Archivio mensile:maggio 2013

Dicono di noi

“Trieste: una delle città più belle del mondo, elegante, colta, crocevia tra tre mondi – quello latino, quello slavo, quello tedesco – il punto più a Nord del Mediterraneo e il punto più a Sud della Mitteleuropa. Trieste che ha dato all’Italia Saba e Svevo, Strehler e Magris, Dorfles e Kezich, oltre a tanti altri scrittori, artisti, maestri. Eppure per andare da Venezia a Trieste ci sono solo treni regionali. Non si può fare neppure il biglietto elettronico. Il che sarebbe grave anche se Trieste fosse ancora il confine oltre cui c’era la cortina di ferro e il mondo comunista.

Oggi Trieste è tornata il centro d’Europa. Ma l’Italia non se n’è accorta. Cosa si aspetta a rimediare?”

(Aldo Cazzullo, “Sette” Corriere della sera, 26/4/2013)

“Ci sono due posti che mi emozionano davvero: il retro di un palcoscenico e Trieste” confida il giornalista-scrittore Giorgio Dell’Arti a “Il Piccolo”.

Il padre Consalvo, nato a Brindisi da una famiglia leccese trasferitasi a Pola, si sposò con la polesana Carla Roinich. Arrivati gli anni difficili, la coppia decise di tornare in Italia pur consapevole di dover affrontare tempi durissimi.

Attori-girovaghi sempre in viaggio alla ricerca di scritture in ruoli teatrali o cinematografici e vivendo tra una pensione e l’altra, nel corso del primo anno di scuola del figlio Giorgio furono costretti a iscriverlo in 5 diverse città con effetti disastrosi sul suo profitto. Decisero così di affidarlo allo zio Alfredo che dirigeva a Trieste l’Unione militare di via Mazzini, un grande negozio di abbigliamento che serviva l’esercito nelle sedi di tutta l’Italia.

Ospitato per tre anni nel piccolo appartamento soprastante, Giorgio riuscì così a frequentare continuativamente tre anni alla scuola elementare Felice Venezian.

“Considero Trieste la città della mia infanzia” ricorda ancora dell’Arti. “Ci sono tornato dopo un sacco di tempo e ho provato un’emozione grandissima.”

(Giorgio Dell’Arti, Alessandro Mezzena Lona, Il Piccolo, 15/11/2008)

 

“Il nostro Carso ci appartiene come noi gli apparteniamo. E’ terra in cui la civiltà specchia i suoi miti. Bellezza schiva e scontrosa, guadagnata palmo su palmo, schiva ed essenziale, aspra e tenace: il Carso esalta la lotta e sa donare brevi attimi intensi di maestosa serenità.
E’ il microcosmo ove i conflitti si lasciano sublimare da una legge che l’umana precorre e vuole informare. Patria di eroi, martiri, poeti. Bensì di sacrifici duri, di esasperati confronti, d’inesausti richiami alla realtà: il lavoro vi trova la sua dignità antica, che si ripete di stagione in stagione in un’epica coscienza del dovere quotidiano, da compiere con paziente umiltà.
Questo è il nostro Carso. Dobbiamo difenderlo come un bene prezioso e vigilare sulla sua integrità. Esso è il nostro passato e il nostro futuro. Perché è il solo bene che possediamo.”
(Dante Cannarella, Guida del Carso triestino, Ed. Svevo, Trieste, 1975)

“Il futuro di Trieste transita in effetti sulle banchine della sua passata gloria, e parlo dei traffici marittimi e del recupero di Porto Vecchio. Ma ci sarà un baluginìo di razionalità se Trieste è l’unica e l’ultima città europea che non ha ancora saputo dare valore e centralità alle sue strutture portuali ottocentesche? Sarà sempre per un destino cinico e baro oppure dipende dalla follia di chi ha osteggiato il trasloco delle funzioni portuali là dove esse sono compatibili con la moderna logistica, liberando i meravigliosi hangar concepiti in Porto Vecchio?
Il conservatorismo fine a se stesso, che a Trieste salda destra e sinistra, ha sinora frenato il corso di una città che disporrebbe di un patrimonio formidabile.
In una fase storica segnata da drammatiche discontinuità a livello planetario, in un mondo dove non esistono più confini e le gerarchie geo-politiche, economiche e culturali vengono stravolte in un batter di ciglia, non scommetterei affatto sulla scelta della conservazione per la conservazione.
Potremmo trovarci seduti su un cumulo di macerie. Vale per l’Italia, vale per Trieste.”
(Paolo Possamai, direttore de Il Piccolo)

“Dove dunque andrà la città dei confini? Il finale pare già tratteggiato. Bella ma vecchia, con il mare che l’abbraccia tutta, incantata dal fascino della decadenza, Trieste, nella sua orgogliosa diversità, ha inconsciamente anticipato la trasformazione verso cui tutto il Paese si orienta.
Politica troppo debole, non legittimata, ma sempre pronta a controllare.
Economia troppo pubblica e orientata dalla politica stessa: una miscela micidiale a favore del mantenimento dell’esistente, il consolidamento delle posizioni, un sistema chiuso.
Una vecchiaia dorata, da godere finché dura.”
(Beniamino Pagliaro, Trieste la bella addormentata, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2011)

“Ci sono città che si svelano quasi subito al visitatore. Non è il caso di Trieste. Questa città resta, anche al secondo colpo d’occhio, piena di segreti. E’ una città ricca di fascino, di stimoli, ma non invadente. Chi vuole, deve scoprirla da sé.
Per chi si appresta dunque a conoscerla, Trieste appare assai più grande di quel che il numero dei suoi abitanti lascia supporre. Le ampie strade a quattro corsie, i numerosi e bellissimi palazzi, la grandiosa piazza dell’Unità, la vastità del vecchio e nuovo porto, gli invitanti e affascinanti caffè, le rinomate imprese: ci sono moltissime cose che testimoniano della grandezza, della grandiosità triestina.
[…] Si dice che a Trieste si mischiano le culture. A dire il vero non so se si mischiano veramente. Ho più l’impressione che convivano pacificamente, l’una accanto all’altra. A darne testimonianza sono le quattro religioni con i loro imponenti luoghi di culto, così come le minoranze nazionali e culturali. Ci sono città che respingono o emarginano lo straniero. Trieste è una città che li accoglie.
[…] Quello che mi affascina di questa città è il coesistere, fianco a fianco del porto e delle scienze, del commercio e della letteratura, delle religioni e delle lingue. Una coabitazione particolarmente intrigante è quella della città moderna e pulsante con il Porto Vecchio, che ricorda una città dei morti.
(Karl-Heinz Feisenmeier, giornalista del Badische Zeiung, ospite a Trieste)

“Trieste ha una forte vocazione turistica, destinata a consolidarsi. Infatti siamo in grado di attirare un numero crescente di visitatori grazie alla validità della nostra offerta culturale, congressuale e ambientale. In quest’ultimo caso mi riferisco sia al mare sia al Carso.
L’entrata nell’Unione Europea mette la città al centro della scena, ne fa il punto di riferimento di un’area molto ampia. Con ricadute positive in termini di export, esportazione di know how e delocalizzazione delle attività produttive.
Certo, tutto dipenderà anche da alcune scelte strategiche, a partire dalla riconversione del Porto Vecchio e dalla prosecuzione dell’alta velocità fino Lubiana e Budapest.”
(Riccardo Illy, Tuttoturismo, Ed. Domus, marzo 2005)

“L’obiettivo è quello di realizzare una gigantesca promenade che occupi tutte le rive fino al Porto Vecchio compreso. A fine 2006 cambierà il modo di vivere dei triestini, con l’apertura di un tunnel di 4 chilometri che collegherà il cuore della città all’autostrada. Inoltre stiamo rivoluzionando la circolazione sulle rive.”
(Roberto di Piazza, Tuttoturismo, Ed. Domus, marzo 2005)

“Trieste è una città tranquilla e civile, dove vengono in buona parte osservati valori come l’onestà e il rispetto delle leggi. Però i triestini hanno un difetto: amano trastullarsi con il passato. Rimpiangono il grande porto che fu, l’epoca in cui arrivavano i transatlantici. E non hanno capito che, nel frattempo, la loro città è diventata una grande capitale della scienza. L’industria più importante qui è proprio questa: insieme all’università dà lavoro a 5 mila persone.”
(Margherita Hack, Tuttoturismo, Ed. Domus, marzo 2005)

Dicevano di noi

In un’intervista rilasciata a Tullio Kezich (“L’Europeo” n.12, 1967), Giorgio Strehler parlò della sua intenzione a realizzare un film su La coscienza di Zeno di Italo Svevo da lui considerato “il” romanzo tout court, una “grande commedia” psicologica e di costume, una storia di vita narrata come “un gioco dei sentimenti, dei movimenti umani più segreti”. Questo progetto era stato ripreso e abbandonato più volte finché ritornando a Trieste riscoprì quasi “con violenza” i suoi odori, i suoi sapori e le sferzate di bora che riecheggiavano in quel romanzo.
“Il mondo di Svevo mi appartiene […] Un qualcosa sul filo della tragedia con un tanto di umoristico, di grottesco che lascia anche la bocca amara” scrisse a Piero Zuffi, testimoniando quanto quel testo rappresentasse anche il luogo e il tempo dei suoi ricordi.
Nel linguaggio narrativo di Svevo, Strehler percepiva anche la vicinanza letteraria di James Joyce, tanto che avrebbe voluto intitolare il film Un Ulisse a Trieste immaginandolo in varie gradazioni di bianco e nero con una tonalità contraddistinta da “una luminosità tenera e lancinante”.
Dopo una lunga rielaborazione sul testo con una serie di appunti, ricerche, meditazioni, Strehler consegnò al regista Carlo Ponti le cartelle che costituivano l’intelaiatura per l’adattamento cinematografico del romanzo di Zeno o “alla Zeno” che comprendesse anche tematiche su Trieste, l’Austria, lo sfascio dell’Impero e sulla trasformazione della storia narrata da una psicologia individuale.
Annoiata e deprimente fu però l’opinione del produttore che liquidò quel soggetto in poche parole: “L’ho letto sai, il tuo coso lì. Vedi, secondo me non va mica bene perché non è sexy, capisci? Manca la “donna”. Un film è la donna! La femmina.” (lettera del 7 settembre 1967 a Maria Teresa de Simone Niquesa).
Shockato dall’inappellabile rifiuto e rimasto senza argomentazioni da controbattere (Ponti non conosceva affatto il romanzo di Svevo) Strehler fece “il pesce in barile” sprofondando però poi in una sorta di “paralisi interiore” aggravata anche dai problemi di salute .
In una successiva lettera a Moravia (forse datata 1968 e mai spedita), Strehler ammise di essere seccato e di non voler parlare più nemmeno con i muri.Chissà quali risate si sarebbe fatto il nostro Ettore Schmitz se avesse saputo che il suo romanzo era stato ritenuto “non sexy”. Ma allora erano certo altri tempi.

(Strehler privato, Ed. Comune di Trieste, 2007 – Gabriella Amstici, “Un Ulisse a Trieste”)

 

“Trieste ha una scontrosa grazia. / Se piace è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, / se mena all’ingombrata spiaggia / o alla collina cui, sulla sassosa cima /una collina, l’ultima, s’aggrappa. / Intorno circola ad ogni cosa / un’aria stana, un’aria tormentosa, l’aria natia. / La mia città che in ogni parte è viva, / ha il cantuccio a me fatto, / alla mia vita pensosa e schiva.”

“Una strana bottega d’antiquario / s’apre a Trieste, in una via secreta / d’antiche legature un oro vario / l’occhio per gli scaffali errante allieta. / Vive in quell’aria tranquillo un poeta. / Dei morti in quel vivente lapidario / la sua opera compie, onesta e lieta. / D’amor pensoso, ignoto e solitario. / Morir spezzato dal chiuso fervore / vorrebbe un giorno; sulle amate carte / chiudere gli occhi che han veduto tanto. / E quel che del suo tempo restò fuore / e del suo spazio, ancor più bello l’arte / gli pinse, ancor più dolce gli fe’ il canto.”

(Umberto Saba, Il Canzoniere)

“Avevo una città bella tra i monti rocciosi e il mare luminoso. Mia perchè vi nacqui più che d’altri, Mia che la scoprivo fanciullo e adulto, per sempre a Italia la sposai col canto”.
(Epitaffio di Umberto Saba)

“Noi vogliamo bene a Trieste per l’anima in tormento che ci ha dato. Essa ci strappa da nostri piccoli dolori e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere. E se da queste piante d’Africa e Asia che le sue merci seminano fra i magazzini, se dalla sua Borsa dove il telegrafo di Turchia e Portorico batte calmo la nuova base di ricchezza, se dal suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e rotta s’afferma nel mondo una nuova volontà, Trieste è benedetta d’averci fatto vivere senza pace né gloria.
Noi ti vogliamo bene e ti benediciamo, perché siamo contenti di magari morire nel tuo fuoco.
[…] Ah, fratelli, come sarebbe bello poter essere sicuri e superbi, e godere della propria intelligenza, saccheggiare i grandi campi rigogliosi con la giovane forza e sapere e comandare e possedere!
Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di vergogna, vi tendiamo la mano e vi preghiamo d’esser giusti con noi come noi cerchiamo di essere giusti con voi.
Perché noi vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete.
Noi vogliamo amare e lavorare.”

(Scipio Slataper, Il mio Carso)

 

“Vien qua sul Carso fra rovi e pini / e case di pietra grezze / e tramonti azzurri de malinconia. / Ti no te pol, ti mio splendido viennese / capir questo Carso duro e forse scortese. / Xe ciaro cossa te porti dentro de tì, / un paese un mondo una storia senza fine / e me par de somigliarte. / Inveze mi go davanti ai oci / questa mia città affondada / la nave da battaglia rovesciada / su una secca nel Vallon de Muggia. / Senza lagrime gettò la sigaretta / – l’ultima diseva Ettore Schmitz – / impassibile emetto il fumo / mentre una stretta al cor me dà vertigine.

[…] “Adesso che agosto è vicino / e sul Carso spuntano i ciclamini / sotto l pino, fra ‘l muscio bagnà. / Pianzo de malinconia / per quela maledeta cità mia, / quella amada-odiada / come una dona mai più dimenticada.”
(Fery FölkelMonàde”)

“La città è impazzita: / nessuno vuol andare al lavoro / in fabbrica, negli uffici. / Tutti bevono acqua sorgiva, / masticano i raggi del sole, / si adornano di ciliege / e si ricoprono col vento. / Tutti si sdraiano sull’erba / e fanno l’amore / oppure s’arrampicano sugli alberi / e in silenzio guardano il mare. / Gli uffici postali sono stracarichi di fiori, / nei telefoni echeggiano solo canzoni, / i giornali sono stampati su tenere foglie / e i politici ascoltano il ronzio delle api. / Questo mondo, d’un tratto così pazzo e giovane, / è un mondo nuovo, veramente rivoluzionario. / Ognuno lo vive e lo sogna a modo suo, / questo mondo, così meravigliosamente primaverile.”
(Marko Kravos, “Vela triangolare”, 1972)

“Hohò Trieste! Del sì, del da, del ja, / tre spade de tormenti / tre strade tutte incontri: / O Trieste! Piazze, contrade, androne, piere del Carso, acqua de marina. / Tutte t’ingrazia, mettile in vetrina! / E mi insempià, col naso contro vetro / vardo e me godo le bellezze tue.”
(L. Cergoly, “Ponterosso”)

“Siamo il pianeta Trieste, popolato di miti buoni (eh sì) superman, e quando per sgranchirci un po’ le gambe usciamo dall’astronave, giriamo come fantasmi tra le poche antiche vie silenziose e vuote subito dietro il porto (silenzioso e vuoto).
E l’odore di bassa marea aumenta la convinzione che le decorazioni dei vecchi palazzi Liberty altro non sono se non formazioni corallifere, resti di una città sommersa nel tempo anziché dall’acqua.
Tutto un diluviare di anni, e noi quassù a contarli. Quassù, a Trieste.”
(Libero Mazzi,Queste mie strade”, Trieste 1967)

“Se si esclude Berlino, nessuna altra città del mondo ebbe al pari di Trieste, dopo il 1945 e per tanti anni, una sorte altrettanto infelice, un’esistenza altrettanto provvisoria e una altrettanto pericolosa instabilità per ciò che concerneva il mantenimento della pace generale.
Fino all’ottobre del 1954 il cosiddetto problema di Trieste non solo ostacolò in molteplici occasioni l’evoluzione politica dell’Italia, ritardandone il ritorno alla normalità e consentendo intorno ad esso continue speculazioni da parte dei partiti, ma fu anche usato nella partita di poker giocata dalle quattro massime Potenze mondiali, alla stregua di un jolly, che passava continuamente da una mano all’altra, facendo pendere l piatto oggi a favore dell’Occidente e domani a favore dell’Oriente europeo. Una volta, nel 1953, condusse l’Italia e la Jugoslavia sull’orlo di una guerra che, se fosse scoppiata, difficilmente si sarebbe potuta circoscrivere allo scacchiere dell’Alto Adriatico.”
(Vladimiro Lisani, “Good-bye Trieste”, Mursia, Milano)

“Trieste è una città che veramente non se l’è mai meritata tanta retorica, perché i suoi cittadini sono stati alieni sempre della retorica. I suoi traffici, il suo campanilismo, manifestatosi perfino nell’ “Indipendentismo” è sempre stato legato ad una sorta di cosmopolitismo.
Convivevano cattolici e israeliti, c’erano una chiesa ortodossa e templi protestanti. Uomini che venivano da ogni parte con le loro famiglie: una città in cui i triestini erano prima di tutto triestini e qualche volta poi venivano a sapere che nel “Regno” erano usati per altro.
Io non voglio certo negare che Trieste, malgrado queste venature di indipendentismo e malgrado la presenza non solo di sloveni ma, in passato, di cecoslovacchi, di ungheresi e di tanta nazionalità dell’impero asburgico, è città italiana e di cultura italiana. Ma non vi dice niente, almeno per respingere questo rigurgito di retorica, che, se c’è una cultura italiana non retorica, quella è proprio la cultura triestina? Una letteratura scarna, severa, magari melanconica, ma non mai esasperata ed esaltata: le poesie di Saba e le pagine di Stuparich, di Slataper, di Benco, di Svevo. Pagine di italiani severi, rigorosi, abituati ad una vita molto concreta, che però, anche se fatta di traffici, non dimenticava che un libraio, come era Saba, potesse scrivere le poesie di un poeta come Saba fu.”
(Onorevole Giancarlo Pajetta, deputato al Parlamento)

“Il Carso è un pietroso altopiano / una sorta di piccola pianura / appena più alta della terra. / Quando il vento percorre l’altopiano / si può fingere di essere in aria. / Il Carso è un luogo povero di gente / si può per molto tempo non incontrare nessuno. / Da un certo punto di vista / sei un poco fuori dal mondo, isolato./ Sai che ti trovi soprattutto nello spazio. / Il Carso è pieno di cose curiose / oggetti strani che in altri luoghi non trovi. / Sassi col buco, alcuni con molti buchi / scavati nell’acqua, chissà quando. / Nello spazio pietra e silenzio creano la bellezza. / Sono strani anche i vegetali del Carso / si direbbe che non hanno idea di cosa è un bosco, né di cosa è un prato. / L’erba qui è poca e si ficca tra i sassi / talvolta trascura di crescere / dove mucchietti di terra sono disponibili. /
Per tutti questi aspetti messi insieme / il Carso pare uno di quei luoghi / di cui qualcuno ha detto che sono pieni di dei. / Piccoli dei nascosti / che ti guardano, anche ridono, / e non si capisce perché. / Ma questi dei li capisce / chi sul Carso è stato nell’infanzia / e sa benissimo che la storia di un uomo / può essere la stessa cosa della storia di un sasso.”
(Elio Apih, Poesie tenute nascoste)