Per tradizione storica la prima chiesa di culto cristiano a Trieste sorse dalle rovine di un’antichissima casa a ridosso delle robuste mura difensive che circondavano l’agglomerato abitativo della Tergeste romana.
Nell’anno 256 d.C, in cui esistevano ancora le persecuzioni cristiane, in quella dimora abitata da Epifanìa, vedova del senatore Demetrio, avvenne la tremenda morte per decapitazione delle sue giovani figlie, la quattordicenne Eufemia e la dodicenne Tecla.
Sebbene in origine si evitasse di trasformare edifici pagani in luoghi di culto – come invece avvenne nei secoli successivi – si volle trasformare una piccola parte di quell’abitazione in cui si consumò l’orrendo omicidio, in un posto di pubblico raduno dove pregare anche in memoria delle due innocenti fanciulle.
Fu così chiuso l’atrio dell’abitazione collocato nell’ala destra e contenente la vasca per la raccolta delle acque piovane per ottenere un minuscolo vano consacrato e protetto dall’alta torre per il controllo delle porte d’ingresso alla piccola città.
Solo quando cessarono le disastrose invasioni barbariche nel corso del IV secolo fu possibile ampliare quella primitiva chiesetta dotandola di tre navate divise da una doppia serie di colonne e un porticato a fianco della vecchia torre su cui venne costruita una celletta a quattro aperture ad arco chiuse da griglie in legno per la collocazione delle campane. I vani sotterranei uniti da una serie di cunicoli furono destinati invece come luogo di sepoltura di prelati, nobili e facoltosi cittadini.
Il successivo gusto gotico dotò la facciata della piccola basilica con un rosone ad archi a tutto sesto e sulle pareti laterali vennero aperte delle finestre a trilobo.
Ma quella prima sede di culto cristiano continuò ad avere un destino travagliato. Per la sua posizione vicina al mare e un’affluenza di fedeli soprattutto marittimi, il Comune volle gestire in prima persona le funzioni religiose scegliendo i sacerdoti e stipendiandoli direttamente. Questa consuetudine continuò ancora nei secoli XVI e XVII mentre la sorveglianza e le cure liturgiche venivano impartite dalla Confraternita di San Silvestro presso una sede adiacente. Sembra però che verso la fine del Seicento questi doveri non venissero assolti con troppo scrupolo e che i fedeli fossero costretti a fornire l’olio per i lumicini e altre dotazioni d’uso.
Con decreti vescovili del 1° aprile e 30 novembre 1613 subentrò allora la Confraternita del Rosario con l’obbligo di tutta l’assistenza necessaria per le riparazioni e abbellimenti della struttura oltre all’impegno di svolgere le funzioni e i riti previsti, con l’esclusione delle celebrazioni dell’ultimo giorno dell’anno che rimasero di competenza alla Confraternita di San Silvestro.
Pochi anni dopo però iniziarono le lotte tra il Comune e il governo asburgico che nel 1619 impose l’ordine dei Gesuiti con la costruzione di un’imponente Basilica a ridosso di quella piccola e storica struttura.
Sotto il regno di Giuseppe II la vecchia Chiesa, ormai priva di mezzi e destinata all’abbattimento, venne messa a pubblico incanto e il 7 gennaio 1782 aggiudicata alla Comunità elvetica. Per rinnovare la struttura i preziosi affreschi trecenteschi, ordinati dal Vescovo Pace di Vedano durante l’ampliamento della chiesa nel 1322, furono coperti da una spessa tinteggiatura, così dopo ulteriori restauri di questa prima antichissima sede del Cristianesimo rimasero solamente alcuni frammenti dell’Annunciazione e una scena di battaglia sull’arco trionfale.
Dopo un lungo presbiterato della Soprintendenza di Vienna, nel 1926 fu stipulata una convenzione con la Chiesa valdese fintantoché le vicende che si susseguirono a Trieste nel secondo dopoguerra sciolsero anche quella piccola comunità, ultimo testimone della sua storia millenaria.
Tuttavia il sacello basilicale così tanto legato alle vicende di Trieste, conservò la denominazione di Chiesa di San Silvestro che ancora oggi svetta, piccola, umile e orgogliosamente antica sul colle del martire San Giusto.
Notizie tratte da: Trieste – Spunti dal suo passato, Silvio Rutteri, Borsatti Editore, 1950