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Concerto al Castello

Vestito di tutto punto e al meglio della sua eleganza, Rainer prese il quaderno con i recenti versi pensando di leggerli dopo il concerto, seppur proponendoli come bozza. Ne era sufficientemente soddisfatto e ritenne che potessero essere una presentazione di sé in deferenza all’ospitalità che gli era stata offerta.
All’ingresso del Salone trovò Marie, che allegra ed elegantissima, lo prese per mano e lo condusse verso i salotti laterali.
– Venga Rainer, Le presento mio marito, il principe Taxis, mio figlio Alexander, sua moglie Marie e…. – guardandosi attorno però, inaspettatamente scomparve.
– Ohh signor Ilke, che piacere! Mia moglie mi ha parlato molto di Voi. Ho saputo che amate la caccia! – disse il principe stringendogli vigorosamente la mano. – Siete arrivato proprio al momento giusto! Mi ero proprio stancato di prendere solo dei fagiani, sono così insulsi… Ora sui monti dell’Ermada stanno pascolando dei piccoli caprioli: loro sì che hanno una carne tenera e saporita! Questo è mio figlio Alexander, bel ragazzo vero? Un vero principe! E questa è mia nuora Marie… Non è deliziosa?
– Onorato… – disse Rilke spaesato, chinando la testa.
– Piacere mio, caro dottor Rilke – rispose il giovane Alexander. – Non sapevo Vi piacesse la caccia. Di solito i letterati la detestano quanto chi ama la musica, vero cara?
– I miei figli non potrebbero neppure pensare di…
– Vogliate scusarmi. – proferì il principe Taxis – Continueremo dopo. Lietissimo signor Ilke… – e si diresse verso una coppia che stava entrando, già accolta dalle attenzioni di Marie.
– Dunque, dottor Rilke… – continuò Alexander – Voi parlate perfettamente il francese, giusto? Mi chiedevo se Vi occupate anche di traduzioni… Conoscete Mallarmé? Lo conoscerete senz’altro, che domanda! Sapete, il mio francese è piuttosto buono e a leggerlo solitamente lo comprendo, ma Mallarmé è davvero ostico, non Vi pare? Pensando di tradurre una parola non si comprende bene il verso, e anche quando ci si riesce, sfugge il senso.
– Straordinario l’incontro della poesia con lo studio del verso! – rispose Rainer prontamente.
– Il fatto è che quando si termina il poema non si è capito quasi nulla.
– Potrebbe darsi fosse necessaria una rilettura.
– O potrebbe darsi non ci fosse molto da capire, perché vedete, carissimo Rilke, una composizione può essere musicale… Per scrivere ci sono gli scrittori, per meditare ci sono i filosofi…
– Il poema racchiude tutto ciò, Sua Altezza, in una sintesi che estrinseca la materia con il sovrasensibile, il reale con la “res sensibilis”, che congiunge la nostra anima con quella di tutte le cose intorno a noi.
– Interessante quanto mi dite. Insomma questo Mallarmé ha scritto una lirica, L’après-midi d’un faune, che io ammetto di non avere forse capito, ma quando Claude Debussy la musicò, ecco, la suggestione sonora prese la forma di quel bosco popolato da gnomi, folletti e incantevoli fate che danzavano accompagnate da soavi flauti…
– Voi pensate dunque che la visione sia stata di Debussy anziché di Mallarmè che gliel’ha ispirata? Non potrebbe invece essere un’immagine Vostra?
– Oh magnifico! Effettivamente sono delle forme d’arte e questo modo d’interpretarle è davvero geniale! È un nuovo linguaggio, un felice incontro poetico!
Io amo moltissimo la musica, ma trovo così difficili gli spartiti musicali e così dure le corde del violino… Mi esercito da anni, ma non sono mai riuscito a dominare del tutto quello strumento, vero cara? – e osservò la moglie che lo guardava adorante.
– La mia paziente consorte non solo sopporta le mie esercitazioni, ma mi incoraggia pure! Allora pensate di tradurre questo astruso Mallarmè?
– Per la verità sono già occupato nelle astrusità mie per riuscire a occuparmi di quelle degli altri! Ma Vi prometto che se trovo qualche buona traduzione già stampata, Ve la spedirò senz’altro.
Degli applausi interruppero la conversazione. I musicisti stavano entrando nel salone e occupati i loro posti, iniziarono ad accordare gli strumenti.
– Avete ricevuto il programma, dottor Rilke? – chiese Alexander. – Purtroppo il nostro quartetto manca del signor Janesich, momentaneamente indisposto, così si è pensato di eseguire un trio, il Klaviertrios di Schubert. Peccato però, avrei desiderato ascoltare il Quartetto in la minore di Beethoven, proprio l’ultimo. Difficilissimo pezzo musicale, già di rottura con gli schemi classici, quasi antesignano della musica di fine secolo, grandiosamente creata dai Russi e…
– Alexander, per favore! – sussurrò la moglie strattonandogli delicatamente il braccio.
– Certo cara. Lietissimo di averVi conosciuto dottor Rilke! Avremo molto da discutere fra poesia, musica, arte…
– Con vero piacere, Sua Altezza.
Cercando inutilmente un posto defilato e vicino alla porta d’ingresso, Rainer fu alfine costretto a sedersi nella prima fila, accanto alla principessa e a suo marito, già in assetto composto, immobile e come assente. Sbirciando il programma che Marie gli passò con un gran sorriso e vedendo che erano previsti solamente due pezzi, pensò che per fortuna i concerti privati erano piuttosto brevi, considerato che venivano seguiti dai ricevimenti.
Ma fin dalle prime battute del concerto, fu investito dalla esplosione di una musica così sonora da risultare quasi assordante per il suo udito ipersensibile e gli accordi polifonici erano talmente vigorosi da farlo ricredere sulla fama romantica di Schubert.
Osservò il leggero movimento dei tendaggi e pensò che le folate di bora dovevano aver provocato un certo eccitamento all’estro interpretativo. Oppure il frastuono era causato dalla particolare risonanza del salone, non troppo adatto per una musica che di solito si ascoltava nei teatri, mentre nelle sale private venivano giustamente eseguite musiche da Camera.
La risonanza del violoncello era talmente penetrante da sentirla rimbombare nei timpani e propagarsi nei polmoni, che nella ricerca di ossigeno, costringevano il povero muscolo cardiaco a un surplus contrattile. Il suo volto sembrò rinsecchirsi dal calore che si concentrava nelle meningi degli emisferi cerebrali, ormai del tutto starati.
Come la cavernosa voce del violoncello si fermava, partiva quella acuta del violino, per poi sovrapporsi entrambe ma seguendo ognuna il suo motivo, per di più inframmezzato dalle note del pianoforte che seguiva ora l’uno ora l’altro, oppure, peggio ancora, li sovrastava entrambi con un eccesso di toni forti. Ormai avvolto dal panico, avvertì che il suo sommovimento sensoriale stava debordando dall’arduo controllo psicofisico fino a degenerare in uno stato extracorporeo.
Dopo un indefinito tempo di tale supplizio, un pietoso tappo occluse le sue personali quanto silenti trombe d’Eustachio, ma la sensazione che ne derivò si rivelò peggiore del male che l’aveva causata. Quell’improvvisa afasia uditiva aumentò la pressione endocranica a un livello ormai prossimo allo scoppio.
Il risultato fu un senso d’irrealtà talmente terrificante che gli sembrò di essere stato colpito da una paralisi fulminea. In un abisso di terrore vedeva i musicisti agitare su e giù gli archi dei loro strumenti e il pianista picchiare furioso i tasti del piano da destra a sinistra, nella mostruosa eco di suoni deformi. Alle sue spalle percepiva la folla umana che ascoltava estasiata quell’orrore sonoro mentre lui ne era compresso come fosse in mezzo alla forza centripeta di una voragine.
Incollato alla sedia, si sforzò di aumentare la profondità del respiro, ma il diaframma bloccato dall’angoscia, lo costrinse a respirare con la bocca aperta, sperando che si paralizzasse anche il labbro superiore per evitare almeno il suo imbarazzante tic nervoso.
Dopo un indicibile tempo di tale sofferenza, i boati cessarono e il suono degli applausi lo riportò a una percezione acustica più normale.
– Che splendido brano musicale! – sentì dire distintamente. Girando con fatica il collo irrigidito, incontrò lo sguardo radioso di Marie che applaudiva con entusiasmo.
“E che fortuna non fosse stato di un quartetto… Essendo un trio, era mancato il quarto elemento per la dipartita finale” pensò ancora stravolto.
– Siete accaldato, Rainer! So che non è abituato al particolare sonoro di una sala! Ma hanno suonato divinamente, vero? Che affiatamento!!
Rilke abbozzò un sorriso e si sforzò di applaudire, incapace di proferire parola.
Le congratulazioni ai musicisti e i commenti fra gli invitati gli diedero comunque una certa tregua. Ancora immobile, cercava di riprendere l’assetto mentale, o più precisamente, di sbloccare il plesso solare collegandolo al centro cerebrale. I rumori della sala sarebbero stati accettabili se l’insieme vociferante non fosse stato quasi più fastidioso di quel persistente tappo acustico, ma ciò che ora lo preoccupava era il potersi ritrovare vis-à-vis con il principe Taxis e i suoi poveri caprioli… Ma che diamine, sarebbe bastato spiegare il malinteso, non doveva mica scusarsi. Piuttosto sarebbe stato più impegnativo l’incontro con il principe Alexander, così edotto in cultura musicale.
Comunque nessuno sembrava curarsi di lui e alzandosi lentamente, constatò di aver superato il malessere causato da quei fragori, pur necessitando di aria fresca.
Osservò le tende e si accorse che avevano ripreso il loro consueto aplomb, dunque presunse che la bora si fosse calmata, ma non poteva certo sparire dietro a esse per uscirsene come un ladro. Doveva piuttosto trovare un pretesto per defilarsi con una certa eleganza.
Vedendo gli ospiti impegnati a parlare fra loro e Annette che andava e veniva con i vassoi dello champagne, decise di affiancarla e seguirla; così semplicemente uscì, senza essere richiamato.
Percorso il corridoio, scese al primo piano e dopo aver attraversato il salotto rosso, aprì la porta finestra della terrazza.
Il tumulto ventoso della mattina era del tutto svanito, salvo qualche breve folata che si disperdeva verso un cielo limpido e stellato. Nel golfo ancora agitato, le onde si frangevano sulla scogliera, rincorrendosi verso i profili delle coste.
Si trovava davvero in una strana parte di mondo, in altre terre di Leidland con le loro antiche leggende, la memoria di anime tormentate che qui avevano vissuto, amato, sofferto. I suoi lidi emanavano odori di bosco ma le loro brume potevano essere foriere di raffiche furiose; i flutti del mare spargevano profumi di salsedine ma poi montavano in schiume rabbiose.
Qui si percepiva il respiro della terra, sia che fosse flagellata dai venti o accarezzata dalle brezze.
Levò lo sguardo verso le mura di quel castello così pulsante di vita, avvolto dal suono dei violini e dal coro degli uccelli.
Ripensò alla piccola fortezza di Muzot, alle sue valli smosse dalle leggere arie di collina, ai suoi silenzi sotto cieli infiniti, alle sue storie di vita e di morte.
“ Le sofferenze mi seguiranno ovunque io andrò. In tutte le terre di Leidland ritroverò i miei tormenti…” pensò con infinita malinconia.
Ridestandosi dal suo stupore, ormai pervaso da una grande pace, s’incamminò verso le finestre illuminate.

(Da “Le Terre di Leidland” inedito di Gabriella Amstici)

“BEETHOVEN”: un quadro copiatissimo

Questo famoso quadro intitolato “Beethoven” troneggia da più di un secolo in una Sala del Museo Revoltella di Trieste.
L’immagine dello scenografico dipinto (ben 4,20 metri per un’altezza di 2,02) non solo cattura gli sguardi per la sua suggestiva atmosfera ma racconta anche una tormentata quanto romantica storia iniziata alla fine dell’Ottocento in una vecchia soffitta di Montmartre. L’artistica mano che ha immortalato l’imponente tela appartiene all’artista toscano Lionello Balestrieri, nato in un’umile famiglia della dolce Valle dell’Oro a Cetona (Siena) nel lontano 1872. Dopo aver frequentato l’Accademia di Napoli gestita dal pittore Domenico Morelli ed essersi consacrato alle arti figurative, con l’entusiasmo della sua giovane età si trasferì a Parigi aspirando a raggiungere la fama o quantomeno a sbarcare il lunario. Come molti altri ragazzi di belle speranze ma di alterne fortune che pullulavano nei quartieri di Montmartre e Pigalle, Lionello visse e lavorò tra delusioni e difficoltà economiche dividendo i sogni e i miseri pasti con degli amici impegnati in varie specialità artistiche. Tra loro si unì il violinista Giuseppe Vannicola (Montegiorgio 1876 – Capri 1915), scapestrato rampollo di una benestante famiglia ascolana, dotato di notevole talento ma affetto da smodate manie esecutive. Costui era stato suggestionato dal singolare caso scaturito dall’estro del violinista inglese G. A. Bridgetower (1779-1860) che osò interpretare una sonata di Beethoven con un tale virtuosismo da indurre il maestro a inserire le sue variazioni nello spartito dell’opera. Con l’abile uso del violino il Bridgetower vi impresse infatti degli scatti rudi e selvaggi animati da un possente quanto spettacolare virtuosismo da trasformare di fatto l’originale testo beethoveniano (1). Così il creativo Vannicola amava eseguire arie famose apportandovi inedite performances secondo l’estro del momento. Le bizzarre esecuzioni che sottoponeva all’ascolto degli amici di sventura, sfinivano però l’esigua quanto annoiata platea suscitando i loro vivaci rimbrotti, scaturiti anche da abbondanti libagioni di laudano e del terribile assenzio.
“La musica è il grido terribile e supplicante che si leva dai luoghi profondi dell’abisso. La scala è il simbolo della sua ascensione, una scala infinibile che non ha inizio né fine” scrisse l’eccentrico violinista in una delle sue enfatiche pubblicazioni dove alternava l’esaltazione della musica tra l’amor sacro e l’amor profano. Dopo un’improvvisa quanto breve crisi mistica vissuta nell’Abbazia di Montecassino, il poliedrico artista s’innamorò perdutamente della ricca e aristocratica russa Olga de Lichnizki, iniziando un periodo di furore bibliofilo che non lo portò a una particolare fama ma che lenì la disperazione per essere stato costretto ad abbandonare il suo amato strumento per le conseguenze di una tremenda e progressiva artrite deformante.
“Spesso deliziava le pause delle nostre notti consacrate allo spiritismo con delle inebrianti cavate del suo magistrale violino”  lo ricordò il futurista Marinetti all’epoca in cui fiorivano le Riviste artistiche e letterarie.
Ma né la musica né la scrittura riuscirono a placare i tormenti esistenziali del Vannicola, esasperati dalla malattia e dallo smodato uso di sostanze alcoliche che lo condussero alla miseria e poi a un’improvvisa, tragica morte avvenuta in una spiaggia di Capri il 10 agosto 1915.

Durante gli anni di stenti vissuti nelle soffitte di Montmartre, il Balestrieri ideò di dipingere un grande quadro che rappresentasse quelle serate animate dall’amico Vannicola al cospetto dei suoi compagni di sventura. Dopo un estenuante lavoro il risultato finale fu talmente soddisfacente da destare immediatamente l’interesse dei mercanti d’arte e soprattutto di un astuto editore tedesco che con grande tempismo acquistò i diritti di riproduzione dell’opera. Il giovane e ingenuo Balestrieri, pagato con una cifra piuttosto modesta, non comprese subito il danno che gli sarebbe derivato né tantomeno immaginò di vincere il primo premio della prestigiosa Esposizione Internazionale al Salon di Parigi nell’anno 1900. Nonostante il “Beethoven” fosse stato stroncato da alcune poco benevole critiche della “Gazzette des Beaux Arts” e di qualche collega invidioso, l’opera pittorica fu molto apprezzata per la sua magica scena musicale che infatti fu copiatissima.
Stupito dall’inaspettata fortuna il Balestrieri osò sperare che il quadro fosse acquistato dal Governo Italiano quantomeno nell’esposizione alla IV Biennale di Venezia dell’anno successivo. Fatto che non avvenne ma che permise l’acquisto da parte dell’importante Galleria d’Arte del Museo Revoltella di Trieste dove ancora oggi si trova e suscitando dopo più di un secolo le stesse emozioni di allora.
Dopo il clamoroso successo conquistato a Parigi, il Balestrieri ritornò in Italia dove continuò a lavorare indefessamente su bozzetti, studi, disegni per collezionisti e scenografi ottenendo anche la presidenza della Società degli Artisti Italiani. Oltre ai quadri che espose in tutta Europa e perfino a Buenos Aires, in riscatto di tutte le scadenti copie del suo “Beethoven” si dedicò anche allo studio dell’incisione (metodo che permetteva appunto una facile riproduzione) e abbinando pennelli e bulino acquisì la capacità di eseguire lavori in punta secca, acquaforte e acquatinta. Così, dopo una lunga quanto infruttuosa corrispondenza con il curatorio del Museo Revoltella per impedire ulteriori copie del suo famosissimo quadro, Lionello Balestrieri divenne paradossalmente il riproduttore di sé stesso, riducendo i tempi d’esecuzione e aumentando i suoi guadagni.
Nel 1958 concluse la sua una lunga vita di lavoro e di soddisfazioni nella nativa Valle dell’Oro a Cetona.

Nel quadro “Beethoven” sopra riportato si riconosce in primo piano lo stesso Lionello Balestrieri corrucciato e indifferente all’abbraccio della ragazza con lo sguardo perduto. Sul lato destro è raffigurato il violinista Giuseppe Vannicola accompagnato al piano da un uomo di spalle che sta suonando per l’uditorio di amici. Sullo sfondo si nota una copia in gesso della maschera mortuaria di Beethoven.

(1) La Sonata per pianoforte e violino op. 47 di Ludwig van Beethoven, forse per una ripicca verso il musicista inglese che sfidò il suo genio, fu poi curiosamente intitolata “Sonata Kreutzer” dal nome del violinista francese che riportò le variazioi interpretative del Bridgeower nella pubblicazione dello spartito (1805).

Fonti:

Lionello Balestrieri, Edizioni Pananti, Firenze, 2000

Grande storia della musica, Fabbri Editori, Milano 1978

Giuseppe Vannicola, Il veleno, Sellerio Ed.,Palermo, 1981

PARIGI – gennaio 1910” (Da Le terre di Leidland, Gabriella Amstici, Trieste, 2010)

“Consumato un frugale pasto al bistrot Nicot di via Raspail, Rainer decise di raggiungere a piedi la stazione di Varenne in direzione Pigalle. Trovandosi in mezzo al caotico via-vai cittadino e intirizzito dalle umide e fredde correnti del Nord, quasi si pentì d’essersi allontanato dalla pace del suo studio, ma ormai la passeggiata era stata decisa e conveniva quindi predisporsi a un pomeriggio piacevole.
Dopo il percorso sull’affollato metrò, scese alla stazione d’Anvers per risalire verso piazza Saint-Pierre. Alzando lo sguardo vide la collina sotto Montmartre, già prossima alle fioriture primaverili che si annunciavano con minuscole gemme sugli alberi e sottili fili d’erba fra la terra ancora arida.
Gruppi di giovani e di turisti si avviavano con passi spediti verso la cattedrale del Sacro Cuore, che si stagliava imponente e bianca nell’indaco del cielo.
Fermatosi per riprendere fiato dopo le prime salite, Rilke si appoggiò su uno dei terrazzi: Parigi si stendeva come uno smisurato, immobile plastico sotto un velo di nebbia acceso dalle luci giallastre della città e dai riverberi grigioverdi dei tetti. La sua mente era ora libera da ogni affanno mentre sentiva di dover salire fin lassù per uno strano richiamo interiore. Poi sarebbe stato forse colto dall’immensità del Nulla, come spesso gli accadeva quando si trovava appena più in alto della consueta dimensione rasoterra, tuttavia voleva procedere. “Weiter oben!” dunque. Aveva trascorso mezza vita nell’andare sempre avanti, pur senza aver avuto mai un vero punto di partenza e meno che mai di arrivo.
Riprendendo a risalire le scalinate a forma di due ottagoni, proprio sotto il Belvedere di rue Lamark, avvertì degli intensi odori di legni bruciati mischiati a quello dell’affumicatura di carni grasse.
Superate le ultime terrazze, l’altera cattedrale era ormai davanti a lui. Stregato da quell’atmosfera, seguì la scia di gente che si avviava verso il cuore di Montmartre con vo-ci e risate sguaiate, del resto intonate alle loro appariscenti sciatterie. Giovani fanciulle dai volti involgariti da trucchi marcati e approssimativi, si guardavano intorno con maliziosi sorrisi rivolti ai numerosi uomini che si aggiravano solitari, e strusciando fra le loro sudicie gonne, scostavano e riavvolgevano i pesanti scialli di lane stinte, lasciando intravedere le generose scollature.
Rilke, osservando la folla che voleva distogliere l’attenzione verso quelle miserie la cui povertà veniva invece quasi esibita, si diresse verso la piazzetta du Tertre, dove fu investito da un mare di colori che si sprigionava dalle tele appoggiate su traballanti treppiedi o sugli schienali di vecchie sedie.
Alcuni artisti disegnavano con una certa abilità i volti di compiacenti ragazze che cercavano più che altro di attirare i clienti, altri richiamavano l’attenzione sui quadri in vendita.
Già pensando di allontanarsi da quella disordinata confusione, Rainer fu attratto da un dipinto di notevoli dimensioni montato su un cavalletto di buona fattura. La luce del cielo si rifrangeva sulla tela ad olio che già emanava una propria luminosità da un’invisibile lampada, e sembrava dar vita alle diverse anime dei personaggi raffigurati. Osservando la scena nel suo insieme, si aveva la sensazione che in quella stanza fosse accaduto un avvenimento tragico o che fosse atteso il suo epilogo.
In primo piano un bellissimo giovane, dai lineamenti affilati e uno sguardo severo, quasi indurito, era seduto su un grande sofà, del tutto indifferente alla tristezza di una ragazza bionda che gli si stringeva al braccio. Un uomo a loro vicino, appoggiava la testa fra le mani in un gesto di apparente disperazione o forse di concentrato ascolto della musica che lì si stava suonando a mezzo della mano protesa sui tasti di un piano e di un violino impugnato da una figura maschile. Sulla parete in penombra, fra lo spartito musicale e la sagoma di un altro personaggio seduto su uno sgabello, si notava il calco mortuario del volto di Beethoven.
Con un improvviso balzo, una donna con le mani sui fianchi, si portò davanti al quadro.
– È un Balestrieri, monsieur! – annunciò ad alta voce. Rilke, sorpreso da quell’inaspettata presenza, sobbalzò appena. – Il più bel quadro del secolo! – Rainer si soffermò su quel viso che rivelava una giovinezza precocemente sfiorita. Alcuni ciuffi della massa di capelli scoloriti, ricadevano in disordine sui grandi occhi chiari, deturpati dal trucco sfatto.
– Vi interessa acquistarlo, monsieur? – chiese la giovane, dischiudendo in un sorriso le labbra imbellettate.
– Che peccato signorina, che peccato io non abbia una casa degna di accoglierlo… Non abito neppure a Parigi del resto, ma il quadro è davvero bello…
– E’ una copia, monsieur! – Un uomo alto e grosso si affiancò alla ragazza, che si spostò appena con un moto di fastidio. – E non è certo sua! – aggiunse osservandola dall’alto. – Vattene Claudine!! Mi fai scappare tutti i clienti! — La ragazza alzò gli occchi verso l’uomo e aprì la bocca come per voler dire qualcosa, ma poi voltò le spalle e scomparve tra la folla.
– Beh, per la verità stavo osservando questo quadro, non necessariamente con intendi-menti d’acquisto, ma con queste maniere qui i clienti scapperanno davvero! – interloquì Rilke osservando l’uomo.
– Oh mi perdoni, monsieur! Ma ogni volta che mi allontano di pochi metri, quella donnina si fionda davanti a questo quadro come fosse suo per il solo fatto di essere stata ritratta. E’ insopportabile, ha come un’ossessione, me la ritrovo sempre intorno… Vi dicevo, monsieur, che questa è certamente una copia, ma come potete vedere da Voi, è di ottimo livello! – e spostandosi di poco, indicò con la mano la scena che Rilke aveva osservato.
– Il quadro originale è stato eseguito ormai dieci anni fa dal grande Lionello Balestrieri, vincitore di un primo premio al Salon di Parigi. Se non s’arricchì con questo quadro! Cinquemila franchi, monsieur, cinquemila! E poi la fama, gli articoli sui giornali… Il nostro caro Lionello ebbe ben motivo di montarsi la testa e così puff… Da un giorno all’altro praticamente scomparve, portandosi via tele e colori, fregandosene di tutti i suoi amici con cui aveva diviso il pane e i sogni di gloria… Adesso fa l’artista ricco a Montparnasse, ri-producendo il suo fortunato quadro in decine di copie che continua a farsi pagare profu-matamente. Per la verità, monsieur, questo è la copia di una copia, ma costa la metà della metà, pur essendo fatto da un artista bravo quanto lui! – L’uomo si spostò e con un breve inchino allargò le braccia verso il quadro – E quest’artista è qui in carne ed ossa davanti a Voi. Ramòn Balancieur, per servirVi. Balancieur è un nome d’arte sa, un po’a te e un po’ a me… – e voltandosi levò le braccia sopra le spalle e le agitò ripetutamente nell’aria per sollecitare un applauso da parte della folla. Ci fu invece un gran silenzio e Rilke s’accorse che dei volti si erano girati verso di lui aspettando le sue mosse. Lisciandosi il baffo con lieve imbarazzo, contrariato da tutti quegli sguardi che lo serravano a cerchio davanti a quel quadro inquietante, decise di svignarsela da quella massa di mentecatti dove regnava non il nobile spirito di geniali artisti, sia pur squattrinati, ma le ripicche e le gelosie verso chi potesse guadagnare qualche franco in più degli altri.
– Convengo le capacità dei Vostri prolifici estri artistici, ma per oggi non avevo previsto nessun acquisto. Caso mai, in futuro… –
– Balancieur, monsieur, non dimenticate questo nome. Vi farei un buon prezzo per questo capolavoro qui e per ogni altra riproduzione che soddisfi il Vostro raffinato gusto! Sempre qui per servirVi, monsieur! – e si girò per cercare l’approvazione dei colleghi, che invece avevano già distolto la loro attenzione.
– Buona fortuna a tutti! – esclamò Rilke alzando brevemente la mano in segno di saluto collettivo, e dando un’ ultima occhiata al quadro, si allontanò di qualche passo.
– È un falso! È un falso! – senti dire da una voce forte e rauca. Girandosi di scatto si ritrovò vis-à-vis con un grosso pappagallo verde e giallo che ciondolava ritmicamente sulle zampe ancorate da una catenella all’asse del cavalletto. Tra un coro di risate, si fece varco in mezzo alla folla che si era formata intorno e abbassando la falda del cappello, con un gesto più di stizza che di saluto, si diresse verso il lato della piazza, deciso a recarsi in un bistrot per bere qualcosa di caldo. Il cicalio delle voci sfumò nell’aria, mentre il vocione del pappagallo continuava a ripetere:
– È un falso!… È un falso!…”

Gabriella Amstici

 

 

Gossip storici a Trieste

Giacomo Casanova (Venezia 1725 – Dux 1798)

lobianco767Giunto a Trieste il 15 novembre 1772 pernottò una stanza nella Locanda Grande di Trieste. Preso subito contatto con le cortigiane e i cicisbei del bel mondo cittadino, lo sfrontato cavaliere veneziano ricevette però il rifiuto alle sue avances da una bellissima giovane di nome Zanetta. Già anziano e malato, il Casanova dovette accontentarsi di una contadinella goriziana senza però rinunciare, da buon avventuriero, a ingraziarsi le autorità locali con ogni sorta di traffici e sotterfugi. Nell’attesa della grazia da parte del Cosiglio dei Dieci di Venezia dopo la sua avventurosa fuga dai Piombi, scriveva indefessamente cercando di procurarsi del denaro con cui vivere.

Ottenuta la grazia arrivò nel novembre del 1774 riuscì a ritornare a Venezia ma dopo essere stato definitivamente esiliato nel 1783, continuò la sua odissea esistenziale fino alla morte, avvenuta nel castello di Dux in Polonia nel 1798.

(Da un articolo della rivista La Bora, Trieste, 1978 – Foto da Casanova a Trieste, Luglio Editore, Ts 2015)

 

Napoleone Bonaparte (Ajaccio 1769 – Isola di Sant’Elena 1821)

Napoleone[1]Ventottenne e già generale del Corpo d’armata fu di passaggio a Trieste il 29 e 30 aprile 1797. Dallo storico balcone di palazzo Brigido (attualmente in via Pozzo del Mare, 1) affacciato su Piazza Grande (oggi dell’Unità) assistette a un’improvvisata parata militare in suo onore con un terribile mal di denti. Già di pessimo umore si offese moltissimo quando ricevette in dono dalle autorità municipali un cavallo lipizzano poiché la larga e possente schiena della pregiata razza equina non gli avrebbe permesso una dignitosa monta a causa della sua altezza (1,55 m.) e delle sue gambe troppo corte. Durante la brevissima permanenza in città ebbe comunque modo di compiacersi osservando le fortificazioni costiere erette da Maria Teresa d’Austria.

(Tratto da: Halupca-Veronese, Trieste nascosta, Lint, Trieste,2009)

René de Chateaubriand (Saïnt-Malo 1768 – Parigi 1848)

François-René_de_Chateaubriand_by_Anne-Louis_Girodet_de_Roucy_Trioson[1]L’illustre precursore del romanticismo francese, giunse a Trieste a mezzanotte del 29 luglio 1806. Alloggiato nella centrale Locanda Grande contattò il console Louis Maurice Séguier per trovare una nave diretta a Smirne. Durante la sua breve permanenza Chateaubriand ebbe comunque modo di conoscere la borghesia triestina (fu ospite del Governatore austriaco e di Pietro Sartorio) e di visitare San Giusto omaggiando la tomba delle figlie di Luigi XV, rifugiate a Trieste nel 1799 dopo la fuga da Parigi. Il letterato visconte partì all’alba del 2 agosto: il suo viaggio sarebbe durato un anno.

(Da un articolo della rivista La Bora, 1978)

Stendhal, ovvero il grande romanziere Henry Beyle (Grenoble 1783 – Parigi 1842)

Stendhal_par_Ducis_en_1835[1] Giunse a Trieste il 25 novembre 1830 con la nomina di console di Francia. Pernottato l’albergo “Zum schwarzen Adler” di via San Spiridione 2, lo sconosciuto ospite fu però subito notato dalla polizia asburgica che con serrati pedinamenti rese alquanto sgradevole il suo soggiorno. A peggiorarlo contribuirono anche le sferzanti folate di bora, i mancanti successi amorosi con la cantante Carolna Ungher e madame Goeschen e inoltre le non apprezzate tradizioni culinarie servite a suo dire da camerieri “levantini”. Il soggiorno di Stendhal durerà comunque solo tre mesi e dopo aver ricevuto la nomina di ambasciatore partì per Civitavecchia il 24 dicembre 1830. Da qui, dopo un’altra cocente delusione, deciderà di tornarsene ai suoi quartieri parigini.

(Trieste nascosta, ibid. – Foto di un ritratto di Louis Ducis, 1835)

Eleonora Duse (Vigevano 1858 – Pittsburg 1924)

mostra_d3[1]Appena diciottenne ma già animata dal furor sacro della recitazione, Eleonora Duse venne scritturata nel 1876 come seconda attrice nella compagnia di Adolfo Drago. Tutt’altro che avvenente e troppo enfatica per il gusto del tempo, la Duse raccolse un amaro fiasco per di più rafforzato dai rimbotti del regista e dei colleghi. Nel 1884, già affermata come attrice, ritornò a Trieste con un ingaggio per tutta la stagione di prosa ma continuò a essere contestata da una parte del pubblico per la sua recitazione e le sue pose ancora eccessive. Con apprezzabile autocritica la Duse seppe tuttavia correggere le sue impostazioni troppo marcate e in seguito riuscì a trasmettere grandi emozioni attraverso i personaggi dell’Adriana Lecouvreur e de La Locandiera. Quando due anni dopo ritornò con la Compagnia della Città di Roma, esplose anche a Trieste il più sfrenato entusiasmo consacrando Eleonora Duse alla sua fama immortale.

(Da La Bora, ibid)

Giosuè Carducci (Valdicastello 1835 – Bologna 1907)

00208430[1]Il celebre poeta organizzò un furtivo viaggio a Trieste assieme alla sua musa ispiratrice Lina (Carolina Cristofori in Piva, madre di 3 figli e moglie di un funzionario statale di Rovigo). I due amanti giunsero il 7 luglio 1878 occupando in incognito una stanza dell’albergo “Buon Pastore” (attuale “Hotel Continentale” di via San Nicolò). Ma già il giorno dopo vennero scoperti da un cronista del giornale “L’Indipendente” e la notizia della loro presenza si sparse in un battibaleno. Accompagnati da Attilio Hortis e Giuseppe Caprin, la coppia visitò la città sempre applauditi da una folla festante e chiassosa che non li entusiasmò affatto. Dopo soli quattro giorni il Carducci senza dar a vedere la sua contrarietà partì fra i gioiosi arrivederci dei triestini, ma non ritornò mai più a Trieste.

Il grande poeta in occasione della sua visita a Miramare omaggerà però il fascino del suo bianco castello e la memoria del “puro, forte, bel Massimiliano” nella stupenda elegia delle Odi barbare “Miramar” (1878).

(Trieste nascosta, ibid.)

James Joyce (Dublino 1882 – Zurigo 1941)

crop-e1397934768850[1]L’eccentrico scrittore irlandese arrivò a Trieste nel 1905 facendo immediatamente notare la sua presenza alla polizia. Appena sceso dal treno con la sua fedele Nora Barnacle, nel giardino della stazione centrale s’imbatté casualmente in una zuffa tra marinai inglesi e austriaci e pensando bene di aiutare i suoi compatrioti si buttò nel mucchio. Joyce trascorrerà così la sua prima notte a Trieste in galera mentre Nora attenderà pazientemente il suo ritorno seduta in una panchina. (Da La Bora, ibid)

Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Val-mont 1926)

helmut-westhoff-portrait-of-rainer-maria-rilke-1901[1]L’inquieto e tormentato poeta boemo approdò a Trieste nel 1910 come ospite della principessa Marie Thurn und Taxis nel Castello di Duino. Per quanto la memoria storica dei suoi lunghi soggiorni triestini vanti l’ispirazione delle sue “Elegie duinesi” alle suggestive atmosfere delle bianche falesie e al fascino dell’antico castello sul mare, Rilke non lo amò mai veramente apprezzandone piuttosto la ricca biblioteca e le frequentazioni dei suoi coltissimi salotti dove poteva incontrare il fior fiore dei letterati. In una lettera del marzo 1912 a Lou Salomé, sua ex-amante e divenuta poi una sincera e affettuosa amica, Rilke si lamentava infatti della desolazione che lo opprimeva e del pessimo clima della zona, incolpandolo (ma ironicamente compiacendosene) dello stato della sua salute. “Questa costante alternanza di bora e scirocco non fa bene ai miei nervi e perdo le forze nel subire ora l’una ora l’altra” scriveva nella lettera a Lou. E ancora: “È vero, Duino non mi ha mai fatto bene, quasi ci fosse qui troppa elettricità dello stesso segno che mi sovraccarica, proprio il contrario della sensazione che sento al mare” (nota 1).

Nella sua vita errabonda Rilke, ormai gravemente ammalato, troverà la sua pace nel clima mite e secco del Vallese (Svizzera), recluso nel suo castelletto-fortezza di Muzot. Ma conclusa la sofferta stesura delle mitiche “Die Duineser Elegien” e consapevole della sua imminente morte, pieno di riconoscenza per la dolce e romantica principessa Marie che tanto generosamente lo aveva ospitato e sostenuto, le donerà la proprietà del manoscritto (attualmente conservato nell’Archivio di Stato di Trieste) con una dedica che apparirà su tutte le edizioni dell’opera.

lobianco266(1) Fonte Epistolario 1897-1926, La Tartaruga edizioni, Milano,2002