Archivio mensile:agosto 2017

I secoli della peste

Trieste, le terre interne e lungo tutto il Litorale adriatico, come del resto anche l’Italia e l’intera Europa, fin dalla metà del Trecento furono colpite da violentissime epidemie di peste.
La terribile malattia venne diffusa soprattutto dai porti dove avveniva un continuo transito di commercianti, soldati, marinai, pellegrini e merci provenienti dall’Oriente dove la peste era diffusa dal rattus rattus, una varietà di ratto infettato dalla pulce Zenopsilla Cheopis che si attaccava anche all’uomo.
Le navi con casi di contagio a bordo venivano isolate per un certo periodo ma le epidemie si diffondevano ugualmente terrorizzando la popolazione che le ritenevano una punizione delle loro colpe.
Il morbo si manifestava con la comparsa di bubboni seguiti da febbri altissime e un decorso di 5/6 giorni ma nel 70/80% dei casi sopraggiungeva il delirio e la morte.
I cadaveri si accumulavano su strade e piazze mentre le pulci sui corpi ancora caldi si spostavano sui viventi infettandoli.

Foto tratta da un quadro di Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro, 1609/1612 – 1675)Peste 2 Micco Spadaro
Molti fuggivano dalle città abbandonando ogni avere pur di aver salva la vita e per quanti rimanevano nelle città si allestirono altari e cappelle, vennero organizzati riti religiosi, novene e processioni per pregare, espiare e ottenere il perdono dei propri peccati. Furono costruite anche delle chiese dedicate ai Santi Rocco e Sebastiano che alla fine del Duecento, dopo essere stati colpiti e prodigiosamente guariti dalla peste, si dedicarono alla cura degli ammalati.

I pochi medici di allora non disponevano di efficaci rimedi per debellare i contagi e fin dal Medioevo il solo mezzo per contrastare le varie epidemie che decimavano le popolazioni fu l’aceto le cui diverse proprietà furono descritte nel testo trecentesco De agri cultura di Pietro de’ Crescenzi.

Durante le visite agli ammalati i medici indossavano una specie di toga lunga e incerata, una maschera dotata di occhiali e di un lungo becco contenente delle spezie per contrastare i contagi.
medici 2Nacquero così le “Corporazioni dei fabbricanti d’aceto” di cui la maggiore fu quella dei “Vignaioli Acetai” sorta presso la chiesa di Santa Maria dell’Orto a Roma.
Sulle proprietà di questo preparato nel 1560 fu scritto il testo La singolar dottrina di Domenico Romoli, detto il Panonto, e nel 1611 il Tesoro della sanità di Castor Durante, stampato a Venezia.

Ancora nel Settecento come antidoto delle malattie endemiche veniva usato l’aceto concentrato con l’aggiunta di canfora e succhi di cedro e acetosella, e nel corso dell’Ottocento di un distillato dell’acetato di rame.

L’Impero asburgico sentì la necessità di isolare chi provenisse da paesi di possibile contagio obbligandoli a trascorrere un periodo di isolamento in spazi organizzati e protetti da mura chiamati Lazzaretti. (nota1)
Purtroppo però durante le epidemie non solo si riempivano a dismisura di ammalati che con altissima probabilità morivano nel giro di pochi giorni ma favorivano pure i contagi per le loro precarie condizioni igieniche.

A Trieste vennero costruiti 2 Lazzaretti: il primo tra il 1720 e il 1731 nell’area di Campo Marzio nominato “San Carlo” (nota 2) il secondo tra il 1765 e il 1769 nella zona di Roiano e intitolato “Santa Teresa” in onore dell’Imperatrice. (nota 3)

Il Lazzaretto San Carlo in una nota stampa di Rieger img445

Il Lazzaretto Santa Teresa in una cromolitografia dei primi decenni dell’Ottocentoimg441

Negli anni 1835, 1849 e 1855 Trieste fu duramente colpita anche dalle epidemie di colera provocando a ogni ondata dai 3.000 ai 4.500 casi e la morte del 40% degli infettati.

Nella foto (dal Museo Scaramangà) il portale d’ingresso del Lazzaretto Vecchio come si presentava nel 1840img446

Tra il 1867 e il 1869 sulla costa tra Punta Grossa e Punta Sottile venne allestito il terzo Lazzaretto detto “San Bartolomeo” , rimasto attivo fino alla prima guerra mondiale (nota 4)Lazzaretto san bartolomeo

Nella foto l’iscrizione sul portale d’ingresso che si trovava nel Lazzaretto di Santa Teresaimg454

Gli ultimi devastanti contagi di colera si manifestarono nel 1885 quando era già stato attivato l’Ospedale per malattie infettive S. Maria Maddalena, con padiglioni per colerosi dotati di appositi sistemi igienici di smaltimento dei liquami e dove nel 1886 si registrò il ricovero dell’ultima persona contagiata.

Solo alla fine del XIX secolo lo scienziato Louis Pasteur (1822 – 1895) dimostrò la natura biologica della fermentazione acetica indicando nel Mycoderma aceti l’agente del processo di tale formazione arrivando a identificare i microrganismi.

Con il miglioramento delle condizioni socio-economiche e igienico-sanitarie di gran parte della popolazione le tremende epidemie del passato furono progressivamente debellate e alla fine del XIX secolo scomparvero dallo scenario europeo.

L’ingresso del Lazzaretto Vecchio in una foto di Pietro Opigliaimage

Note:

  1. Sull’origine del nome “Lazzaretto” ci sono due ipotesi: la prima potrebbe riferirsi al Lazzaro, il lebbroso della parabola evangelica, la seconda al primo Lazzaretto sorto a Venezia il cui titolo di Santa Maria di Nazareth sarebbe stato foneticamente distorto con il nome di “lazzaretto”.
  2. Il “Lazzaretto San Carlo”, così nominato in onore di Carlo VI d’Asburgo (Vienna 1685-1740) aveva all’interno un’area medica, una chiesa dedicata a san Carlo Borromeo e un cimitero. In seguito venne chiamato “Lazzaretto vecchio” e trasformato in un arsenale di artiglieria. Nel grande edificio limitrofo nel 1904 venne allestito il “Museo del Mare”, ancora esistente nell’attuale via di Campo Marzio assieme ad alcune strutture. Il portale e l’edificio retrostante vennero demoliti nel 1950/51 dagli angloamericani.
  3. Nel Lazzaretto “Santa Teresa” esistevano 2 edifici per la quarantena, un ospedale, la cappella, 4 magazzini, 2 stalle e un cimitero. Dopo la costruzione della Ferrovia Meridionale il Lazzaretto verrà parzialmente interrato e nel 1880 definitivamente chiuso.
  4. Il nuovo Lazzaretto, che disponeva del collegamento ferroviario con la città e di un forno crematorio interno, rimase attivo fino al 1918. Attualmente è di proprietà del demanio militare.

Fonte: Renato Zanolli, Guida insolita di Trieste e della Venezia Giulia, Newton & Compton Editori, Roma, 2005
Alcune notizie sono state tratte da Wikipedia e dalla relazione “Un Lazzaretto dell’Ottocento nell’alto Adriatico” di Euro Ponte

Il cotto in crosta di pane

Il prosciutto cotto nella crosta di pane è una tradizione triestina ma le tracce della sua origine risalgono nientemeno che ai tempi dell’Impero Romano quando Marcus Gavius Apicius, un celebre gastronomo vissuto tra il I° secolo a.C. e il I° d.C., scrisse un gran numero di Praecepta culinarum (1) dell’epoca. 51QSxpIBwsL._SX331_BO1,204,203,200_

Nel settimo libro del testo risalente al V secolo d.C. “De arte coquinaria(2) (o “De re coquinaria“) appare una ricetta per la preparazione del prosciutto ottenuta con la della coscia di maiale lessata con alloro e fichi e passata con una “lardellatura” di miele successivamente cotta e poi avvolta in una “crosta” preparata con farina e olio. Le fette così ottenute venivano accompagnate con il vino cotto. img363

Le stravaganti e raffinate ricette di Apicio continuarono fino al Medioevo anche se via via vennero modificate secondo le evoluzioni storiche delle varie regioni.

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Anche la preparazione del prosciutto ebbe delle varianti: dopo la cottura s’iniziò a ricoprirlo con la pasta di pane al posto di farina e olio e poi a sottoporlo ad affumicatura ottenendo degli affettati dal gusto dolce e delicato.

In seguito la carne venne disossata, cotta in apposite caldaie, avvolta nell’impasto di pane e infornata per un minimo di 8 ore (secondo l’”Accademia della cucina italiana” era necessaria i ora di cottura per ogni chilo).
Con questo procedimento i profumi e i sapori restavano imprigionati nella crosta di pane che quando veniva tolta diffondeva un golosissimo profumo.

In passato l’usanza di questo particolare procedimento fu adottato in Boemia che serviva come antipasto le fette ancora calde accompagnate da radici di rafano grattuggiate e senape.
Ben presto Trieste né importò la tradizione assieme ai wurstel e ad altri salumi .
I fratelli Masè furono i primi nel lontano 1870 ad avviare in città una produzione artigianale del prosciutto cotto raggiungendo un tale livello di qualità da divenire un prodotto tipico servito nei buffet e quindi nelle salumerie.
Per prolungarne la freschezza fu adottato l’uso di un’iniezione manuale di salamoia in vena, procedendo a una cottura molto lenta e una leggera affumicatura con truciolo di faggio.
La coscia veniva poi avvolta nella pasta di pane e sottoposta a una cottura a 200 C° per circa due ore.
Le fette di prosciutto così ottenute acquistavano così un bel colore rosato e un sapore delicatamente affumicato. Cotto mase

Servito con un’affettatura rigorosamente a mano, non sorprende che il cotto in crosta di pane sia ancora richiestissimo, un vero brand tipicamente triestino, non vi pare?

1. Ricette gastronomiche
2. Arte culinaria

Fonti: accademiaitalianacucina.it – cibo.360.it – Wikipedia