Archivio mensile:ottobre 2013

Il Civico Museo di Storia e Arte

Quando il ricco mercante maltese Giuseppe Ellul Germain acquistò nel 1836 il Giardino del Capitano, l’edificio settecentesco all’interno dell’area fu ristrutturato e in seguito sopraelevato di un secondo piano. Divenuta per opera di Giovanni Battista de Puppi un’elegante residenza neoclassica, nel 1883 venne adibita a Convitto Diocesano ma dopo trent’anni fu acquistata dal Comune con l’annesso giardino.

Eseguite alcune modifiche, il 21 aprile 1925 venne finalmente inaugurata la nuova sede del Civico Museo di Storia e Arte dove trovarono uno spazio idoneo tutte le collezioni archeologiche e storico-artistiche conservate fino allora nei ristretti ambienti di Palazzo Biserini (nell’attuale piazza Hortis) e comprendenti materiali preistorici, protostorici e romani e una notevole serie di reperti egizi, ciprioti, greci, etruschi e maya.

Solo dopo i lunghi e difficili lavori svolti sul colle di San Giusto negli anni Novanta e organizzati i nuovi assetti interni del Civico Museo tra il 2000 e il 2004 fu possibile accedere ai suoi due piani e ai depositi archeologici fino allora riservati ai soli studiosi.

Al pianoterra sono esposti quasi un migliaio di pezzi che giunsero nell’Ottocento nel corso dell’intenso traffico mercantile del porto triestino. Nelle due nuove sale – finanziate dalla famiglia Costantinides – si trovano i sarcofagi egizi e materiali greco-romani, copti e arabi che completano il panorama sull’antica civiltà dei faraoni. Accanto al sarcofago in granito rosa di Assuan (detto Panfili dal nome della famiglia che lo donò al Museo nel 1950) e a quello in pietra bianca di forma antropoide, spicca il sarcofago in legno stuccato e dipinto di Pa-di-Amon, vissuto a Tebe durante la XXI dinastia (1075-945 a.C.). Curiosamente all’interno non si trova più la mummia del sacerdote ma quella di un corpo femminile in parte manomesso nel bendaggio ma in eccezionale stato di conservazione e databile in un periodo compreso tra il 950 e il 663 a.C. In una saletta climatizzata e di suggestivo allestimento si trova lo splendido sarcofago di Pa-sen-en-Hor, portatore d’incenso nel tempio di Amon e vissuto tra il 1075-945 a.C. Il corpo mummificato e rimasto intatto nelle bendature giace nell’avello originale, completo di involucro in cartonnage, con il legno stuccato e magnificamente dipinto e la scrittura in caratteri geroglifici della richiesta di offerte rivolta agli dei.

Le collezioni egizie comprendono 4 vasi canopi d’alabastro (contenenti i visceri del defunto prima dell’imbalsamazione), quattro fogli di papiro appartenenti al Libro dei Morti, stele funerarie in omaggio al dio Osiride, un pyramidion in pietra, amuleti e statuine in bronzo raffiguranti le Divinità egizie.

Nella terza sala sono esposti reperti successivi all’era dei faraoni appartenuti a greci e romani che si stabilirono lungo le rive del Nilo. Di particolare bellezza il pettorale di una mummia inquadrabile nel periodo Tolemaico (III-I secolo a.C.) provenente da Tebe e alcune figure di terracotta di arte ellenistica che tuttavia preservano le stesse divinità egiziane mutandone il nome.

Di grande interesse sono anche le raccolte con il simbolo della croce che testimoniano la diffusione del Cristianesimo tra il IV e VI secolo d.C., una stola ricamata su lino proveniente dalla necropoli di Assuan, e le ceramiche islamiche risalenti al XII-XIV secolo rinvenute presso Il Cairo.

Il primo piano è dedicato alla Preistoria e Protostoria locale, alla ceramica greca e a quella Maya da El Salvador. Il percorso si snoda tra i reperti preistorici risalenti al 3000-2000 a.C. rinvenuti nelle grotte del Carso, i primi strumenti in pietra e osso del periodo Paleolitico (di 80-35000 anni fa) e quelli più evoluti forgiati in seguito all’ultima glaciazione datata tra l’8000 e il 5000 a.C. e definita era Mesolitica. Quella Neolitica (5-3000 a.C.) ed Eneolitica (3-2000 a.C.) attestano il progressivo passaggio all’economia produttiva, incentrata sulla coltivazione e l’allevamento del bestiame. Nella sezione della Protostoria definita anche del bronzo e del ferro compresa dal millennio fino alla romanizzazione tra il II e I° secolo a.C., i materiali rinvenuti sia nei castellieri (tipici centri fortificati insediati sulle alture) che nelle necropoli del Carso, hanno permesso di apprendere la cronologia, la descrizione dei luoghi e i contesti di provenienza.

Di grande interesse è l’esposizione dei corredi della necropoli di San Servolo (oggi sul confine est della Slovenia) che comprendono resti di tombe preromane e romane dalla seconda metà del I° secolo a:C. fino al I° d.C.: resti di cremazioni, accessori in argento, bronzo, ferro, oggetti di cosmesi e una grande quantità di utensili in vari materiali. Ricca di reperti è la sala dedicata allo straordinario sito di Santa Lucia di Tolmino (oggi in terra slovena) che ha restituito più di 7000 tombe a incinerazione e ricchissime di corredi funerari, databili tra il VIII e il IV secolo a.C.

Nelle altre Sale del Museo di storia e Arte sono esposte immense collezioni di vasi ciprioti, ceramiche corinzie, magnogreche, etrusche e i 2000 reperti provenienti dagli scavi di Taranto (parte dei quali donati nel 1886 da Giuseppe Sartorio) e acquistati dal Comune di Trieste dal mercante Vito Panzera. Splendido il rhyton (boccale per libagioni) in argento sbalzato e dorato e raffigurante la testa di un giovane cerbiatto e una scena mitologica, databile tra la fine del V secolo e gli inizi del IV, attribuibile a una bottega attiva nelle colonie greche sulla costa del Mar Nero.

(Marzia Vidulli Torlo, Il Civico Museo di Storia e Arte, Rotary Club Trieste)

 

Il Lapidario Tergestino

L’esposizione si articola all’interno del cinquecentesco bastione Lalio del Castello e illustra la Tergeste romana attraverso i monumenti dell’area capitolina dopo gli impegnativi restauri degli anni Novanta svolti dalla Sopraintendenza e dal Comune.

Inaugurato il 4 aprile 2001 il Lapidario Tergestino comprende alcune iscrizioni apposte su mura e torri edificate tra il 33-32 a.C. da Ottaviano Augusto (Sala A) e quelle che attestano l’erezione di edifici pubblici cittadini da parte di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio (Sala B). Nella Sala C sono esposti i monumenti sepolcrali suddivisi per provenienza e che comprendono are, stele, cippi, urne e sarcofagi con i nomi degli antichi tergestini. Segue poi il settore dedicato ai luoghi di culto con dediche agli dei e al materiale rinvenuto durante gli scavi del Teatro Romano costituito da una serie di statue che ne decoravano la scena: Venere, Bacco, Apollo, Minerva, Igea e Esculapio.

Grazie alla generosità della famiglia Costantinides è stata allestita una Sala dedicata ai mosaici provenienti dalla lussuosa villa romana rinvenuta sulla costiera di Barcola (databili tra la fine del I° secolo a.C: e la metà del I° sec. d.C.) che documentano l’imitazione da parte dei ricchi proprietari delle opulente dimore di Augusto, Tiberio e Nerone.

Percorrendo i sotterranei del bastione Lalio si viene avvolti da un’atmosfera magnetica e come sospesa in un tempo che ci conduce altrove lasciandoci dei frammenti della sua lunga storia.

La promenade nelle sale del vecchio castello e lungo le sue storiche mura da cui si gode l’arioso panorama, tra i sentieri del Giardino del Capitano e i tenebrosi sotterranei dei torrioni è un irrinunciabile incontro con il corso dei secoli e la sua affascinante, indimenticabile memoria.

(Musei e biblioteche, Comune di Trieste)

 

L’Orto Lapidario e il Giardino del Capitano

Il primo progetto di un museo con lapidario risale al 1813 su idea dell’architetto Pietro Nobile che intendeva riunire le antichità di Trieste e delle terre istriane nell’ex convento francescano adiacente alla Chiesa di Sant’Antonio Vecchio in Piazza Lipsia (oggi piazza Hortis). Alcuni anni prima Domenico Rossetti aveva proposto di innalzare un degno monumento in memoria di Johann Joachim Winckelmann, l’illustre archeologo assassinato nella “Locanda Grande” di Trieste. L’occasione si presentò quando in seguito all’apertura del nuovo cimitero di Sant’Anna (1925) negli spazi inutilizzati dell’area sepolcrale di San Giusto venne eretto il cenotafio del celebre archeologo, inizialmente protetto da una nicchia. Dieci anni fu così realizzato da Pietro Kandler l’Orto Lapidario in cui furono riunite le lapidi di tutta la regione e del Litorale istriano.

Nel 1873 venne approvato dal podestà lo statuto del Museo Civico d’Antichità con la direzione di Carlo Kunz e in seguito da Alberto Puschi (dal 1898) e Pietro Sticotti (dal 1934) che nel corso degli anni apportarono ulteriori lavori.

La vastissima collezione di pietre incise e sculture proveniente da Aquileia venne conservata in un tempietto di stile corinzio dove nel 1934 fu sistemato anche il cenotafio di Winckelmann. Altri reperti di storia locale furono collocati nel romantico Giardino del Capitano fino alle impegnative ristrutturazioni effettuate negli anni Novanta dalla Sopraintendenza e dal Comune.

Nel giugno del 2000 con il nuovo allestimento dell’Orto Lapidario i reperti aquileiesi, istriani e triestini di carattere sepolcrale e onorario sono stati protetti in moderni espositori che ripetono il disegno delle nuove cancellate di piazza della Cattedrale, accanto alla chiesetta di San Michele.

Il percorso si avvia poi con la discesa al Giardino del Capitano, esteso davanti la facciata del Civico Museo di Storia e Arte. Di pertinenza ai capitani Imperiali residenti nel Castello di San Giusto veniva un tempo chiamato “Lustgarten” ed era delimitato da un quadrilatero di mura turrite addossate al muraglione che sosteneva l’antica area sepolcrale. Gli scavi archeologici iniziati nel 1927 e proseguiti a fasi alterne fino al 1971 hanno portato alla luce reperti databili agli inizi del II secolo d.C. e delle mura a speroni che hanno indotto a ritenerle opere di terrazzamento al pendio del colle con una possibile scalinata di accesso alla zona monumentale, vera acropoli della città imperiale romana.

Nel Giardino del Capitano è conservata anche una particolare lapide proveniente dall’area magrebina con un’iscrizione funeraria araba che riporta un versetto del Corano e il nome del proprietario, morto nel 509 (data islamica corrispondente al 1115) e un’iscrizione del 1769 che ricorda le opere dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa.

Nell’angolo del muraglione a sostegno del sagrato della Cattedrale si apre un cunicolo sotterraneo che porta al basamento del suggestivo propileo romano già in parte visibile nel campanile di San Giusto.

I complessi lavori condotti dalla Sopraintendenza e dal Comune hanno assicurato la tutela dei reperti esposti e la salvaguardia dell’ambiente restituendo alla città la romantica atmosfera del luogo.

(Marzia Vidulli Torlo, L’Orto lapidario, Rotary Club Trieste, 2005)

 

La cattedrale di San Giusto e dintorni

I restauri del Dopoguerra

Dopo l’annessione di Trieste all’Italia (3 novembre 1918), fu deciso di predisporre un parco della Rimembranza per ricordare i volontari giuliani caduti nella guerra di liberazione e di allestire un monumento in onore della gloriosa III armata.

Nella seduta del 12 novembre 1924 il Consiglio Municipale affidò l’esecuzione dell’opera allo scultore Attilio Selva (Trieste 1888 – Roma 1970) allievo di Leonardo Bistolfi e il 10 maggio 1927 venne deciso di collocarlo nel colle di San Giusto. La grande scultura dei Caduti, alti più di 5 metri e fusi nel bronzo nello stabilimento Lagagna di Napoli, fu terminata nell’agosto del 1935. Il monumento venne solennemente inaugurato il 1° settembre dello stesso anno alla presenza del re Vittorio Emanuele II.

Dopo aver acquistato i terreni alberati del circondario appartenuti alla famiglia Popper, il municipio fece abbattere alcuni edifici tra cui le così dette “case rosse” e costruì la via Capitolina di lato a Montuzza rendendo così agevole la salita al colle in alternativa alla ripidissima via San Giusto.

Nel corso degli scavi di fianco alla Cattedrale affiorarono i resti di un’area forense di periodo imperiale romano. La pianta rettangolare era divisa in tre navate da una doppia fila di 12 colonne scanalate (poi ricostruite in mattoni) che reggevano un secondo piano. Sul lato nord due scalinate raggiungevano il tribunale mentre nel lato sud si apriva uno spazio destinato alla curia o alla sede del consiglio municipale. Gli elementi rinvenuti sia decorativi che epigrafici presupposero però due diverse fasi di edificazione: l’originaria risalente alla metà del I secolo d.C., la seconda all’epoca di Marco Aurelio, attorno al 180 d.C. La facciata della basilica forense si apriva sul lato occidentale (dove ora sono collocate le file di cipressi) con un ampio portico occupato in parte da botteghe.

Alcune recenti ipotesi hanno messo in discussione tale ricostruzione proponendo piuttosto un complesso più articolato e destinato invece al culto imperiale.

La costruzione del massiccio e austero campanile di San Giusto che sorse sull’antica torre romanica conservata all’interno, fu iniziata il 17 febbraio 1337 per volere del notaio Randolfo Baiardo – come risulta dall’iscrizione in caratteri gotici posta sopra l’arco del portale – e terminata nel 1343. Durante questi lavori fu demolita la parte centrale del propileo romano e le lastre decorate a bassorilievo con i simboli delle vittorie militari romane vennero utilizzate per decorare una parte di muratura del nuovo campanile, per il resto disadorno. La torre trecentesca terminava con un’acuta cuspide dove spiccava il “melone” con l’alabarda (entrambi simboli di Trieste) ma dopo le lesioni provocate da un fulmine abbattutosi nel 1421, la cuspide fu sostituita con un tetto di tegole a piramide schiacciata (come ancora oggi si presenta) mentre il melone con l’alabarda vennero rimossi. Le bifore gotiche che servivano alla difesa degli assedianti veneziani furono modificate 130 dopo con le doppie aperture ad arco su tutti i lati della cella campanaria. Sopra l’ingresso della torre in un’edicola gotica ad arco fu posta la statua gotica del patrono San Giusto attribuita a una bottega di Venzone.

Le campane dell’antica torre, più volte lesionate da fulmini e incendi, subirono diverse rifusioni nel corso dei secoli. Gli storici asserirono che quella più grande chiamata da sempre “el Campanon” fosse stata rubata dai veneziani durante la conquista di Trieste nel 1508 e una vecchia leggenda narrava che quando la campana fu caricata su un bastimento nei pressi dell’odierna Lanterna, scivolò in mare. Per molto tempo i marinai che passavano di là durante i temporali riferirono di udire fra il sordo rumore delle onde contro la riva anche il dolce suono della campana sommersa.

Dopo le secolari vicissitudini appena negli anni Cinquanta vennero commissionate tre nuove campane fuse con gettate di rame e stagno e decorate da Carlo Sbisà (Trieste 1899-1964). Inaugurate il 26 ottobre 1953 e benedette dal vescovo mons. Antonio Santin vennero sottoposte a prove d’intonazione per diversi giorni.

A sinistra della Cattedrale, arretrata rispetto al campanile, si trova la cappella di San Giovanni, che fu battistero fino al 1861. Con i restauri del 1932 furono abbattute le sovrastrutture ottocentesche e ricostruita l’abside originaria con il battistero paleocristiano e un piccolo porticato lasciando in vista i frammenti i frammenti dell’antico pavimento in mosaico. La cappella si presenta attualmente come una costruzione tardoromanica di francescana semplicità.

I grandi restauri degli anni Trenta riguardarono anche la facciata della Cattedrale, rivestita fino allora con uno spesso strato d’intonaco dipinto a fasce orizzontali alternate chiare e scure. Fu ripristinato così l’aspetto medievale con la muratura in pietra. Il trecentesco rosone di scuola lombarda, forgiato in pietra bianca di Aurisina e marmo di Carrara, ha un giro esterno di 24 colonnine binate con archi ogivali e al centro una piccola ruota di 12 coppie con archi a tutto sesto intrecciati e occupa un terzo dell’altezza della facciata (m.6,70 sui 21 complessivi).

Sopra il portale maggiore fu ricollocata una semplice lapide in marmo in ricordo del bombardamento austro-inglese del 1813 contro le truppe napoleoniche asserragliate nel campanile e nel castello, mentre sugli stipiti vennero lasciati i due blocchi ricavati da una monumento sepolcrale risalente al I° secolo d.C. e appartenuto alla ricca famiglia dei Barbi. In una nicchia a sinistra della facciata, leggermente più in basso rispetto a quella di San Giusto posta sul campanile, fu mantenuta la statua lignea di San Giovanni Evangelista.

La Cattedrale

Anche i lavori all’interno della Cattedrale mirarono al ritorno dell’aspetto trecentesco alterato da strati di intonaci e diverse costruzioni erette nel corso dei secoli. Con il riapparire di finestre ad arco acuto, bifore e cupole di navate e cappelle, la sistemazione di lapidi e frammenti archeologici, fu ricreata l’atmosfera di un antico tempo.

Accanto gli altari principali inseriti nelle absidi delle 5 navate, furono sistemati degli altari minori ai lati del duomo. Sempre nell’anno 1929, nella semplice cappella restaurata di San Servolo (di fianco alla navata destra di San Nicolò) fu sistemata una bellissima scultura inquadrabile nella seconda metà del XV secolo raffigurante Il compianto sul Cristo morto che giace fra le braccia di sette figure artisticamente plasmate con lo stucco.

La prima navata di sinistra, realizzata all’inizio del Trecento in onore dei santi aquileiesi Ermacora e Fortunato, conservava un tempo le reliquie di San Lazzaro, martire e copatrono triestino. Dal Seicento fu dedicata alla Madonna Addolorata e nell’Ottocento arricchita da affreschi che rappresentavano la vita di Gesù e del suo martirio. Nel 1850 venne eretto un altare su cui poggiava una cinquecentesca Pietà intagliata con legno di tiglio dipinto; solo in seguito la Madonna fu rivestita con ricche stoffe e una corona d’oro. Sulla parete sinistra della navata è stato collocato Il martirio di San Giusto grande quadro a olio di Carlo Wostry (Trieste 1865-1943) con la tetra immagine del martire legato con la pietra prima di venire annegato dai due carnefici.

La seconda navata di sinistra, nota dall’inizio dell’Ottocento come quella del Santissimo Sacramento è la meno riadattata avendo mantenuto un suggestivo aspetto romanico che ricorda le architetture ravennate come risulta dai 14 capitelli a foglie di palma e disposti su due ordini per formare l’arco. Nell’abside brilla uno splendido mosaico con sfondo dorato di arte mediobizantina della prima metà del secolo XII dove sono raffigurati la Madonna tra arcangeli Michele e Gabriele e nello striscione sottostante i 12 apostoli. Ai loro piedi è stata posta un’epigrafe che ricorda i restauri e gli interventi eseguiti (Pietatis et spei temporibus acerbis testimonium A.D. MCML renovatum). 

La navata di destra, dedicata al martire triestino San Giusto, ha subito invece molti riadattamenti. Nel corso del 1929 fu restaurata la cupola al di sopra del transetto e togliendo le aggiunte e i rifacimenti eseguiti nel corso dei secoli, vennero alla luce tutti gli elementi originari costituiti da un alto tamburo poggiante su quattro pennacchi e la loggetta circolare con una serie di archetti posti sotto la cupola. Con i lavori svolti affiorarono degli affreschi databili alla fine del XIII secolo, ben conservati e ancora oggi parzialmente visibili nelle arcate.

 Molto suggestivo il severo volto di un Mandylon apparso sul quarto archivolto a sinistra.

 Nell’abside in fondo alla navata, spicca lo splendido mosaico su fondo dorato che studi recenti fanno risalire agli inizi del XII secolo, quindi contemporanei a quello presente nella navata del Santissimo. Al centro si staglia la figura del Cristo in veste purpurea e manto blu cupo che nell’atto della benedizione calpesta un aspide e un basilisco, simboli del male. Ai lati appaiono i giovani San Giusto con la tunica bianca e San Servolo in tunica azzurra e mantello purpureo. Sull’altare neoclassico si erge la statua di San Giusto che con lo sguardo al cielo stringe la croce in una mano e la pietra del martirio con l’altra. L’attuale altare con cristallo permette di vedere l’urna con le reliquie del santo. Quella originale, ritrovata dagli scavi del 1624, in lamina d’argento ornata a sbalzo, è conservata nella cappella di Sant’Antonio dietro un elaborato cancello fuso nel 1650 a Lubiana.

Nella navata centrale della Cattedrale i restauri degli anni Trenta riuscirono a far emergere solo pochi frammenti degli affreschi trecenteschi presenti anche sulle colonne. Fu deciso così di decorare l’abside con un mosaico moderno eseguito da Guido Cadorin nel 1933 che rappresenta “L’Incoronazione della Vergine” e i “Martiri tergestini”. L’attuale altare maggiore, sistemato nel 1967 secondo i dettami del Concilio Vaticano II, è in marmi policromi. Dal soffitto trilobato della navata scende un grande lampadario in bronzo dorato di manifattura boema del XIX secolo che era destinato a ornare la sala del trono del palazzo messicano dell’imperatore Massimiliano e che fu donato da Francesco Giuseppe nel 1867 dopo la fucilazione del fratello a Queretaro.

Gli scavi archeologici eseguiti nel pavimento della Cattedrale tra il 1949 e il 1952 e ancora nel 1967, hanno riportato alla luce ampi tratti dei preziosi mosaici paleocristiani che, restaurati e completati con integrazioni ben marcate, sono stati sopraelevati per renderli visibili nell’attuale pavimentazione. I “tappeti rettangolari” formati da motivi floreali e diversi disegni geometrici con tessere bianche, nere e rosate fanno risalire il mosaico al V secolo.

La chiesetta di San Michele Arcangelo

Durante i radicali lavori di restauro degli edifici sacri sul colle di San Giusto, la Sopraintendenza ai Monumenti intervenne anche sul recupero dell’edificio di fianco alla Cattedrale che comprendeva anche i terreni intorno al duomo fino all’area dell’attuale Orto Lapidario ed erano adibiti a cimitero. Nel 1825 il camposanto venne soppresso e la costruzione assunse il ruolo di cappella mortuaria fino al 1924.

Con i riadattamenti del 1929 si volle dunque recuperare la struttura originale trecentesca della chiesetta di San Michele Arcangelo liberando le pareti da tutte le sovrastrutture ottocentesche. Abbattuta la casa del custode e chiuse le porte e le finestre ogivali, si lasciò in vista la muratura originale in arenaria con l’occhio circolare sulla facciata e il piccolo campanile a cui furono aggiunte la campana in bronzo e una croce di ferro. Tutte le ossa recuperate nell’antico cimitero vennero gettate in una cripta sotterranea apparsa alla base laterale dell’edificio.

Dopo gli scavi del 1936 furono asportate tutte le ossa che ingombravano la cripta facendo emergere le tre volte a botte sorrette da due arcate su quattro colonne che appoggiavano sulla roccia viva. Su una colonna fu inserito un capitello a foglie d’acanto recuperato dai resti romani recuperati sul colle.

(SAN GIUSTO ritratto di una cattedrale, Civici Musei di Storia e arte, 2003, a cura di Marzia Vidulli Torlo)

 

Il mosaico nella navata di San Giusto

 

 

Il castello di San Giusto

Il colle di San Giusto fu per certo sede di un castelliere eretto intorno alla città in un’epoca che va dall’età del bronzo fino alle conquiste romane. In seguito la presenza di una rocca o di un castello si è avvicendata nel tempo una sulle rovine dell’altro fino alla costruzione di un imponente edificio fortificato dotato di una torre a elle  voluto nel 1470 da Federico III d’Asburgo per dominare e reprimere il popolo che aveva dimostrato di non essere troppo legato all’Impero.

Quando nel 1508 Venezia riebbe il dominio su Trieste fu aggiunto il grande Bastione Rotondo creato intorno alla torre elevata dall’Imperatore, ma già l’anno dopo il potere ritornò all’Austria.

Con il passare degli anni al castello vennero eseguite delle aggiunte di cui la più significativa si svolse tra il 1553 e il 1557 per volere del capitano imperiale Hoyos e che consisteva nell’allestimento dello sperone poligonale noto come Bastione Lalio, nome dell’architetto che diffuse la tecnica della struttura “a muso camuso”. Ma mancando un progetto unitario i lavori proseguirono lenti e saltuari fino all’anno 1630 quando sotto la direzione dell’architetto Pietro de Pomis fu eretto il Bastione Fiorito a forma  triangolare che completò l’area di tutto il complesso storico.

Un castello così fortificato avrebbe dovuto rappresentare una funzione militare e di controllo politico mentre invece fu coperto da un alone di mistero alimentato dalle dicerie del popolo che narravano di collegamenti sotterranei al centro della città e alcuni fatti, più che strutture rinvenute, potrebbero avvalorare questa ipotesi. Comunque appena venne ultimato ci si accorse che la fortezza aveva perduto ogni valore tattico: i sistemi difensivi non poggiavano più sulla roccaforte ma si articolavano su più prospettive intorno alle mura. Nei decenni successivi furono anche redatti dei progetti migliorativi ma tutti i disegni rimasero privi di seguito e infine archiviati tra Vienna e Lubiana.

Nella storia secolare del castello di San Giusto si ricordano due soli combattimenti: nel 1813 durante le barricate delle truppe napoleoniche in difesa delle artiglierie inglesi e austriache, e nel 1945 quando i soldati tedeschi sostennero l’ultima battaglia prima della resa finale.

Dopo le annose polemiche intervenute tra l’Austria e Trieste sulla sua proprietà, il governo italiano cedette il castello al Comune in cambio di altri possedimenti. Restaurato e ristrutturato fu infine aperto alla popolazione nel 1936 e utilizzato come museo o per mostre temporanee nonché per spettacoli e manifestazioni culturali.

La visita al Castello

Dopo la breve salita che costeggia il muraglione della fortezza e il passaggio del ponte levatoio, si entra in un vestibolo (risalente al 1557) che accoglie diverse lapidi databili dal Cinquecento all’Ottocento e due grandi automi risalenti al 1875 e noti come Michez e Jachez, mitici batti-ore accanto l’orologio del palazzo municipale. Nel “corpo di guardia”, originariamente utilizzato quale luogo di stanza per i cavalli, sono stati posti una colubrina, dei pezzi di artiglieria e alcune palle in pietra provenienti dal castello di Moccò, distrutto nel 1510 dopo il protervo dominio dei Veneziani. Da una parte, tramite una ripida scala in legno si accede allo spazioso e panoramico Bastione Rotondo, dall’altra all’ingresso dell’edificio a due piani, corpo dell’antico castello dell’Imperatore e ora adibito a museo. Dalle arcate del Cinquecento si apre l’ampio piazzale delle Milizie circondato dalle massicce mura di pietra dotate di una serie di feritoie e di un agevole camminamento fino al terrazzone del Bastione Lalio. Al pianterreno della cosiddetta “Casa del Capitano” sulla volta a crociera della cappella tardo-gotica dedicata a San Giorgio, (santo a cui Federico III era molto devoto) è ancora posto lo stemma dell’Imperatore con la sintesi del suo motto: “A.E.I.O.U.” (Alles Erdreich Ist Oesterreich Unterhan) polemicamente menzionato dai triestini con pronunce di fantasia delle vocali. Tutti gli arredi e le raccolte esposte appartengono alle collezione dei Civici Musei, quindi non pertinenti con il Castello; armi d’asta settecentesche accompagnano il doppio scalone progettato tra il 1935-36 dall’architetto Arduino Berlam fino alla saletta con stampe e disegni di Trieste e quindi alla sala Veneta detta anche Giuseppe Caprin (Trieste 1843-1904), dal nome dell’illustre patriota, letterato e scrittore che lasciò interamente al Comune la sua abitazione privata famosa per essere stata un salotto di italianità e cultura. Arredi, cassapanche, sculture, arazzi e quadri sono in stile veneto e databili tra il ‘500 e il ‘700. Sul soffitto campeggia l’opera più importante della collezione, una grande tela con Il trionfo di Venezia, opera di Andrea Celesti risalente a fine Seicento. Al piano superiore si entra in un lungo corridoio illuminato da cinque finestre inferriate rivolte al golfo e da una serie di lampioncini in ferro battuto che scendono dalle basse travature in legno. Lungo i muri sono appese una serie di armi bianche sia lunghe che corte (spade, baionette e pugnali), balestre, armi da fuoco (fucili e pistole) e vari accessori (fiasche da polvere e cartucciere) che tracciano l’evoluzione dell’armamento in Europa dal Medioevo all’Ottocento. Il pezzo più antico è la grande spada risalente alla fine del XII secolo esposta accanto tre piccole spade delle “baselarde” (Basilea, XV secolo) e un corno da polvere con intarsi d’avorio dove sono raffigurati Perseo e Andromeda. Tutte le collezioni provengono da donazioni o acquisti da privati. Si giunge poi all’appartamento medievale dalle volte a crociera, dotato di focolare e qualche singolo arredo quattrocentesco. Molto suggestivo il soffitto dipinto a cielo stellato e l’uscita di lato alla torre a “L” in una romantica loggia in pietra e legno affacciata sul foro romano.

Sotto il Bastione Lalio è stato riaperto il rinomato ristorante “Bottega del vino” mentre quello Fiorito attende una destinazione dopo essere stato un frequentatissimo ritrovo con pista da ballo.

Dal 4 aprile 2001 dopo una consistente ristrutturazione dei sotterranei del castello (usati come prigioni durante la prima guerra mondiale), ha trovato degna sistemazione il suggestivo Lapidario Tergestino, con reperti romani di grande importanza storico-archeologica, precedentemente esposti nei giardini del capitano e in parte giacenti nei magazzini museali.

Certo è che l’imponente fortezza manca delle storie dei personaggi che vi abitarono, di amori e delitti, dei prigionieri o magari di qualche fantasma che si aggirasse nella lugubre atmosfera degna di un vero castello. Dai tempi del suo costruttore Federico III ci è giunta solo qualche frammentaria notizia sull’occupazione di alcuni capitani imperiali austriaci e di qualche non identificato personaggio dell’aristocrazia veneta. Ma dalle mura, da ogni feritoia e angolo del castello si gode da sempre di uno spettacolare panorama che dall’alto del cuore della città spazia dal mare alle colline carsiche che circondano il nostro bellissimo golfo.

(Laura Ruaro Loseri, La Bora, Ed. Gemini, Trieste, 1977 – Enciclopedia tematica FVG, Touring Ed., Milano, 2006)

Il corpo di guardia

 

 

 

 

 

Oltre le immagini

A volte nelle immagini delle campagne pubblicitarie si può scoprire qualche piccolo, divertente segreto: l’artista stesso che indossando gli stivali in gomma di un certo marchio si è ironicamente ritratto tra gli gnometti del bosco  o l’ilare volto di un attuale alto dirigente dell’ASS.1 quando assaporava i piaceri offerti dalle montagne del Friuli-Venezia-Giulia.

Sugli immaginari murales di una serie di cover pubblicitarie per un giornale-cult furono invece ripresi i volti di attori e cantanti o addirittura di Napoleone Bonapartedurante la Campagna (pubblicitaria ovviamente) di Repubblica.E come si potrebbe dimenticare il volto del nostromo sulla scatola di un noto tonno o quella dello zio Sam tutto di rosa vestito per promozionare la Gazzetta dello sport?

E anche nelle immagini-quadro di una famosa marca d’abbigliamento   sarà il dettaglio a fare la differenza

…e pure un artista, non vi sembra?

Immagini da www.giampaolo-amstici.it