Intermezzo: Due ragazzi, due storie

Le foto di Manuel

Il grande giorno era finalmente arrivato. Mentre Manuel regolava la direzione degli spot per dare la giusta luce ai poster, io controllavo il tavolo imbandito per il rinfresco nella Sala Esposizioni del Comune.
In attesa dell’apertura della mostra, la gente già guardava attraverso le vetrate le immagini di una Trieste fantastica, onirica, quasi stregata.
C’era molto del mio Manuel in tutto quel lavoro, ma solo io potevo saperlo. Per gli altri
sarebbe stato solo l’espressione di un talento tecnico come tanti altri, ma che importava, il mio Manuel avrebbe potuto adesso avere un futuro, una vita normale, forse perfino un lavoro.

Mi stavo staccando dai ricordi terribili della sua difficile infanzia, dalle angosce vissute per tanti, lunghissimi anni. Sentivo ormai lontano lo sfinimento di notti e notti insonni, fra i suoi pianti infiniti, le sue grida improvvise nei rari momenti di pace e quel suo stringermi così violento da togliermi il fiato. Con la punta delle dita gli accarezzavo i polsi e le sue esili braccia cercando di calmare quell’ansia che non gli dava tregua. Contavo i mille rintocchi della pendola riavviando il carillon che scandiva lento la solita nenia, trattenevo il respiro per rallentare i battiti del mio cuore lacerato, osservando poi sfinita il dolce viso del mio Manuel finalmente immerso nel sonno.

Dopo due anni di quella difficile vita mio marito si esasperò e m’impose di somministrargli i sedativi che gli erano stati prescritti dai medici.
Si calmò il mio povero bambino, dormiva e mangiava, ma il suo sguardo era spento.
Provai a diminuire le dosi e ad organizzarmi per gestire al meglio i tempi del mio riposo per riuscire ad affrontare i problemi con lucidità, ma a volte ero costretta a ricorrere anch’io a qualche pillola per dormire, alternando così un’apatica stanchezza ai tanti momenti d’angoscia.

Quando Manuel compì tre anni mio marito se ne andò, ed io non feci nulla per trattenerlo. Non era stato capace di sostenere quella situazione e io lo capivo: le responsabilità del lavoro, i problemi del figlio. la moglie stressata… Non potevo stimarlo come padre né amarlo come uomo, ma lo capivo. Superai presto quel momento di disperato smarrimento pensando che avrei gestito meglio le nostre vite senza la sua insofferente quanto inutile presenza.
Manuel accettò quello stacco e sembrò anzi felice di avermi tutta per sé. Ci stringevamo nel lettone facendoci reciprocamente coraggio in quel mare di solitudine dove stavamo affogando, ma nonostante tutto, giorno dopo giorno eravamo di nuovo pronti a lottare.
Gli psichiatri continuavano a proporre farmaci su farmaci, convinti di poter dominare il suo cervello mentre gli psicologi cercavano di carpirgli qualche pensiero segreto, qualche verità nascosta, ma Manuel sembrava aver preso gusto a fare il matto con tutti loro senza concedere nulla della sua anima.

Cresceva forte e sano il mio Manuel, ma isolato da tutti gli altri bambini.
Gli anni di scuola furono pesantissimi. Le maestre, convinte di eseguire pedissequamente il loro lavoro, mi parlavano di Manuel come fosse un estraneo anziché mio figlio. Non contavo più la quantità di bocconi amari che dovevo inghiottire quando ero costretta ad ascoltarle, chiedendomi cosa potessi fare per porre fine a quello strazio.

Finalmente un giorno arrivò Marianna, l’insegnante d’appoggio, una ragazza giovane, solare, di grande sensibilità e intelligenza che non solo ottenne in poco tempo risultati insperati ma rimase fissa per tutti i restanti anni delle elementari.
Grazie al suo aiuto alla fine della terza classe Manuel iniziò a leggere e scrivere speditamente. Attraverso di lei imparai anch’io i sistemi di comunicazione con il suo cervello e e mi affiancai a loro per tutta la durata delle elementari, giungendo così tutti al meritato diploma.

Alle scuole medie Manuel era abbastanza allineato con gli altri ragazzi, anche se continuava ad avere sempre bisogno di stimoli per raggiungere risultati appena sufficienti.
Diventò un bellissimo ragazzo, il mio Manuel. Avrebbe fatto volentieri dello sport con il suo fisico forte e pieno di energie, ma purtroppo era impossibile la convivenza con gli altri ragazzi che, avvertendolo diverso, lo schernivano e lo provocavano.
Comunque, grazie alle disponibilità economiche di suo padre, Manuel aveva potuto dedicarsi agli sport individuali e divenne abilissimo nel nuoto e nello sci, ma senza partecipare mai, per nostro comune accordo, a nessuna competizione collettiva.

La vera svolta nelle nostre vite avvenne senza che me ne rendessi conto.
Ottenuto con passabile profitto il diploma di scuola media, Manuel ricevette in regalo dal padre una macchina fotografica digitale completa di scanner, stampante e programmi di photo-shop. L’iniziale modesta qualità delle foto sul computer non lo scoraggiò affatto, anzi, iniziò a cercare prospettive diverse, luci particolari elaborando le immagini del reale secondo una sua singolare visione. Togliendo o aggiungendo particolari diversi, trasformava le fotografie come fossero delle storie.
Non riuscivo a capire come avesse potuto imparare da solo quelle tecniche così elaborate e per me complicatissime, ma per la prima volta lo vedevo impegnato in un’attività che sembrava renderlo felice.

Organizzammo così delle gite nei dintorni di Trieste. Nulla poteva fermarci, né le calure d’agosto, né le piogge autunnali o le folate di bora.
Partivamo di buon’ora, provvisti di panini e frutta di stagione. Ci siamo rincorsi per i sentieri del carso scivolando sui ghiaioni di Val Rosandra, abbiamo marciato sulla neve fresca e sul ghiaccio arrancando sulle ferrate del Lanaro, siamo stati spintonati da una capretta dispettosa e minacciati da feroci cani da guardia. Abbiamo sradicato un abete per farci l’albero di Natale e interi cespugli di timo per profumare la casa.

Ci siamo tuffati nel mare fresco della mattina, rosolati al sole fra le rocce, ubriacati d’aria sulla prua del Delfino Verde; abbiamo visto sorgere il sole dal monte Carso e assistito a stupendi tramonti dalle falesie di Duino.

Manuel inquadrava e scattava e poi per interi giorni si chiudeva nella sua stanza scomponendo e ricomponendo le foto in nuove immagini irreali, fantastiche, a volte crude e violente, a volte piene di poesia.
Su una spiaggia sotto il sentiero Rilke si scorgevano delle vecchie barche abbandonate con brandelli di vesti e sulle rocce a strapiombo dei scheletrici corpi umani tentavano l’impossibile scalata verso quel mondo che credevano migliore.
Nell’immagine di un prato era stata sovrapposta una discarica a cielo aperto contornata da cespugli le cui foglie erano gocce rosse di sangue. Il canalone di Val Rosandra era stato riempito da un vortice di foglie che avanzava verso l’obiettivo dando l’impressione di investirti. Un prato primaverile appariva coperto da un’infinità di bottiglie e i bianchi masegni di piazza Unità da una miriade di grandi macchie nere dei gewing-gum sputati.
Alcune immagini elaborate dal mio Manuel mi commossero alle lacrime: sulle onde schiumose nel golfo di Trieste centinaia di persone venivano spinte da tremende folate di bora verso quelle terre d’Istria abbandonate, più di sessant’anni fa, in senso opposto.
Altre invece mi sorpresero: da oscure nubi s’intravedeva un’enorme piovra con i lunghi tentacoli protesi sul nostro vecchio porto.

Dopo tutto quell’immane lavoro scegliemmo le foto più belle affidando a una ditta specializzata le loro stampe ingrandite. Il risultato fu talmente fantastico che decidemmo di farci coraggio ed esporlo al pubblico. La segreteria del Comune accettò subito con entusiasmo e ci mise a disposizione la sala di piazza Unità annunciando la mostra con un bell’articolo sul Piccolo di Trieste.

In tutti gli anni della sua vita, il mio Manuel aveva dunque compreso tutta la realtà che lo circondava rappresentandola con quella sua particolare capacità di comporre e scomporre le immagini. Quanto era stata per lui difficile la comunicazione cosiddetta “normale” tanto invece era stata semplice una diversa, espressa con la sua grande sensibilità.

Quando all’ora stabilita aprimmo le porte, la folla in attesa si riversò nella sala Esposizioni manifestando un autentico entusiasmo. Il mio Manuel era molto, molto emozionato, ma riusciva a sorridere senza più sentire l’ostile incomprensione del prossimo.
Aveva ormai diciott’anni e la sua vita adesso gli apparteneva. Il nostro difficile passato era alle nostre spalle ed io mi sentivo sfinita.
Quando avvertii che la commozione stava per travolgermi serrandomi la gola come una morsa, fui costretta ad uscire e a respirare a pieni polmoni. Una luce mi investì il volto. Guardai l’orizzonte e attraverso la visione offuscata delle mie lacrime vidi l’ultimo raggio verde del sole al tramonto. 

Gabriella Amstici (racconto non autobiografico ispirato a una storia vera)

Foto di Mario Amstici

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