Archivio mensile:dicembre 2013

Il trittico di Santa Chiara

In una stanza rigorosamente climatizzata del Museo Sartorio è esposta al pubblico una splendida opera d’arte di pittura veneziana risalente alla prima metà del Trecento.
Il trittico è composto da:
– Una tavola centrale con 36 riquadri, di cui 34 raffigurano episodi della vita di Gesù e gli ultimi 2 la morte di Santa Chiara e le stimmate di San Francesco;
– Due portelle laterali dove a sinistra appaiono i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, San Giusto e San Sergio, San Lazzaro e Sant’Apollinare; a destra La Pietà e la Madonna della Misericordia, un Vescovo con un ramo d’ulivo, Santa Barbara, Santa Caterina e Santa Margherita.
A trittico chiuso sono raffigurati sull’ala sinistra San Cristoforo e su quella destra San Sergio con l’alabarda di Trieste a conferma che l’opera venne eseguita per la città.
Il grande riquadro centrale è attribuito al maestro di maniera bizantina Marco Veneziano e datato intorno al primo decennio del XIV secolo.
Le portelle laterali sono riconducibili invece a Paolo Veneziano, primo importante esponente della pittura veneziana del Trecento o a un suo strettissimo collaboratore.

Il dipinto apparteneva in origine al Monastero di San Cipriano le cui monache avevano aderito alla regola di Santa Chiara fin dall’epoca della sua fondazione nel 1278 per poi passare nel 1367 a quella di San Benedetto.
Nella seconda metà dell’Ottocento il prezioso trittico fu donato al dottor Lorenzutti, medico e letterato triestino che poi lo lasciò in eredità al Comune di Trieste per essere visibile al pubblico.

Questo scenografico e antichissimo trittico assieme ai fantastici disegni del Tiepolo conservati al secondo piano di Palazzo Sartorio rendono imperdibile la visita al museo Sartorio che conserva moltissime altre opere d’arte, pregiati arredi, collezioni d’arte di inestimabile valore, una stupefacente gipso- gliptoteca nel contesto di un parco recentemente risistemato dalla nostra grande mecenate Fulvia Costantinides.

Articolo tratto da Lorenza Resciniti, Il Civico Museo Sartorio di Trieste, Rotary Club)

Storie e leggende di Monte Lussari

Vorremmo qui riproporre la sintesi di un articolo scritto da Maurizio Bait sul Gazzettino in data 14 agosto 2005.
Si ritiene che anche le leggende possano in qualche modo far parte della storia o che quantomeno vi apportino una ventata di poetica fantasia senza urtare il “sentire” di alcuno.

Maria Lussari
Non cercate la strada dei pellegrini e le sue dodici stazioni verso la cuspide della Montagna Sacra. Non cercate cartelli, non gettate lo sguardo in cerca di una strada poiché quella che sembra una mulattiera si dissiperà subito dietro il negozio di tute attillate collocato tra la pista di fondo e le batterie d’artiglieria di neve artificiale. Nessuno la percorrerebbe, si va in telecabina con lo skipass. Ma un tempo generazioni di sciatori hanno solcato le nevi che coprivano il Campo dell’Angelo, che ora il mutevole serpente del metanodotto e le generose colate di cemento dei condomini per vacanze hanno trasformato in una grande giostra.

Un tempo su quel Campo aperto sulla Val Canale i Viceré d’Italia e quelli dell’Arciduca Alessandro si scontrarono in una battaglia decisiva: Bonaparte intimava lo sbocco all’Austria e alla spianata di Vienna, mentre i bianchi soldati d’Asburgo tentavano l’estrema difesa del portale di Coccau. Il prato fu coperto da così tanto sangue che da allora venne chiamato Campo Rosso.
L’Angelo ha combattuto il freddo di duecento inverni e il diluvio d’odio e di morte di due guerre mondiali.

A mezza via tra Storia e Mito si racconta che un tempo quel luogo contornato da solenni montagne era un alto pascolo per le bestie e garantiva la sopravvivenza per le povere famiglie della Kanaltal.
Un giorno il gregge di un giovane pastore si attardò sulle balze del monte Lussari ma alcune pecore improvvisamente si staccarono dal gruppo. Dopo averle cercate pieno d’angoscia, il ragazzo le vide inginocchiate al cospetto di un simulacro della Madonna nascosta in un cespuglio di ginepro. Colmo di rispetto e di mistico timore il pastore la consegnò al parroco di Campo Rosso che però non vi fece caso e la ripose sopra l’armadio.
Quando l’indomani si avviò ai pascoli d’alta quota, si verificò un evento straordinario: tutto il gregge si diresse verso la cima del monte Lussari e s’accucciò davanti l’immagine lignea della Madonna misteriosamente riapparsa tra i rami di ginepro. L’effigie fu ricondotta al paese per tre volte ancora finché fu deciso di costruire sulla vetta un santuario dove Lei potesse essere accolta vegliando su quei tre Stati dove fu sparso tanto sangue.
Nel corso di ogni guerra quella piccola Madonna scolpita nel legno veniva precipitosamente portata a valle per preservarla dal fuoco per poi essere ricondotta nella sua chiesa in segno di pace e fratellanza.

Un’altra leggenda narra che in un tempo lontano un cacciatore senza scrupoli puntò il suo fucile contro un giovane camoscio al pascolo sulla Sella Prasni di Val Saisera.
L’impietoso proiettile penetrò invece nella falda della Montagna Sacra e subito dopo l’uomo s’irrigidì trasformandosi lentamente in una roccia. Così sotto le imponenti muraglie del Jôf Fuart, del Montasio e del Lussari si può scorgere il grande Cacciatore di pietra come memoria di quell’antico oltraggio.
Il cammino sulla strada dell’Angelo verso Monte Lussari divenne così una meta obbligata per migliaia e migliaia di pellegrini.

Dopo i tragici avvenimenti dell’ultima guerra finalmente Maria Lussari fu testimone del primo incontro transnazionale alla frontiera di Coccau, dove nel settembre del 1943 un inferocito von Ribbentropp aveva appreso dagli italiani che l’Italia non era più in guerra con gli alleati ma che erano pronti a difendersi in caso di azioni ostili da qualsiasi parte fossero pervenute. Da Tarvisio era così ripartito un vagone carico di soldati verso l’entroterra dell’Europa dove sventolavano ancora le bandiere del nazional-socialismo. Era la vigilia dell’invasione. Pochi giorni dopo la Wehrmacht attraversò le Alpi iniziando uno scontro violentissimo con gli italiani asserragliati alla Caserma Italia in cima alla via Romana di Tarvisio. Furono tutti sterminati.
Poco dopo un battaglione di SS a cavallo entrò a Camporosso accolto da un grande cartello “Benvenuti liberatori” e da festanti fanciulle che gettavano fiori.

Il santuario di Maria Lussari veglia ancora su quelle terre dove per l’odio e le guerre furono perdute molte vite e consumate grandi sofferenze accogliendo gioiosamente escursionisti e sciatori come in tempi ormai dimenticati aveva accolto i pellegrini.

 

El tram de Opcina

La Strada Commerciale che da piazza Levatoio (attuale piazza Dalmazia) raggiungeva Opicina fu costruita tra il 1777 e il 1781 dal primo governatore di Trieste Karl von Zinzendorf con l’intendimento di prolungarla verso Sesana, già collegata a Vienna e Lubiana. Il progressivo aumento dei traffici portuali e la difficoltà di transito (peraltro a pagamento) causato dalla forte pendenza della via, indussero a studiare altri tracciati.
Su istanza del conte Domenico Rossetti, l’imperatore Francesco I° realizzò così la Nuova Strada per Opicina che, inaugurata nel 1830, risaliva il colle con una serie di più agili e panoramici tornanti.
Per avvicinare gli abitanti del Carso alla città, l’ingegner Eugenio Geiringer, già direttore dei lavori per il nuovo palazzo comunale e progettista per quello delle Generali, studiò la possibilità di costruire una funicolare tra la via Pauliana e il colle di Scorcola. Il progetto, sostenuto da importanti esponenti del mondo economico-finanziario triestino e dalla società elettrica Union di Vienna, fu approvato il 9 gennaio 1901 anche se con una serie di polemiche vox populi per il fatto che la linea funicolare sarebbe passata sui terreni di Geiringer, proprietario dello splendido castelletto di Scorcola e degli azionisti della Società che avrebbe gestito i lavori.

Il percorso su rotaia sarebbe iniziato da piazza della Caserma (attuale p.zza Oberdan) per proseguire sulla vecchia via Commerciale raggiungendo l’Obelisco dopo 5.175 km. e un dislivello di 329 m. su una pendenza del 26%. La trazione elettrica continua di 560 Volt veniva integrata con un impianto a cremagliera a due vagoncini di spinta del peso di 10,6 tonnellate dotati da due motori da 100 cavalli ciascuno e uno speciale dispositivo di sicurezza detto “dentata Strubb” che assicurando una maggiore aderenza evitava gli spostamenti verticali o laterali o possibili deragliamenti in caso di brusca frenata. Nelle discese, per rallentare le vetture, il conduttore poteva ricorrere sia al freno meccanico che a quello elettrico e in caso di urgenza a un freno a nastro.
La linea tramviaria a un unico binario, che diveniva doppio solo in 7 punti di incrocio, venne terminata nell’aprile del 1902. Dopo severissime ispezioni fu inaugurata il 10 settembre fra la soddisfazione delle autorità e l’entusiasmo dei cittadini.
Il parco macchine con il caratteristico color verde era inizialmente composto da 3 vetture aperte e 5 chiuse lateralmente e copriva la distanza dei due capolinea in 32 minuti con il costo di 80 centesimi per l’andata e 50 per il ritorno.

Durante il tremendo periodo della prima guerra mondiale le carrozze vennero attrezzate per il trasporto dei soldati feriti all’ospedale militare e dopo la crisi economica degli anni Venti tutta la linea aveva necessità di essere rinnovata. Nel 1928 il tratto a cremagliera fu trasformato in funicolare e fra il ’35 e ’36 entrarono in servizio 5 nuove motrici a carrelli Stanga-Tibb più ampie e dotate di una buona illuminazione e sedili più comodi.
Superata anche la seconda guerra con danni contenuti, il Governo Militare Alleato costruì nuovi insediamenti abitativi a Cologna, Villa Carsia e Villa Gulia che trovandosi vicine al percorso della trenovia incrementò i suoi passaggi.
Nel 1961 la gestione della linea passò al Comune, nove anni dopo all’ACEGAT e nel 1976 all’ACT che intraprese una ristrutturazione.
Negli anni Ottanta fu imposto un ulteriore ammodernamento dell’impianto con un sistema automatico di azionamento e controllo che funzionò fino agli anni Duemila quando subentrò la Trieste Trasporti.

L’incidente
Disgraziatamente dopo un solo mese di attività per il mancato funzionamento dei freni a causa dell’umidità la vettura numero 2 deragliò nella discesa presso la stazione di Scorcola “dando di cozzo nell’angolo della casa colà situata e rovinando alcuni alberi di sostegno dei fili aerei” spiegò laconicamente sulle pagine de Il Piccolo la Società Anonima delle Piccole Ferrovie che gestiva la linea suscitando un finimondo di commenti. Sembrerebbe essere stato appurato che la mattina del 10 ottobre 1902 il frenatore fosse giunto in anticipo alla stazione di Scorcola e anziché attendere la locomotiva di accompagnamento iniziò la discesa da solo e senza aver preventivamente ricoperto i binari dalla necessaria sabbia in quanto i contenitori erano vuoti. Così alla prima curva deragliò sfasciandosi contro l’abitazione di Francesco Spehar e abitata dal gioielliere Natale Napoleone che per fortuna, si fa per dire, non c’era. Il frenatore e il bigliettaio si lanciarono fuori dal tram riportando solo qualche graffio mentre un operaio rimasto rannicchiato sul pavimento della vettura riportò la frattura della clavicola. Poiché fu stabilito che la causa dell’incidente fu la mancanza della sabbia per evitare lo scivolamento sul binario, il frenatore fu prosciolto e riprese il lavoro, la casa del signor dello Spehar fu invece destinata alla demolizione.

Dopo i lavori di ammodernamento del materiale rotabile e dell’impianto fisso avvenuti negli anni Ottanta, il tempo di percorrenza dal capolinea di Piazza Oberdan al quadrivio di Opicina risultava essere di 25 minuti con un intervallo di corsa di 20 minuti.
Purtroppo però dopo una serie di incidenti nel 2012 gli amministratori furono costretti a un periodo di stallo, che prosegue tuttora, per provvedere alle sostituzioni di ampi tratti di binario.
Si spera che gli attuali problemi legati a vincoli paesaggistici con quelli monumentali possano essere risolti e che il nostro “tram de Opcina” possa ripartire dal prossimo anno.

Gabriella Amstici

Notizie tratte da: Stella Rasman, Cent’anni col Tram, MGS PRESS, Trieste, 2002

Foto 1: La carrozza n.1 in piazza della Caserma (oggi piazza Oberdan) (COLLEZIONE ANCONA)

Foto 2: La motrice n.5 a Vetta Scorcola nel 1904 (COLLEZIONE DI MATTEO)

Foto 3: L’Hotel Obelisco nel 1901 (COLLEZIONE ANCONA)

Le Terme di Monfalcone

In occasione della prossima apertura delle rinnovate Terme di Monfalcone ricordiamo alcuni passaggi del breve saggio Aqua dei et vitae scritto il 5 ottobre 1881 dal console britannico Sir Richard Francis Burton durante i 18 anni della sua permanenza a Trieste (vedi precedente articolo archiviato in Storia).                                                                    Questo accattivante titolo fu preso da un’antica iscrizione su metallo rinvenuta nella zona più a sud-ovest dove tuttora esistono le tracce delle Terme Romane prima della loro distruzione a opera di Attila e degli Unni nel IV secolo.
In occasione dei restauri del porto di Monfalcone, il Magnificus Pretor di Venezia Francesco Nani nel 1433 riattivò l’uso della fonte termale con la raccolta delle preziose acque in una grande cisterna il cui uso si prolungò ininterrottamente fino al 1799.
Per il continuo pericolo delle guerre tra Veneziani e le incursioni degli Uscocchi i fratelli monfalconesi Matiassi e Micheli fondarono una società a responsabilità limitata e pagando l’affitto al Comune risistemarono la vecchia cisterna del Governatore Nani costruendovi intorno un edificio provvisto di vasche in legno. Alla loro morte il commissario distrettuale Francesco Ostrogovich riuscì a raccogliere 22.000 fiorini per edificare uno stabilimento in muratura che venne inaugurato nel 1840.
Dopo il 1868 il triestino cav Giuseppe Tonello acquistò la struttura e i diritti d’uso e apportandovi notevoli miglioramenti, incrementò l’afflusso dei pazienti e gli introiti economici.

Nel testo Aqua dei et vitae si deduce che nel XIX secolo tutta la zona intorno alle Terme era però ancora semipaludosa rispetto alle successive bonifiche e piantumazioni:
“Il luogo è un oasi asciutta in una palude piena di canne che si estende sotto la strada postale” inizia il racconto proseguendo con la descrizione del porticato centrale con le ali laterali dell’edificio con delle spartane camere da letto per i pazienti più invalidi.
Dopo il piccolo vestibolo d’ingresso con l’ufficio e l’ambulatorio del medico, si apriva una galleria con a destra la stanza dei motori dove l’acqua veniva pompata in grandi cisterne di raffreddamento e sulla sinistra lo stanzino per la fornace e il combustibile. Scendendo da qui per la scala sottostante una botola c’era il vano con l’acqua della sorgente che sgorgava da una fessura nella roccia per essere convogliata verso la zona delle fangature all’esterno dell’edificio.
La testimonianza di Burton asseriva che l’acqua sorgiva fosse limpida e pura, inalterabile all’aria anche se esposta per diversi giorni, e per lungo tempo se imbottigliata. Con la bassa marea e una temperatura di 18°C raggiungeva i 38°C, pari a 101,3° F, mentre con la stagione più calda e il mare agitato dallo scirocco superava i 39 e anche i 40 gradi centigradi. Sia con l’innalzamento della temperatura che con il deflusso delle maree aumentava la concentrazione di gas solfidrico e l’intensità del suo tipico odore.
L’ultima approfondita analisi delle acque, eseguita dal dott. Giovanni Attilio Cenedella di Brescia nel 1862, stabilì che i minerali preponderanti erano i cloruri e i solfati e che i loro effetti curativi fossero molto attivi alla sorgente e più blandi dopo l’imbottigliamento.
Il corridoio di fronte all’ingresso con appese delle offerte votive, bastoni da passeggio e vecchie stampelle come inutili trofei, immetteva in due sale d’attesa, a est per il settore femminile a ovest per quello maschile. Da qui si aprivano due gallerie a specchio ognuna con 14 bagni (+ 7 gabinetti) provvisti di vasche in marmo carsico per contenere fino 115 chili d’acqua sia calda che fredda e dei lettini dove venivano applicati i fanghi. A nord di trovava una piscina provvista di docce e un assortimento di impeccabile biancheria.
Nel 1881 il bagno costava sessanta soldi (pari a un fiorino) con la biancheria, cinquanta senza, settanta con i fanghi, un fiorino per l’uso della piscina e un altro fiorino per il trasporto andata e ritorno da Monfalcone in carrozza coperta. I servizi delle Terme erano gratuiti per i poveri ridotti per gli abitanti del posto e le tariffe dei medici erano modestissime.
Le acque venivano usate per artriti, ischialgie, gotta, per alcuni tipi di oftalmia, per migliorare le periplagie, le malattie della pelle, la pellagra – allora molto diffusa – e gli avvelenamenti cronici da piombo e mercurio.
La stagione per le cure era prevista dalla prima settimana di maggio fino alla fine di settembre.

Il testo di Sir Burton si conclude con un incitamento a una maggiore riqualificazione della struttura per renderla competitiva rispetto alle raffinate Terme austriache e francesi ma purtroppo la Grande Guerra la rase al suolo.
Ricostruita nel 1940 (vedi foto) si andò degradando fino all’abbandono dopo gli anni Settanta.
Dopo gli ultimi importanti investimenti le Terme di Monfalcone finalmente riprenderanno a funzionare nel corso dell’estate e nonostante l’attuale crisi economica non possiamo che augurarle un futuro grande successo.

Notizie tratte da: Richard Francis Burton, Le Terme di Monfalcone, Edizioni della Laguna, 1992

Lady Burton “la timorata di Dio”

Dopo la morte del console Sir Richard Francis Burton, di cui abbiamo scritto nell’articolo precedente, accaddero dei fatti che non solo fecero molto discutere sul comportamento della moglie Isabel Arundell, ma anche per l’irreparabile perdita di documenti e traduzioni di grande valore storico, antropologico e linguistico.
La devota e cattolicissima Isabel, dopo aver vissuto un intenso e morboso legame con l’agnostico consorte, volle riscattare – a suo modo – i suoi molti “peccati” impartendogli negli ultimi istanti di vita una sorta di battesimo con preghiere e un po’ d’acqua. “Se solo potessi salvare l’anima di Dick!” aveva spesso confidato agli amici intimi. Non solo, ma adducendo la sua segreta conversione in fin di vita, convocò un prete costringendolo a impartirgli l’Estrema Unzione a morte già avvenuta.
Organizzati un sontuoso funerale a Trieste con gli alti cerimoniali impartiti dal Vescovo e una sepoltura altrettanto cattolica in patria, la pia Isabel si chiuse nella villa di San Vito per mettere mano sull’archivio dell’illustre coniuge. Il pietoso riscatto religioso in sua memoria sarebbe anche stato dimenticato se costei non avesse attuato l’irreparabile scempio sui moltissimi carteggi inediti distruggendoli con un accanimento agghiacciante.
Non mostrare mai lavori incompleti alle donne e agli sciocchi” scrisse Burton sugli appunti dei Carmina di Catullo ritenendo che la scelta di tradurre e pubblicare antichi testi censurati per secoli nelle parti ritenute scandalose rispondeva al suo irrefrenabile impulso di divulgarli senza però valutarne i rischi connessi.
Così il prezioso manoscritto The Scented Garden, il suo ultimo lavoro tradotto integralmente dall’arabo e già predisposto per le stampe, fu bruciato e riscritto togliendo i passaggi più “spinti” e le parole più “impudiche”. “Non posso ingannare Dio Onnipotente che tiene l’anima di mio marito nelle sue mani” ritenne la timorata Lady Burton, rinunciando alla grossa cifra offerta da un editore londinese.
Ritenendosi dunque tenutaria di un’inconfutabile verità ebbe anche il coraggio di asserire che fu Richard stesso ad “apparirgli” chiedendole di distruggere il testo del Giardino Profumato e che “dopo” le sarebbe riapparso “in un fascio di luce e di pace”.
L’isterico comportamento di Isabel irritò non solo gli editori interessati ma anche i familiari e la vasta cerchia di amicizie che ritenendola bigotta e bugiarda la disconobbero come depositaria dell’ingente eredità storiografica del poliedrico personaggio che, del tutto assorbito dalle sue passioni, evidentemente sottovalutò l’aspetto violento e vendicativo di quella moglie tanto devota.
Sul colle di San Vito fu dunque acceso un grande falò dove, a due settimane dalla sua dipartita, tutti gli inediti e preziosi scritti di Burton nel corso di cinquant’anni di studi, esplorazioni, ricerche ed eccezionali avventure vennero gettati tra le fiamme. Le furiose scintille aizzate dalla bora arsero per giorni e giorni nel bel giardino di villa Economo, ultimo testimone di quelle pagine che raccontavano una mitica e straordinaria vita che nessuno potrà raccontare. Né fu tenuta in considerazione la corposa biografia The Life of Sir Richard F. Burton che l’ossequiosa vedova scrisse su 1200 pagine piene di esaltazioni quanto di fandonie.
Sicuramente però le sofferte amicizie con ambigui personaggi maschili e le meticolose analisi di sfondo sado-masochistico praticate nel bordello di Karachi indussero a considerare che l’eccentrico console fosse tormentato da una latente omosessualità, tematica all’epoca ancora più scandalosa dell’erotismo bisessuale.
Ma a onor di verità si potrebbe tuttavia constatare che Isabel, dotata di una personalità forte e combattiva, non si piegò mai alle dissolutezze del famoso consorte, trovando un autonomo modus-vivendi dedicato alle letture impegnate e allo studio delle lingue.
Andrebbero anche rivalutati alcuni spunti di un femminismo ante-litteram che persino stupisce:
Ho la sensazione che noi donne non facciamo altro che nascere, sposarci e morire. Chi sente la nostra mancanza? perché non dovremmo avere una vita utile ed attiva? Perché, dotate di spirito, cervello ed energie, noi donne dobbiamo esistere per fare lavori sprecati e tenere i conti della casa? Tutto ciò la dà la nausea e non lo farò”: frase riportata sul libro di W.H: Wilkins, The Romance of Isabel Lady Burton che ci piace ricordare in questa storia così intrigante.

Lady Burton al lavoro nel salotto di Villa Economo (Collezione degli Ivanissevich)

(Le notizie sono state tratte dal libro di Corinna Valentini “L’esilio del leone”, Mgs Press, Trieste, 1998)

Gabriella Amstici

Sir Richard Francis Burton

Trieste ospitò per ben 18 anni, dal 1872 al 1890, un illustre personaggio, all’epoca molto conosciuto per la sua eccentrica quanto straordinaria vita: esploratore, etnologo, traduttore ed esperto in cultura araba e africana, Sir Richard Francis Burton fu console di Sua Maestà britannica nella nostra città, dove continuò i suoi molteplici studi riportati su un’ingente mole di scritti.
Nato nel 1821 a Torquay, sulla costa della Cornovaglia, studente al Trinity College di Oxford, fu dotato di eccezionali capacità linguistiche e di spirito d’avventura.
Uomo dalle mille personalità, conoscitore di una quarantina di lingue, Burton varcò gli invalicabili confini geografici dell’Africa equatoriale e quelli inviolabili degli harem dissimulandosi tra i pellegrini mussulmani della Kaaba.
Ottenuto nel 1842 un incarico militare, soggiornò in India dove mantenne una stretta collaborazione con il Governo coloniale inglese. Qui approfondì la conoscenza dei costumi locali e particolarmente delle usanze sessuali.
In seguito soggiornò per lunghi periodi nelle terre dell’Islam assumendo il nome di Mirza Abdullah. Vestito da arabo e parlando perfettamente i vari idiomi, nel 1853 riuscì a raggiungere La Mecca.

Fortemente attratto dall’Africa decise di intraprendere assieme all’amico John Hanning Speke una delle più ardue e contestate esplorazioni dell’epoca: la ricerca delle sorgenti del Nilo e delle leggendarie “Montagne della Luna”. (1)
Nel corso dell’avventurosa e drammatica impresa iniziata da Zanzibar e svoltasi in due fasi tra il 1854 e il 1859, i due esploratori scoprirono il lago di Tanganica. La sua origine vulcanica e l’assenza di un emissario (che fu invece trovato 16 anni dopo come origine del fiume Congo) li spinse alla prosecuzione del percorso, ma per le estreme condizioni di sopravvivenza, Burton, colpito da una grave forma di malaria fu costretto a fermarsi. Speke riuscì faticosamente a continuare e quando verso nord-est scoprì l’enorme lago – che chiamò Vittoria in onore della Regina d’Inghilterra – e convinto che il Nilo ne fosse l’emissario, tracciò delle fantomatiche mappe con i monti delle presunte sorgenti e un paradossale percorso del fiume in salita per ben novanta miglia.
Burton, che in patria dovette accontentarsi di una medaglia al valore, fu seccatissimo e contesterà questa tesi sostenendo che il lago Vittoria fosse solo una delle fonti del Nilo e che la montagna delle sue risorgive dovesse ancora essere trovata. (2)
Per risolvere la scottante questione i due contendenti furono convocati alla British Association for the Advancement of Science presieduta dallo scozzese David Livingston, mitico pioniere-missionario in Africa.
Nel dibattito svoltosi il 15 settembre 1864 a Bath, Burton si presentò con le sue meticolose controteorie geografiche denunciando con efficace oratoria le assurde teorie di Speke, che dopo aver ascoltato in silenzio abbandonò l’aula sconvolto. Nella successiva seduta fu dato il drammatico annuncio della morte di John Speke avvenuta per una pallottola partita accidentalmente dal suo fucile. “I benevoli dicono che si è suicidato, i malevoli dicono che l’ho ucciso io” affermerà Burton che da allora chiuderà il lungo capitolo delle sue avventurose esplorazioni con quella febbre dell’Africa che aveva disgregato la sua salute e i suoi sogni di gloria.

Dopo un soggiorno in Nord America per studiare usi e costumi dei mormoni e dei pellerossa, Burton accettò la nomina di console britannico a Santos in Brasile e successivamente di funzionario a Damasco. Ma alle critiche dell’establishment vittoriano per i suoi costumi libertini e sessualmente ambigui, si aggiunsero quelli del governo britannico che ritenne la sua diplomazia troppo da outsider. Così Sir Burton con un poco impegnativo incarico di console fu “esiliato” a Trieste dove nel 1872 si trasferì assieme alla moglie Isabel Arundell alloggiando in un grande appartamento nei pressi della Stazione.
Qui la coppia condusse un’intensa vita sociale nel colto entourage triestino, senza disdegnare costose piacevolezze come le cene al lussuoso “Hotel de la Ville” sulle rive o al raffinato “Grand Hotel Obelisque” di Opicina.
Già in là con gli anni e poco impegnato con il lavoro al Consolato Britannico, Sir Burton si dedicò con la sua indomita passione agli studi linguistici, ai resoconti dei suoi viaggi e a numerose annotazioni su Trieste e i fenomeni carsici, sul libero porto e i rapporti con l’Impero Austro-Ungarico. Interessatosi al misterioso percorso del fiume Timavo, si immergerà più volte nelle tumultuose acque delle risorgive rischiando di rimanere assiderato.
Molto considerati furono i suoi studi sui castellieri delle nostre colline e un trattato sulle antiche Terme romane di Monfalcone, recentemente ristrutturate.

Trasferitosi nel 1883 nel bel Palazzo Economo sul colle San Vito (in Largo Promontorio), il nostro poliedrico ospite portò a termine la traduzione del libro Le Mille e una notte, iniziato vent’anni prima, del mitico Kama Sutra, L’Arte indù dell’amore e lo scandaloso manuale di erotologia araba Il Giardino Profumato.
Le traduzioni integrali dei testi con un notevole apparato di note, creeranno a Burton degli infiniti problemi di censura, talvolta aggirati con il ricorso a case editrici fasulle o quantomeno esterne all’Inghilterra. Gli ultimi anni della sua esistenza saranno amareggiati da queste contestazioni da lui ritenute ottuse e dalla sua salute pesantemente compromessa da una serie di operazioni per asportare masse tumorali.
Assistito nell’agonia dalla devota e cattolicissima moglie Isabel con cui divise un legame intenso e morboso, Sir Richard Francis Burton morì all’alba del 20 ottobre 1890.
Durante il suo solenne funerale l’amico Attilio Hortis pronunciò un discorso pieno di riconoscenza e commozione invitando Trieste a esporre le bandiere a mezz’asta.
Non fu altrettanto partecipata la cerimonia in memoriam svoltasi alcune settimane dopo a Londra che pur avendo seguito le imprese del suo illustre concittadino, non gli perdonò la vita amorale e quell’ossessione della sessualità carnale e promiscua. La stessa moglie che subì in silenzio i tratti perversi della sua complessa personalità bruciò moltissimi dei suoi scritti fra cui l’ultima traduzione del The Scented Garden che assieme al Kama Sutra ebbero sempre la fama di testi pornografici. (3)

NOTE:
(1) Sull’impresa di Burton e Speke nel 1990 fu girato il film “Le montagne della luna” di Bob Rafelson.

(2) La ricerca delle sorgenti del Nilo continuerà a essere discussa negli anni a venire. Le piene del fiume si verificano infatti nel corso della primavera e dell’estate mentre la stagione delle piogge ingrossa i laghi Vittoria e Tanganica durante l’autunno e l’inverno. Le “Montagne della luna” quelle falsificate sulle mappe di Speke, saranno individuate nel 1934 sull’altopiano del Burundi (a 45 km. dal Tanganica) da Burckart Valdecker. (fonte Wikipedia)

(3) “E mentre farisei e filistei possono o possono fingere di restare scioccati e inorriditi dalle mie pagine, il sano buon senso di un pubblico che lentamente ma sicuramente si sta emancipando dalle pudibonde e pruriginose reticenze e dalle impudenti e immorali modestie della prima metà del XIX secolo, in breve tempo mi renderà, ne sono convinto, piena e ampia giustizia.”
(R. F. Burton, Love, War ad Fancy)

Le notizie sono state tratte dal libro di Corinna Valentini, “L’esilio del Leone”, MGS PRESS, 1998)