Alle 23 e 12 minuti del 2 maggio 1974 dal telefono di emergenza dei Vigili del Fuoco arrivò una concitata segnalazione dell’uscita di fumo dal magazzino di via San Maurizio n.13. Dopo pochissimi minuti i vigili sfondarono il portone d’ingresso trovandosi nel mezzo di un incendio propagato quasi tutto il locale senza accorgersi che in uno stanzino si trovava il cadavere del suo occupante.
Diffusasi in un battibaleno la notizia, sul posto si accalcarono giornalisti, fotografi e curiosi mentre in un indescrivibile caos, tra la puzza di fumo e i rivoli d’acqua, gli inquirenti avanzando con le torce tra i cimeli distrutti trovarono i resti carbonizzati dello studioso-collezionista Diego de Henriquez.
Un incidente, si pensò, presupponendo che la caduta di un fornello elettrico avesse dato fuoco alle pile di libri e giornali disseminati nello stanzino dove il professore era stato sorpreso nel sonno nel suo letto-bara accanto alla scrivania (nota 1).
Le forze dell’ordine attestando dunque la causa accidentale, non ritennero di eseguire l’autopsia e meno che mai di indagare su tutto l’ingentissimo inventario di materiali, cimeli e documentazioni raccolti da Henriquez nel corso della sua vita.
L’inchiesta giudiziaria venne così archiviata il 9 luglio impedendo ai famigliari di poter intervenire sulle reali cause dell’ “incidente”.
Dopo l’evento accaddero però dei fatti che provocarono illazioni e commenti anche da parte della stampa: si parlò di furti nel museo-deposito, della sparizione dei diari sulla Risiera avanzando dei dubbi sulla dinamica dell’incendio.
Dalle indagini condotte da qualche giornalista zelante si venne a sapere che Henriquez era entrato solo una ventina di minuti prima del violento incendio e che negli ultimi tempi era stato avvicinato da strani personaggi (forse appartenenti a un certo entourage omosessuale oppure interessati ad acquistare parti delle sue stratosferiche collezioni) procurandogli dei tali sospetti da costringerlo a girare con una pistola carica.
Alcune voci circolanti parlarono che la sua morte coincideva “stranamente” con l’imminente processo dei criminali del lager di San Sabba e che i nomi dei loro collaboratori italiani fossero trascritti proprio su quei diari scomparsi.
Sotto l’incalzare dell’opinione pubblica e della famiglia, la magistratura riaprì una seconda inchiesta affidandola al sostituto procuratore Gianfranco Fermo che, partendo da un fatto dichiarato accidentale, non fu però in grado di effettuare le azioni giudiziarie previste da un omicidio.
Inoltre, dopo lo scavo per il riesame della salma, vennero trovati dei resti così decomposti da non permettere dei referti attendibili sulle radiografie e sulla presenza di alcuni fili di rame che avrebbero avvolto il corpo di Henriquez quando venne trovato nella sua bara- dormitorio.
“Segreto istruttorio” rispose il procuratore Fermo all’incalzare dei giornalisti. Nella relazione finale del novembre 1975 però, pur ribadendo la grave mancanza dell’autopsia all’indomani del fatto, concluse di non aver trovato prove certe di un atto doloso.
Fu dunque un tragico incidente o un omicidio reso “perfetto” dalle omissioni d’indagine? Un mistero che dopo quarant’anni resiste ancora oggi.
Nota:
(1) Negli ultimi tempi Henriquez usava dormire con il volto coperto da una maschera di samurai giapponese (Guido Botteri, articolo “Luci e ombre di una vita”)
Fonte:
Tito Manlio Altomare, articolo pubblicato sulla rivista La Bora, Trieste, ottobre-novembre 1979.