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Le grotte del Timavo nel cuore del Carso

Dal Belvedere ai bordi della parete occidentale che si affaccia sulla Grande Voragine di San Canziano (Škocjanske jame, oggi in Slovenia) si può ammirare uno dei più affascinanti fenomeni carsici d’Europa: l’ultimo balzo del Timavo prima di essere inghiottito dalle profondità della terra. Per chi volesse inoltrarsi in una parte del suo tortuoso percorso potrà osservare gli straordinari risultati dell’incessante lavoro della natura attraverso milioni di anni e gli eroici sforzi dell’uomo che hanno reso percorribile questo mondo sotterraneo di multiforme bellezza e di indimenticabili emozioni.
In un remotissimo passato il soffitto dell’enorme grotta si collassò formando la Velika dolina (la Grande Voragine con la grotta preistorica e quella detta degli scheletri) e la Mala dolina (Piccola Voragine) a tutt’oggi ancora comunicanti con un ponte naturale. Sopra le pareti a strapiombo che sovrastano l’inghiottitoio giace placidamente l’antico paese di San Canziano con il suo svettante campanile ben visibile dal Belvedere, proprio al di là dell’impressionante baratro dove dopo un tumultuoso percorso di 4 chilometri lungo una rigogliosa gola, il Timavo scomparirà percorrendo ben altri 34 prima di emergere dalle 3 bocche a San Giovanni di Duino per poi affluire nel mar Adriatico.
Dopo la discesa nella grande dolina e l’ingresso nelle cavità sotterranee, si verrà immediatamente catapultati in un’altra percezione del reale dove il tempo e lo spazio si perderanno in uno scenario sconosciuto e inafferrabile, immersi nei primordiali rifugi dell’uomo. Nelle cavità naturali delle pareti della Grande e Piccola Voragine furono infatti rinvenute sepolture preistoriche risalenti agli insediamenti del Mesolitico e Neolitico, databili tra l’8000 al 4000 a. C.; altri reperti risalgono all’età del rame e alla prima età del bronzo (tra il 3000 e il 1700 a.C.) quando iniziarono le attività votive e di culto proseguite fino all’età del ferro e successivamente nei secoli del dominio romano. Oltre la metà delle necropoli preistoriche oggi conosciute sul territorio carsico sono state scoperte proprio sui siti che circondano l’antichissimo fiume Timavo testimoniando il suo incommutabile fascino.
La maggior parte dei siti archeologici fu portata alla luce nel corso dei tre decenni che precedettero la Grande Guerra constestualmente all’esplorazione delle cavità sotterranee effettuate dagli speleologi dopo gli scavi condotti dal dott. Carlo Marchesetti (tra il 1903-1904) e dall’austriaco dott. Josef Szombathy.
Le più antiche cartografie di questa particolare zona carsica risalgono alla Carta del Lazius nel 1573 e il Novus Atlas del Mercatore nel 1637, mentre le prime esplorazioni del corso sotterraneo del Timavo furono compiute dal gesuita Imperato utilizzando delle sonde galleggianti immerse nelle acque vicine all’inghiottitoio. Nel 1689 lo scienziato-ricercatore Johann W.F. von Valvasor (Lubiana 1641 – Krsko 1693) scrisse per la prima volta un trattato illustrato sul presunto percorso ipogeo del Reka-Timavo dando inizio alle avanscoperte nei primi tratti del suo inabissamento. Solamente dopo l’Ottocento però furono intraprese le esplorazioni delle grotte di San Canziano da parte di coraggiosi pionieri come Lindner, Svetina, Hanke, Rudolf, Müller, Schmidl e tanti altri che si spinsero nel sottosuolo fino a 500 metri di profondità. Ma una violentissima quanto inaspettata piena del Timavo trascinò con sé tutti gli attrezzi faticosamente costruiti, comprese le tre imbarcazioni, dando una lunga battuta d’arresto alle arditissime ricognizioni.
Un punto di svolta avvenne nel 1884 con la costituzione della Sezione speleologica della Succursale per il Litorale, un sodalizio tra l’Associazione alpina tedesca e austriaca, che ottenne la gestione delle grotte. Sotto la direzione di un “triumvirato” composto da Anton Hanke, Josip Marinitsch e Friedrich Müller e l’aiuto di generosi abitanti locali, fu intrapresa una sistematica opera di avanzamento nelle caverne seguendo l’alveo del fiume. Ma gli sforzi necessari e gli ostacoli da superare furono di indicibile gravosità: il flusso torrentizio frammezzato da rapide e cascate con l’eventualità di improvvise piene costrinsero gli uomini a progettare delle “vie di scampo” perpendicolari che consentissero di raggiungere in poco tempo quote d’altezza non lambite dalle acque attendendo da posizioni scomode e rischiose il loro deflusso. Nel lento e laborioso avanzamento si sfruttarono le tecniche dell’alpinismo per superare le pareti a strapiombo e scandagliare le pareti o i soffitti delle gallerie laterali sfruttando le mensole naturali e incidendo scalini d’appoggio nella viva roccia. Vennero così apprestati sentieri ferrati, passerelle, ponti e arditi passaggi sospesi sopra le voragini. Nel 1887 venne superata la quattordicesima cascata nel canale di Hanke, nel 1890 fu raggiunta la Sala Martel e quindi la sponda del lago della Morte. L’ultima scoperta la Grotta del Silenzio, chiamata così perché sono del tutto assenti gli echi delle acque, ed è proprio da questa enorme cavità che attraverso una galleria artificiale inizia la traversata di questa affascinante parte del mondo sotterraneo del Carso.
I lunghi lavori all’interno degli antri ingegnosamente illuminati con fasci di luce che accendono le più spettacolari formazioni calcaree hanno ottimizzato i dislivelli e i passaggi più azzardati rendendo la visita del tutto sicura. A tratti sono comunque ancora visibili i primi passaggi scavati quasi a livello del fiume nella Valle dei Mulini e nella stupenda Caverna Michelangelo da dove filtra la luce del sole in uno scenario di sconvolgente bellezza. E la traversata sulla “passerella del gatto” (di Hanke) che a 90 metri d’altezza collega le due sponde dell’enigmatico fiume che schiuma le sue furiose acque in un continuo fragoroso vortice ci fa sentire quello “spiritus movens” che rimanda i perpetui echi della sua storia millenaria. E quando si esce dall’ultima caverna davanti lo squarcio che si apre ai piedi della Grande Voragine vengono in mente gli ultimi versi dell’inferno dantesco:
“Entrammo a ritornar nel chiaro mondo / Tanto ch’io vidi delle cose belle / che porta il ciel per un pertugio tondo: / E quindi uscimmo a riveder le stelle.”
Dal 1986 il Parco con tutta l’area delle Grotte di San Canziano è compreso nel patrimonio mondiale dell’UNESCO come riconoscimento del suo valore internazionale.

(Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Trieste, Edizioni Lint, 2004)
(B. Peric, Il Parco di Škocjanske jame, Ljubliana, 2003)

La grotta Michelangelo
Il ponte Hanke

Continuano i problemi d’approvvigionamento idrico

lobianco766Nell’anno 1849, ottenuta la reggenza municipale di Trieste, ripresero i progetti per aumentare l’apporto idrico per Trieste, fino ad allora ottenuto dalle sorgenti di Zaule alimentate dal torrente Rosandra. Sotto la direzione di un “Comitato alle Pubbliche costruzioni e Lavori idraulici” l’ispettore dei civici pompieri Giuseppe Sigon con una serie di progressive esplorazioni nella grotta di Trebiciano riuscì a raggiungere il sifone di entrata del canyon sotterraneo e a valutare in ben 758.000 metri cubi la sua portata nelle 24 ore e a 410.000 mq/h. durante i periodi di massima siccità, quantità dieci volte superiore a quella giudicata necessaria per l’acquedotto di Trieste. Per l’enorme volume delle acque si dedusse che altri fiumi potessero ingrossare quello di Trebiciano che con altre ramificazioni confluisse poi allo sbocco di San Giovanni di Duino.

Mentre in Comune venivano esaminati i lavori di scavo per costruire gallerie e tubature, un nuovo fatto ribaltò ancora i progetti. Per rifornire i treni a vapore della futura Ferrovia Meridionale, fu costruito in breve tempo un acquedotto che convogliava le non molto abbondanti sorgenti costiere di Aurisina mentre una conduttura parallela avrebbe portato l’eccedenza d’acqua in città. Ma in una Trieste in continuo sviluppo l’erogazione così ottenuta, peraltro con altissimi costi, divenne ben presto del tutto insufficiente. Le risorgive avevano inoltre dei flussi incostanti e spesso commisti ad acqua salmastra e con l’ennesima siccità verificatasi nel 1868, si prosciugarono del tutto.

I progetti estrattivi dal fiume sotto le grotte di Trebiciano non furono comunque mai abbandonati anche perché interessavano molti studiosi.

Nel 1895 l’ingegnere svizzero Polley, ritenendo fattibile l’approvvigionamento idrico di quel torrente sotterraneo, acquistò la grotta di Trebiciano affidando al giovane Eugenio Boegan dei nuovi rilievi. Dopo anni di misurazioni e studi, appena nel 1910 l’ing. Polley presentò i progetti per azzardatissime gallerie con pendenze dello 0,5 per mille dotate di pompe elettriche azionate da turbine per intercettare le acque a 85 metri di quota. Propose poi di allungare le gallerie per intercettare anche le acque delle grotte di San Canziano e perfino la costruzione di un’elettrovia per il trasporto di merci e persone.

Tutte le elaboratissime proposte del Polley terminarono nel 1912 con la cessione della grotta di Trebiciano al Comune di Trieste.

Nell’anno successivo, dopo alcuni riadattamenti e le periodiche misurazioni delle acque, si riuscì a provare con un colorante di cloruro di litio, che le acque del Reka inabissate a San Canziano continuavano il loro segreto percorso fino a congiungersi con quelle sotto la caverna di Trebiciano.                                                                                                                                            Durante le operazioni belliche della prima guerra mondiale le briglie di contenimento alle risorgive del Timavo furono distrutte per impedire di incrementare la portata dell’acquedotto di Aurisina, danneggiato anch’esso dalle artiglierie italiane e le misurazioni nella grotta di Trebiciano divennero saltuarie.

Nel 1927 fu escogitato un nuovo tentativo di marcatura delle acque del Reka – Trebiciano- risorgive del Timavo: un certo numero di anguille (con diverse incisioni) furono immesse nel corso esterno del fiume nella pianura di Vreme, altre nella voragine di San Canziano e un terzo gruppo nel torrente inabissato a Trebiciano. La prima anguilla giunse alle risorgive di San Giovanni di Duino dopo 40 giorni, alcune delle restanti entro un anno.                                            Fu così finalmente raggiunta la certezza che le zampillanti acque provenienti dal Monte Nevoso dopo un tranquillo percorso in valle, la loro scomparsa e il tortuoso tragitto nelle profondità delle terre carsiche, sgorgavano proprio nelle risorgive di San Giovanni di Duino per poi sfociare nell’Adriatico.

Ma ancora nel 1953 e 1977 si tentava di carpire il segreto del sifone di entrata dell’arcano Timavo nelle vicine grotte di Trebiciano: l’immenso bacino di tutti i vasi comunicanti possiede delle dinamiche ancora sconosciute dominate da forze che sfuggono ai più sofisticati studi idrologici e idrodinamici.

Fonti:

Mario Galli, La ricerca del Timavo sotterraneo, Edizioni del Museo Civico di Storia Naturale, Trieste, 2000