarcio sul mondo sommerso dello strozzinaggio cittadino di cui le documentazioni riportate nei minuziosi diari di Henriquez sarebbero una testimonianza.

(9) Fu Bobek che rimise in funzione tutti i carri armati arrivati come rottami nel centro di Trebiciano.

FONTI:
Guido Botteri, articolo “Luci ed ombre di una vita” pubblicato sulla rivista La Bora, Trieste, ottobre-novembre 1979;
Antonella Furlan, Civico Museo di guerra per la pace Diego de Henriquez, Rotary Club Trieste, 1998;
Foto: Civici Musei di Storia e Arte