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I mulini del torrente Lussandra

Come si è scritto nei precedenti articoli dal versante a ovest della Val Rosandra (nota 1) sgorgavano diverse fonti d’acqua che si ricongiungevano a quelle più abbondanti della Fonte Oppia (chiamata anche Glinščica ) che vennero sfruttate fin dal I° secolo d.C. da tutto l’Agro romano stabilitosi nell’antica Tergeste. (nota 2)
Quando nel corso del VI e VII secolo il lunghissimo acquedotto venne distrutto dall’avvento dei barbari, le acque della Val Rosandra continuarono a scorrere liberamente scavando un alveo naturale e arricchendo la portata del fiume anche se dovettero trascorrere ancora molti secoli prima dello sfruttamento della loro energia.

A partire dal IX secolo finì la schiavitù e lo sfruttamento umano e animale mentre il progressivo aumento demografico necessitava di una maggiore produzione di farine.
Fu cosi escogitato un sistema per la macinazione delle granaglie mediante l’uso di grandi ruote che, spinte dall’energia delle portate fluviali, azionassero i torchi permettendo un forte aumento produttivo di farine.

Nei nostri territori la più antica testimonianza dell’esistenza dei mulini ad acqua risale all’anno 1085 quando il patriarca Wolrico destinò a una confraternita di frati l’antico monastero di San Giovanni in Tuba, vicinissimo quindi alle ricchissime risorgive del Timavo.

Come si è già scritto nelle vicinanze di Trieste l’unico corso d’acqua era quello del torrente Rosandra, sufficientemente ricco per azionare le pale delle macchine idrauliche sebbene durante i mesi estivi si verificassero dei periodi di siccità e in quelli invernali vi fosse il rischio delle gelate.
Le prime notizie scritte sull’uso dei mulini si trovano su un atto di compravendita della Vicedomineria di Trieste risalente al 1276 dove risultò l’esistenza di altri 3 in proprietà del Vescovado.

Negli statuti trecenteschi conservati nell’Archivio Diplomatico (presso la biblioteca Hortis di via Madonna del Mare) si trovano interessanti testimonianze dell’attivita molinaria presente a Trieste

Nei cinque secoli successivi i mulini aumentarono di numero e nel 1757 nel tratto del torrente tra Bollunz (Bagnoli) e il mare se ne contavano ben 16 a ruota singola, doppia o tripla.
Nella mappa sottoriportata si nota la collocazione dei mulini (segnati in rosa) lungo il fiume “Lussandra” e un canale parallelo che convogliava lungo la “Strada dei mulini” diretta a Trieste.

In questa mappa della metà del XVIII secolo è segnato il mulino di San Martino situato su un’ansa del Rosandra a monte dell’attuale frazione di Mattonaia e identificabile con quello che diverrà poi il mulino comunale di Trieste.

I mugnai che lavoravano in questi mulini erano anche esperti nello scolpire la pietra per le ruote e nella costruzione di supporti in legno, mentre le loro mogli si occupavano del commercio della farina, trasportata a dorso d’asino in città e in luoghi più lontani.
Nei canali di alimentazione scavati nella roccia, chiamati struge si trovavano anche gamberi e anguille cucinati nel sugo e serviti con la polenta durante le feste d’agosto.

Il progresso tecnologico causò l’interruzione dell’attività di molti mulini che furono abbandonati o trasformati in laboratori per fabbri mentre le struge vennero via via sepolte dalla vegetazione senza lasciare testimonianze delle attività un tempo svolte.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale tutta la zona si trovò su un confine conteso e subì un depauperamento che si protrasse fino agli anni Trenta quando l’avvento delle Scuole di Roccia rianimarono tutta la vallata.

Note:
1. Le due fonti di Botazzo e quella dell’Antro delle Ninfe
2. Vedi articolo https://quitrieste.it/lacquedotto-romano-di-val-rosandra/

Fonti:

Enrico Halupca, “Le meraviglie del Carso“, LINT Editoriale, Trieste, 2004

L’acquedotto romano di Val Rosandra

IMG_0242L’acquedotto romano, risalente al I° secolo d.C., testimonia lo straordinario ingegno idraulico della florida civiltà romana che nell’antica Tergeste e intorno ai sui suoi territori ha lasciato reperti di grandissimo interesse archeologico.
La sua base era costituita da un conglomerato di pietre e malta sovrastato da due muri laterali di piccole pietre squadrate per una larghezza di circa 55 cm. che però variava a seconda dei tratti e della pendenza la cui media si attestava al 2%. A causa degli smottamenti dei detriti di falda non si è stabilito se l’acquedotto fosse un canale scavato o se corresse su delle arcate sopraelevate emerse in alcuni punti.
L’acqua veniva prelevata da una sorgente situata nel corso medio del torrente Rosandra, alla base del Crinale sotto il monte Carso, e dopo aver costeggiato monte San Michele riceveva un secondo ramo proveniente da San Dorligo (nota 1) e un terzo da quello dell’ Antro di Bagnoli (nota 2) (nota 3).

Da qui iniziava la condotta sotterranea che attraverso i 16 – 17 chilometri di lunghezza veniva convogliata in un fontanone pubblico nella zona di piazza Cavana fornendo l’approvvigionamento dell’acqua a tutta la colonia tergestina.
Tracce dell’acquedotto vennero trovate alla fine di via Bramante (nota 4) e in via Madonna del Mare dove, nel 1805, venne scoperta una galleria lunga 264 metri.
Questa importante opera idraulica romana fu descritta dallo storico Ireneo della Croce ((Trieste 1625 – Venezia 1713) nella sua Historia antica e moderna, sacra e profana della città di Trieste e in seguito studiata dal professor Girolamo Agapito (Pinguente d’Istria 1783 – Trieste 1844).

Quando nel 1815 l’architetto Pietro Nobile valutò che le acque trasportate nel canale sotterraneo potessero ammontare a ben 5.800 metri cubi nelle 24 ore, Domenico Rossetti volle propugnare il ripristino di quel notevole approvvigionamento e a seguito della terribile siccità verificatasi nel 1827 avanzò una richiesta ufficiale al governo austriaco.
Si presume che l’acquedotto romano funzionò fino al V o VI secolo quando, per la contrazione demografica, per il progressivo impoverimento della città e l’isolamento di tutto il territorio carsico, sarà abbandonato a sé stesso per lungo tempo.

Considerando che dalla fonte di Val Rosandra al fontanone di Cavana il dislivello è di soli 90 metri, l’acquedotto romano del nostro territorio fu un opera davvero straordinaria sia per l’accuratezza delle misurazioni che per la sua sopravvivenza a ben due millenni di storia.

NOTE:
1. Rinvenuto nel 1954 durante gli scavi alle fondamenta di una casa a Crogole;

2. Si ritenne che i tre rami dell’acquedotto convogliassero in una grande vasca di raccolta;

3. Nel 1976 a Borgo San Sergio venne rinvenuto un manufatto proveniente dall’acquedotto di Bagnoli lungo 216 metri e con una pendenza dell’1,1 per mille a mezza costa della collina (in una quota do di 74 metri) costituito da blocchi irregolari di arenaria legati con malta. Il segmento era dotato di cinque pozzi posti ad una distanza variabile da 30 a 36 metri;

4. Un segmento di 10,65 metri (a sezione quadrata) dell’acquedotto in pendenza verso via Bramante venne scoperto durante gli scavi del 1902.

FONTI:
Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, LINT Editoriale, 1998-2004, Trieste
Siti vari su Internet

http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2015/03/21/news/a-bagnoli-riaffiora-un-acquedotto-romano-1.11089881

 http://www.museifriuliveneziagiulia.it/scheda_museo.html?id=58

Santa Maria in Siaris

Questa piccola, modesta chiesetta che svetta su uno zoccolo di roccia a mezza costa del crinale della Val Rosandra ha una lunghissima vita.

I più antichi documenti che attestano la sua esistenza si trovano su documenti risalenti all’anno 1260 (o addirittura nel 1213) che riportavano la seguente prescrizione: “Se alcuno bestemmiasse Dio o Sancta Maria, overo altri Santi, o alcuna parola desonesta dicesse che fosse contra l’onor de Dio, per obedienza e disciplina andar debba a Sancta Maria in Siaris descalzo”.(nota 1)
L’iscrizione ufficiale venne scritta nell’anno 1367 nello statuto della Confraternita del S.S. Sacramento (detta anche Corpus Domini o dei “Battuti”) la cui chiesa si trovava all’esterno delle mura della Tergeste medievale, contrassegnata nella mappa sotto riportata con il numero 6: (nota 2)

Il nome Siaris potrebbe derivare dall’antico termine ladino masiarjs , ovvero una zona piena di pietre scelta per l’asprezza del suolo a un eremitaggio di espiazione. A noi piace invece pensare che fu collocata su quel costone per ricevere gli ultimi raggi del sole di maggio accendendosi come una piccola isola di luce.

L’iscrizione sull’architrave della porta centrale ricorda il restauro avvenuto nel 1647 con la dotazione di due altari laterali, oggi andati distrutti, seguito da altri lavori di ammodernamento solo nel 1954. (nota 3)
Nel 1979 questa romantica chiesetta fu danneggiata sia all’interno che all’esterno da atti vandalici ai quali porsero rimedio alcuni volontari nel 1982
Vorremmo concludere questo breve articolo con un passo del Vangelo di Luca riportato da Enrico Halupca e che ci piace molto:
Chi ascolta le mie parole sarà simile a un uomo che ha costruito la sua casa sulla roccia. E’ venuta la pioggia, sono straripati i fiumi, i venti hanno soffiato con violenza contro quella casa, ma essa non è crollata, perché le sue fondamenta erano sulla roccia

Note:
1. Un’altra meta dei pellegrinaggi di espiazione era la Chiesa di Santa Maria di Grignano, oggi non più esistente;
https://quitrieste.it/i-templari-a-grgnano/

2. La chiesa del Santissimo Sacramento ebbe un grande impulso con la terribile epidemia di peste del 1348;

3. Nel 1953 l’abside fu affrescata dall’artista Riccardo Bastianutto

Notizie da:

Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Edizioni Lint, 2004, Trieste;

Dante Cannarella, Il Carso della Provincia di Trieste, Edizioni I. Svevo, 1998, Trieste

Aperta al pubblico la Grotta Gigante

Nota da tempo con il nome di “caverna di Brischiachi” l’enorme voragine del Carso venne esplorata per la prima volta nel 1840 da Anton Frederik Lindner.

Per il grande dislivello tra la volta e la base e la totale oscurità fu impraticabile ogni tentativo di discesa fino al 1890 quando fu scoperto un secondo ingresso che rese possibile l’esplorazione.

I primi rilievi furono però attuati ben sette anni dopo da Andrea Perko e Leo Pertsch ma solamente tra il 1905 e il 1908 un Club di appassionati speleologi riuscirono a ottenere dei fondi per i lavori di adattamento e percorribilità.

Con l’illuminazione di 4000 candele e uno scenografico lampadario a 100 fiamme calato dall’alto, la grotta venne solennemente inaugurata il 5 luglio 1908.

Dopo la chiusura durante la prima guerra e la successiva annessione di Trieste all’Italia (3 novembre 1918) la grande caverna carsica passò in proprietà alla Società Alpina delle Giulie che ne curò la gestione assieme alle Grotte di Postumia e a quelle di San Canziano.

In seguito al secondo conflitto mondiale e ai cambiamenti di confine, divenuta ormai l’unica cavità sotterranea attrezzata del Carso, nel 1957 la Grotta Gigante fu dotata di illuminazione elettrica e di un posteggio per i turisti.

Nel 1963 venne inaugurato il Museo Speleologico dotato di un’importante collezione archeologica e due anni dopo un Osservatorio Geofisico Sperimentale fornito di sensibilissimi sismografi. Dalla sommità della volta sono stati inoltre installati due lunghi cavi che intercettano i minimi movimenti della crosta terrestre, delle maree e della flessione dell’altopiano carsico provocata dalle piene sotterranee del fiume Timavo.

Per le sue eccezionali dimensioni (107 metri di altezza e 380 metri di lunghezza) e lo spettacolare scenario, nel 1995 la Grotta Gigante è stata inserita nel Guinness dei primati come la più grande cavità turistica del mondo.

Fonte:

Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Edizioni LINT, Trieste, 2004

 

GA