Archivio mensile:luglio 2013

Edoardo Weiss e le malattie dell’io

Durante il lungo Impero asburgico Trieste accolse molti laureati a Vienna, Graz e Innsbruck stimolando così una vivacità culturale che nel resto d’Italia era ancora piuttosto arretrata.
Nei primi anni del Novecento alcuni intellettuali aggiornati su libri e riviste in lingua tedesca iniziarono a discutere sulle nuove teorie psicanalitiche di Sigmund Freud e radunandosi in circoli privati iniziarono a valutarle con grande interesse. L’importatore delle rivoluzionarie dottrine fu il celebre concittadino Edoardo Weiss, nato il 21 settembre 1889 da un’agiata famiglia ebraica di Trieste.

Dopo aver concluso gli studi liceali e fortemente attratto dalle teorie di Freud, si trasferì a Vienna per conseguire la laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria.
Allievo del dott. Paul Federn, Weiss conobbe lo stesso Freud, con il quale intraprese in seguito una lunga corrispondenza epistolare.

A 29 anni venne assunto dall’ospedale psichiatrico di Trieste dove si dedicò alle alterazioni psichiche e alle dinamiche delle psicosi, da lui definite “malattie dell’io”.
I nuovi metodi del dott. Weiss furono inizialmente accolti con una certa diffidenza ma alcuni famosi scrittori triestini vollero sottoporsi, con discutibili esiti, alle sue cure innovative contribuendo a una loro certa notorietà. Tra questi si menzionano il poeta Umberto Saba, il cui discusso libro Ernesto fu un vero coming-out ante-litteram, lo scrittore Guido Voghera (1884-1959) e il grande romanziere Italo Svevo, che seppure con spirito distaccato e ironico ne trasse ispirazione per la trama de La coscienza di Zeno.

In un articolo del Piccolo illustrato (datato 29/11/1980) Giorgio Voghera (1918-1999) figlio dell’Anonimo triestino, autore de Il segreto, analizzò i reconditi motivi d’interesse dei nostri concittadini per le complesse dinamiche interiori scrivendo con sottile arguzia:
Non si trattava di neurotici comuni, come lo sono quasi tutti gli uomini su questa terra, ma di neurotici gravemente tormentati dalla loro nevrosi. Era, in altre parole, gente che soffriva molto, che non riusciva a trovare pace e durevoli soddisfazioni in questa vita e non sperava d’altro canto in nessun’altra. La psicanalisi dava finalmente (o pretendeva di dare) un volto definito al loro male, ne indicava le cause, faceva balenare qualche vaga speranza di guarigione.”

Nel 1931 Edoardo Weiss abbandonò l’ospedale psichiatrico di Trieste per la sua opposizione al fascismo e trasferitosi a Roma iniziò, tra molte difficoltà, un’attività privata. Sostenuto da un gruppo di allievi entusiasti, ricostituì la Società psicanalitica italiana, precedentemente fondata da Marco Levi Bianchini ma rimasta solo un sodalizio nominale e fondò la Rivista italiana di Psicanalisi che ebbe però una vita brevissima per l’ostruzionismo del regime.

Edoardo Weiss con gli allievi Emilio Servadio e Nicola Perrotti nel 1934

Nel 1939 dopo la promulgazioni delle leggi razziali, fu costretto a emigrare con la famiglia negli Stati Uniti.
Stabilitosi definitivamente a Chicago continuò a dedicarsi agli studi della psicosomatica, alle complesse strutture della mente umana fino a sondare il terribile fenomeno della disgregazione dell’io cercando sempre di ottenere risultati terapeutici in tempi più brevi di quelli previsti dal trattamento freudiano classico.
I “Principi di psicodinamica” del 1950 e “Struttura e dinamiche della mente umana” del 1960 furono le due principali opere teoriche scritte da Weiss nei 31 anni della sua permanenza in America.
Il 1° dicembre 1970 il grande pioniere dello spazio interiore dell’uomo concluse a Chicago la sua lunga vita dedicata allo studio e al lavoro.

 

Notizie tratte da un articolo di Anna Maria Accerboni sul “Piccolo illustrato”, Trieste, 29 novembre 1980

L’antica San Silvestro

Per tradizione storica la prima chiesa di culto cristiano a Trieste sorse dalle rovine di un’antichissima casa a ridosso delle robuste mura difensive che circondavano l’agglomerato abitativo della Tergeste romana.
Nell’anno 256 d.C, in cui esistevano ancora le persecuzioni cristiane, in quella dimora abitata da Epifanìa, vedova del senatore Demetrio, avvenne la tremenda morte per decapitazione delle sue giovani figlie, la quattordicenne Eufemia e la dodicenne Tecla.
Sebbene in origine si evitasse di trasformare edifici pagani in luoghi di culto – come invece avvenne nei secoli successivi – si volle trasformare una piccola parte di quell’abitazione in cui si consumò l’orrendo omicidio, in un posto di pubblico raduno dove pregare anche in memoria delle due innocenti fanciulle.
Fu così chiuso l’atrio dell’abitazione collocato nell’ala destra e contenente la vasca per la raccolta delle acque piovane per ottenere un minuscolo vano consacrato e protetto dall’alta torre per il controllo delle porte d’ingresso alla piccola città.
Solo quando cessarono le disastrose invasioni barbariche nel corso del IV secolo fu possibile ampliare quella primitiva chiesetta dotandola di tre navate divise da una doppia serie di colonne e un porticato a fianco della vecchia torre su cui venne costruita una celletta a quattro aperture ad arco chiuse da griglie in legno per la collocazione delle campane. I vani sotterranei uniti da una serie di cunicoli furono destinati invece come luogo di sepoltura di prelati, nobili e facoltosi cittadini.
Il successivo gusto gotico dotò la facciata della piccola basilica con un rosone ad archi a tutto sesto e sulle pareti laterali vennero aperte delle finestre a trilobo.

Ma quella prima sede di culto cristiano continuò ad avere un destino travagliato. Per la sua posizione vicina al mare e un’affluenza di fedeli soprattutto marittimi, il Comune volle gestire in prima persona le funzioni religiose scegliendo i sacerdoti e stipendiandoli direttamente. Questa consuetudine continuò ancora nei secoli XVI e XVII mentre la sorveglianza e le cure liturgiche venivano impartite dalla Confraternita di San Silvestro presso una sede adiacente. Sembra però che verso la fine del Seicento questi doveri non venissero assolti con troppo scrupolo e che i fedeli fossero costretti a fornire l’olio per i lumicini e altre dotazioni d’uso.
Con decreti vescovili del 1° aprile e 30 novembre 1613 subentrò allora la Confraternita del Rosario con l’obbligo di tutta l’assistenza necessaria per le riparazioni e abbellimenti della struttura oltre all’impegno di svolgere le funzioni e i riti previsti, con l’esclusione delle celebrazioni dell’ultimo giorno dell’anno che rimasero di competenza alla Confraternita di San Silvestro.
Pochi anni dopo però iniziarono le lotte tra il Comune e il governo asburgico che nel 1619 impose l’ordine dei Gesuiti con la costruzione di un’imponente Basilica a ridosso di quella piccola e storica struttura.
Sotto il regno di Giuseppe II la vecchia Chiesa, ormai priva di mezzi e destinata all’abbattimento, venne messa a pubblico incanto e il 7 gennaio 1782 aggiudicata alla Comunità elvetica. Per rinnovare la struttura i preziosi affreschi trecenteschi, ordinati dal Vescovo Pace di Vedano durante l’ampliamento della chiesa nel 1322, furono coperti da una spessa tinteggiatura, così dopo ulteriori restauri di questa prima antichissima sede del Cristianesimo rimasero solamente alcuni frammenti dell’Annunciazione e una scena di battaglia sull’arco trionfale.
Dopo un lungo presbiterato della Soprintendenza di Vienna, nel 1926 fu stipulata una convenzione con la Chiesa valdese fintantoché le vicende che si susseguirono a Trieste nel secondo dopoguerra sciolsero anche quella piccola comunità, ultimo testimone della sua storia millenaria.
Tuttavia il sacello basilicale così tanto legato alle vicende di Trieste, conservò la denominazione di Chiesa di San Silvestro che ancora oggi svetta, piccola, umile e orgogliosamente antica sul colle del martire San Giusto.

 

Notizie tratte da: Trieste – Spunti dal suo passato, Silvio Rutteri, Borsatti Editore, 1950

Il conte Antonio Cassis Faraone

Tra i molti personaggi vissuti a Trieste rimasti nella cronologia storia, vorremmo ricordare l’eccentrico e ricchissimo uomo d’affari Antonio Cassis Faraone. La sua antica e nobile famiglia, originaria dell’altopiano siriano di Hauran, nel corso del XV secolo si trasferì a Damasco acquisendo nel tempo un tal potere da essere soprannominata Pharaon, cioè “colui che ispira paura”. Lì nacquero i fratelli Giuseppe nel 1721 e Antonio nel 1745.
Nel 1749 la casata si trasferì in Egitto entrando nelle conoscenze di Ali Bey, importante uomo di governo che in seguito affidò al giovanissimo Antonio un incarico di prestigio al Ministero del Commercio e nel 1769 la Direzione delle dogane egiziane.
La famiglia Cassis Faraone, divenuta il principale referente del commercio estero in Egitto, fu anche molto sensibile ai problemi religiosi e dopo aver costruito una chiesa cattolica con annesso il camposanto si dedicò anche a quella copta e dei Greci scismatici, impegnandosi a convertire i giovani cattolici divenuti turchi.
Di notevoli capacità diplomatiche il giovane Antonio instaurò ottimi rapporti sia con il governo asburgico, molto interessato all’espansione in Oriente, sia con i commercianti europei.
Il ricco imprenditore milanese Carlo Rossetti volle così offrire un’ importante compartecipazione azionaria della Compagnia Privilegiata per il Commercio con l’Egitto mediante una società costituita insieme al governatore di Trieste conte Carlo Zinzerdorf.
La nuova società si prefiggeva di spostare il commercio con le Indie dal Capo di Buona Speranza alle rotte del Mar Rosso e del Mediterraneo per stabilire un rapporto diretto con l’allora floridissimo mercato egiziano.
Dopo il 1781 l’abile business-men Antonio Cassis per i meriti della sua devozione alla sede Apostolica, ottenne da Papa Pio VI il titolo di Conte Palatino, dall’Imperatore Giuseppe II quello di Conte del Sacro Romano Impero e dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo il Cavalierato di Santo Stefano.
Ma verso la fine del Settecento L’Egitto divenne terra di sanguinose rivolte e Cassis fu costretto a lasciare Il Cairo e a stabilirsi per un breve periodo a Malta dove arrivò il 15 agosto 1784 con la seconda moglie Tecla di Moisè Gebarra (o Ghebarra) da cui ebbe ben 10 figli.
Il 21 luglio 1786 l’intraprendente conte decise di stabilirsi definitivamente a Trieste dove divenne uno dei massimi esponenti dell’export-import con l’Oriente.
Straricco e ben introdotto tra la nobiltà locale, acquistò prestigiosi patrimoni fondiari nella zona di Aquileia e nella Bassa Friulana aumentandone la produttività e relativi guadagni.
A Trieste Antonio Cassis Faraone fu il primo proprietario del Teatro Comunale (divenuto poi “Verdi”), commissionò la palazzina a 3 piani di piazza della Borsa angolo via Roma (attuale sede del Credito Italiano) e acquistò da Ambrogio Strohlendorf Villa Anonima in contrada Santi Martiri (oggi via dell’Università), a quei tempi vicinissima al mare in quanto non era stata ancora interrata la zona delle future rive. Ribattezzata Villa Cassis, si ergeva al centro di un immenso parco alla base del colle san Vito, allora costituito da appezzamenti coltivati e ameni sentieri fra alberi secolari.

Il nostro illustre ospite dopo aver ristrutturato gli interni con ridondante gusto orientale e apportandovi anche una strepitosa collezione di quadri e opere d’arte, delegò al capomastro Giacomo Marchini la creazione di uno spettacolare giardino con aranceti, pergolati, viti, statue e fontane con giochi d’acqua per sorprendere il fior fiore della nobiltà cittadina ospitata in questa splendida dimora degna del palazzo da Le Mille e una notte.
Assieme alla bella consorte Tecla Ghebara, i nostri chiacchierati ospiti con al seguito dei piccoli moretti passeggiavano per il Corso ornati da appariscenti costumi d’epoca con tanto di turbante e scimitarra per lui e vistosissime mise con gioielli assortiti per lei.Con l’andar del tempo però le fortune di Cassis Faraone si ridussero progressivamente: alcune proprietà immobiliari furono vendute e una parte delle sue favolose collezioni finirono in mano dei più famosi antiquari londinesi e francesi. (*)
Dopo una brevissima malattia, il 23 novembre 1805 l’eccentrico Conte morì lasciando tuttavia ancora una cospicua eredità ai molti figli.
La bella tenuta Cassis fu acquistata il 17 gennaio 1820 da Girolamo Bonaparte, fratello di Napoleone, che con il titolo di Principe di Montfort conferitogli dal re del Württemberg, la rinominò Villa Principe Napoleone.
Rivenduta dopo alcuni anni a Teodoro Necker, commerciante e console svizzero, l’estensione del bel parco fu ridotta nella parte sinistra per costruire la strada di comunicazione con il colle San Vito, rimanendo confinata sulla destra con la ripida Salita Promontorio.
Ceduta nel 1854 al Governo austriaco, il complesso ospitò il Comando Superiore della Marina e alla fine della Grande Guerra tutta la proprietà passò al Demanio.
Nel corso del Novecento, prima della seconda guerra mondiale l’edificio fu occupato dal Governatorato della Venezia Giulia e dal 1954 divenne sede del Comando Militare dell’Esercito “Friuli Venezia-Giulia”.

Notizie tratte da:
Inventario Cassis Faraone, Archivio Diplomatico Comune di Trieste a cura di Gabriella Norio;
Trieste, Spunti dal suo passato, Silvio Rutteri;
– (*) Trieste nascosta, Halupca – Veronese.

I ritratti di Cassis Faraone e della moglie Tecla risalgono alla fine del Settecento e  sono attribuiti a Francesco Maggiotto (in proprietà dei Civici Musei di storia e Arte)

La storia della corvetta Berenice

Nella fase più drammatica della seconda guerra mondiale molte navi militari e civili convergevano fra Trieste e Monfalcone per la presenza dei cantieri, della Fabbrica macchine Sant’Andrea e dell’Arsenale del Lloyd.
Trieste ebbe una vastissima organizzazione tecnologica per l’allestimento della marina da guerra e tutto il comprensorio portuale divenne zona militare, ma proprio per la sua strategica posizione nel settembre del 1943 si trovò nel mezzo di un feroce campo di battaglia.
Dopo l’annuncio diffuso dai microfoni dell’EIAR del Capo di Governo maresciallo Pietro Badoglio dell’armistizi firmato con gli anglo-americani al comando di Eisenhover e l’immediata fuga a Brindisi del Re Vittorio Emanuele III con tutti gli esponenti della Real Casa, tutto il territorio nazionale rimase privo di ordini.
Le navi della Regia Marina avrebbero dovuto far rotta a Malta ma sia per mancanza di direttive che per le immediate ritorsioni degli ex-alleati nazisti, tutte le forze militari erano completamente allo sbando.
Nella notte tra l’8 e il 9 settembre del 1943 un motociclista portaordini del colonnello della Wehrmacht riferì ai comandi tedeschi il seguente ordine: “Le navi italiane che non si arrenderanno al primo colpo di cannone siano poste immediatamente sotto il fuoco di tutte le armi”.
Fra le imbarcazioni ormeggiate, sul molo dello scalo legnami si trovava la corvetta Berenice, consegnata solo da pochi giorni dal cantiere di Monfalcone alla Marina italiana.
Con una stazza di 680 tonnellate la corvetta aveva in dotazione un cannone di 100/47 e due mitragliere da 20 mm. Il comandante era il genovese tenente di vascello Antonio Bonelli, il comandante in seconda il sottotenente Mario Tardini, l’ufficiale di rotta il guardiamarina triestino Walter Dovis; l’equipaggio era incompleto trovandosi a bordo solamente 85 persone. Dal lato opposto del molo erano ancorati il piroscafo armato tedesco John Knudsen e la Ramb IV, nave italiana ma occupata dai tedeschi, dotata di un cannone da 120 e due mitragliere da 20.


Alle ore 7 del 9 settembre il direttore di macchina della Berenice accese i motori, sciolse gli ormeggi e come si avviò verso l’estremità sud della diga Rizzo la corvetta fu colpita dalle cannonate della Knudsen e della Ramb. Con il timone distrutto l’imbarcazione girò su sè stessa senza riuscire a superare la diga e dopo essere stata crivellata di colpi, affondò in breve tempo. Alcuni uomini di bordo si gettarono in mare riuscendo a raggiungere la costa di Punta Grossa; il comandante Bonelli fu ripescato con la testa mozzata dalla palla del cannone; il guardiamarina Walter Dovis, di soli 23 anni, venne raccolto ancora vivo ma morì fra le braccia della madre dopo 24 ore di agonia; l’ufficiale di seconda Mario Tardini, che assunse il comando della nave dopo la morte di Bonelli, ebbe le gambe spezzate dalla mitragliate. Ricoverato in fin di vita riuscì a sopravvivere con una lunga convalescenza all’ospedale di Ancarano.  Alcuni abitanti del posto ricordano ancora le urla straziate a bordo della corvetta vigliaccamente attaccata in quel drammatico 9 settembre 1943.
Dei 5 morti, 2 vennero sepolti a Muggia, 3 al cimitero di Sant’Anna accanto al comandante Antonio Bonelli, 14 membri dell’equipaggio furono dati per dispersi, degli altri non si seppe nulla: alcuni probabilmente riuscirono a salvarsi nuotando a riva e raggiunte le colline di Muggia presero la via di casa o si unirono ai partigiani senza più ripresentarsi ai loro comandi.

Nelle stesse ore di quella tragica pagina di storia, era ancorato alla banchina di piazza Unità il cacciatorpediniere Audace che, con il comandante tenente di vascello Roberto Suttora di Lussino e l’ufficiale di rotta sottotenente di vascello Claudio Stenta, appresa la notizia dell’armistizio era giunto la sera prima da Fiume.
Quando la mattina del 9 settembre apparve all’orizzonte la torpediniera Insidioso, il tenente di vascello Italo Perlini resosi conto che l’artiglieria tedesca apriva il fuoco dalle rive, eseguì una rapidissima manovra riprendendo il largo intanto che il comandante Suttora ordinava ai 70 uomini di equipaggio di posizionarsi ai posti di combattimento. Tolti gli ormeggi l’Audace si apprestò alla partenza e nonostante le mitragliatrici avessero provocato molti feriti a bordo, non rispose al fuoco per non recare danni e altri dolorosi lutti alla città. L’equipaggio formato da triestini e istriani fu così costretto ad assistere, ammutolito e straziato, all’affondamento della Berenice in un mare infuocato.

Nella foto il monumento in memoria della Berenice al Cimitero Militare (in via della Pace)

La fine del leggendario cacciatorpediniere Audace
Lo storico cacciatorpediniere Audace, la prima nave da guerra italiana giunta nella Trieste italiana in quel lontano 3 novembre 1918 tra l’incontenibile entusiasmo di Trieste, fu invece l’ultima ad abbandonare la città dopo lo sciagurato armistizio dell’8 settembre 1943.
Dopo essersi rifugiata a Venezia e aver fallito un tentativo di raggiungere il sud, il 1° novembre 1944 finì in mani germaniche assumendo la sigla TA20. Da allora sul pennone non svettò più il tricolore ma la svastica nazista.
La ex-Audace, sorpresa al largo di Zara, fu poi straziata dai cannoni dei caccia inglesi e colò a picco sui fondali dell’Adriatico, dove tuttora giace (a 8° metri di profondità tra le isole di Pago e Lussino a 80 metri di profondità) assieme alle carcasse di molte altre navi da guerra.

Notizie tratte dall’ Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia, Udine, 1978.

La tragica sorte della nave scuola “Beethoven”

Nei primi anni del Novecento il Comune di Trieste volle dotarsi di una nave scuola per l’addestramento pratico degli studenti che frequentavano l’Istituto Nautico.
Dopo lunghe ricerche fu trovato in Olanda un veliero mercantile in acciaio a quattro alberi con una stazza di 3.250 tonnellate. Acquistato per 300.000 corone furono spese ulteriori 56.000 per gli adattamenti strutturali che vennero eseguiti a Cadice, sulla costa andalusa.
L’elegante veliero chiamato “Beethoven”, affidato al capitano di lungo corso di origine boema Vittorio Orschulek e a un equipaggio di 25 cadetti triestini, salpò dal porto spagnolo il 27 ottobre 1913 per imbarcare a Valparaiso (Cile) una partita di carbone destinata all’Australia.
Il 1° febbraio 1914 la nave scuola giunse al porto di New Castle e dopo le operazioni di scarico si accinse a riprendere il viaggio di ritorno con un piano di navigazione di 40 giorni.
Dopo aver accumulato una serie di ritardi il bel veliero non trasmise più alcun segno di vita e dopo 180 giorni fu dichiarato ufficialmente disperso assieme a tutto l’equipaggio.
Furono avanzate diverse ipotesi senza poter stabilire cosa accadde ma all’inizio dello scoppio della grande guerra un capitano di Zara, certo Alfredo Marcovich sostando in un porto spagnolo, venne a conoscenza del salvataggio di alcuni naufraghi del “Beethoven” nell’isola polinesiana Pitcairn. La notizia non ebbe riscontri certi e rimase nelle leggende marinare fino alla messa in onda di un documentario girato nel 1991 in un villaggio polinesiano dove veniva parlata una lingua molto simile al dialetto triestino. Non solo, in aggiunta all’incredibile caso, sulle cronache locali apparve la notizia che due ragazze friulane avevano ereditato un’isola della Polinesia.
Interpellati dei legali del posto fu confermato il lascito da parte di due naufraghi che miracolosamente approdati a inizio secolo, seppero accumulare una tal fortuna da acquistare l’intera isola che divenne così proprietà delle fortunate friulane.

Notizie tratte da: Trieste nascosta, di Armando Halupca e Leone Veronese, LINT Editoriale, 2009.

Il leggendario Pucinum

Superata dal mare la rocca del vecchio castello di Duino con l’inquietante sagoma della Dama Bianca, la scogliera declina in una zona pianeggiante dove i tre rami del Timavo scorrono verso l’Adriatico.
In epoche remotissime, trovandosi il mare più arretrato rispetto ad oggi e tutto il territorio ben più vasto e rigoglioso, esisteva il Lacus Timavi, formato dall’ansa di uno dei sette rami formati dalle vicine sorgenti del fiume. Protetto dall’ Insulae Clarae era sufficientemente profondo per essere usato come un porto sicuro per le navi e i i loro floridi commerci.
Su questi declivi coperti di fitti boschi e fertili campagne i Romani, nel corso dei secoli del loro impero, disseminarono vari edifici e splendide ville che si diramavano intorno alla lunghissima via Gemina, di cui ancora oggi rimangono alcune tracce. Purtroppo le brutali invasioni barbariche, che posero fine alla civiltà romana, distrussero completamente queste terre trasformandole in una landa acquitrinosa adattata poi per la coltivazione del riso.
Tra le molte perdite in questo bellissimo territorio non si può non menzionare il leggendario vino Pucinum rimasto nella storia per essere stato considerato un elisir di lunga vita dall’imperatrice Livia, consorte del potente Ottaviano Augusto.
Fu il prolifico studioso latino Plinio il vecchio a documentare nelle Naturales Historiae l’origine di questo nettare così speciale:
Nasce nel seno del mare Adriatico non lontano dalla sorgente del Timavo, su un colle sassoso; il soffio del mare ne cuoce poche anfore, medicamento che è superiore ad ogni altro. […] La vite del Pucino è di colore nerissimo. I vini de Pucino cuociono nel sasso”.
La fama delle sue qualità curative fu testimoniata anche dal medico romano Galeno e continuò nei secoli successivi: il vassallaggio marittimo che Trieste doveva a Venezia, solennemente rinnovato nel 1202 al doge Enrico Dandolo, veniva pagato con 50 orne di puro vino del territorio e quando Trieste nel 1382 sottoscrisse lo storico atto di dedizione all’Austria, s’impegnò a consegnarne fino a 100.
Ancora nel 1479 l’imperatore Federico III encomiò questo vino particolare con cui si curavano diverse malattie e prescrisse che il tributo dovesse essere pagato con le migliori produzioni d’annata. Con la preoccupazione di mantenere inalterate le sue pregiate caratteristiche, un decreto dell’arciduca Massimiliano emanato nel 1610 addirittura proibì l’introduzione nelle nostre terre di altre qualità di uva e vitigni.
Fu davvero una disdetta che successivamente alcuni storici fra cui l’Agapito, abbiano contribuito a creare una certa confusione identificando l’origine di questo celebre vino nei vitigni di Prosecco dove invece veniva coltivato un delizioso e frizzante vino bianco. Il Pucino era per certo un’ambrosia di colore rosso scuro, di bassa gradazione alcolica, fortemente astringente per l’alto contenuto di tannino e notoriamente usata per le dissenterie, allora endemiche, e le frequenti diarree causate dalla scarsità d’igiene.
Il famoso Terrano sarebbe invece una variante del più famoso Refosco, coltivato nelle più fertili terre d’Istria.
Dopo il 1880 tutti i vigneti del carso furono distrutti dalla pernospera, il terribile fungo parassita della vite introdotto in Europa dall’America. Dallo scempio si salvarono solo le viti coltivate più all’interno, intorno Aidussina, ma il loro successivo innesto su ceppi di vite americana che proteggeva il parassita inquinò la genuinità del corposo terrano limitandone la produzione.
Quanto al pregiato Prosecco, i vitigni furono portati nella zona di Conegliano e in Piemonte, dove vengono tuttora coltivati per la produzione di ottimi spumanti.

“Il vino della pace”

Vogliamo qui ricordare “La vigna del mondo”, una bella iniziativa sorta negli anni Ottanta nelle verdi valli del Collio dove in soli due soli ettari di terra sono coltivate ben 855 specie di viti provenienti dai cinque continenti.
Dalla vendemmia di questo specialissimo pot-pourri vinicolo fu ricavato il cosiddetto “Vino della Pace”, imbottigliato in serie limitata e recapitato a tutti i potenti della Terra. Il simbolico omaggio che proviene da zone colpite da tremendi conflitti, venne distribuito per la prima volta il 9 aprile 1986 dal suo ideatore Luigi Soini.
Come dimostrazione del desiderio di pacifica convivenza tra i popoli, sulla cima del colle di Medea sorge anche l’Ara pacis mundi, un’urna che raccoglie le zolle di terra provenienti da tutto il mondo come simbolo di una possibile speranza d’intesa tra le nazioni.

Fonti: Enciclopedia del FVG – Carlo Chersi, Itinerari del Carso Triestino – Dante Cannarella, Guida del Carso Triestino