Archivio mensile:settembre 2014

La misteriosa morte di Diego de Henriquez

Alle 23 e 12 minuti del 2 maggio 1974 dal telefono di emergenza dei Vigili del Fuoco arrivò una concitata segnalazione dell’uscita di fumo dal magazzino di via San Maurizio n.13. Dopo pochissimi minuti i vigili sfondarono il portone d’ingresso trovandosi nel mezzo di un incendio propagato quasi tutto il locale senza accorgersi che in uno stanzino si trovava il cadavere del suo occupante.
Diffusasi in un battibaleno la notizia, sul posto si accalcarono giornalisti, fotografi e curiosi mentre in un indescrivibile caos, tra la puzza di fumo e i rivoli d’acqua, gli inquirenti avanzando con le torce tra i cimeli distrutti trovarono i resti carbonizzati dello studioso-collezionista Diego de Henriquez.
Un incidente, si pensò, presupponendo che la caduta di un fornello elettrico avesse dato fuoco alle pile di libri e giornali disseminati nello stanzino dove il professore era stato sorpreso nel sonno nel suo letto-bara accanto alla scrivania (nota 1).
Le forze dell’ordine attestando dunque la causa accidentale, non ritennero di eseguire l’autopsia e meno che mai di indagare su tutto l’ingentissimo inventario di materiali, cimeli e documentazioni raccolti da Henriquez nel corso della sua vita.
L’inchiesta giudiziaria venne così archiviata il 9 luglio impedendo ai famigliari di poter intervenire sulle reali cause dell’ “incidente”.

Dopo l’evento accaddero però dei fatti che provocarono illazioni e commenti anche da parte della stampa: si parlò di furti nel museo-deposito, della sparizione dei diari sulla Risiera avanzando dei dubbi sulla dinamica dell’incendio.
Dalle indagini condotte da qualche giornalista zelante si venne a sapere che Henriquez era entrato solo una ventina di minuti prima del violento incendio e che negli ultimi tempi era stato avvicinato da strani personaggi (forse appartenenti a un certo entourage omosessuale oppure interessati ad acquistare parti delle sue stratosferiche collezioni) procurandogli dei tali sospetti da costringerlo a girare con una pistola carica.
Alcune voci circolanti parlarono che la sua morte coincideva “stranamente” con l’imminente processo dei criminali del lager di San Sabba e che i nomi dei loro collaboratori italiani fossero trascritti proprio su quei diari scomparsi.
Sotto l’incalzare dell’opinione pubblica e della famiglia, la magistratura riaprì una seconda inchiesta affidandola al sostituto procuratore Gianfranco Fermo che, partendo da un fatto dichiarato accidentale, non fu però in grado di effettuare le azioni giudiziarie previste da un omicidio.
Inoltre, dopo lo scavo per il riesame della salma, vennero trovati dei resti così decomposti da non permettere dei referti attendibili sulle radiografie e sulla presenza di alcuni fili di rame che avrebbero avvolto il corpo di Henriquez quando venne trovato nella sua bara- dormitorio.
“Segreto istruttorio” rispose il procuratore Fermo all’incalzare dei giornalisti. Nella relazione finale del novembre 1975 però, pur ribadendo la grave mancanza dell’autopsia all’indomani del fatto, concluse di non aver trovato prove certe di un atto doloso.
Fu dunque un tragico incidente o un omicidio reso “perfetto” dalle omissioni d’indagine? Un mistero che dopo quarant’anni resiste ancora oggi.

Nota:
(1) Negli ultimi tempi Henriquez usava dormire con il volto coperto da una maschera di samurai giapponese (Guido Botteri, articolo “Luci e ombre di una vita”)

Fonte:
Tito Manlio Altomare, articolo pubblicato sulla rivista La Bora, Trieste, ottobre-novembre 1979.

Diego de Henriquez

Diego de Henriquez nacque a Trieste nel 1909 (nota 1) in una famiglia che amava definire “di solide tradizioni militari” asserendo che i suoi avi avessero partecipato addirittura alle Crociate, alle guerre napoleoniche e risorgimentali continuando a combattere nelle due guerre mondiali.
Figlio di un agente di cambio (divenuto nella prima guerra ufficiale del Genio austriaco) e di una madre bellissima (nota 2) che sembra lo avesse allevato come una femminuccia (nota 3), il giovane Diego iniziò a dedicarsi precocemente alle più disparate invenzioni raggiungendo, senza vocazione né interesse, il diploma di capitano marittimo all’Istituto Nautico.

Nel 1926, assieme a Eugenio Zumin e Mario Franzil (nota 4) fondò la SAT, Società di Archeologia Triestina, scoprendo interessanti reperti nelle grotte di rio Ospo (che documentarono i passaggi di Veneti e Turchi nel nostro territorio) e di Luppogliano (donati in seguito al museo di Postumia) (nota 5).

Trovato un impiego presso la Società di navigazione Libera Triestina (in seguito riassorbita dall’Adriatica) a 19 anni si sposò con la figlia di un benestante proprietario terriero di San Daniele del Friuli da cui, oltre alla consistente dote, ebbe 2 figli: Maria Adele e Alfonso.

Richiamato alle armi dal Regio Esercito italiano nel marzo 1941, fu assegnato alla “Compagnia Deposito” a San Pietro del Carso, dichiarata già il mese successivo in stato di guerra.
Dopo una serie di colloqui con il superiore colonnello Ottone Franchini, ottenne l’incarico di raccogliere e selezionare il “materiale P.B.” (preda bellica) per il futuro “Museo Storico di Guerra e di Pace” di cui in seguito sarebbe divenuto Direttore.

Dimessosi nel 1948 dalla Società Adriatica di Navigazione (nota 6) e vendendo progressivamente i beni immobili quanto prosciugando tutte le risorse finanziarie della famiglia, si dedicò completamente alle sue strabilianti collezioni iniziate – con gli aiuti dello storico Pietro Sticotti e dell’archeologo Carlo de Marchesetti – ben vent’anni prima, nonché alla scrittura degli enciclopedici “diari” compilati con incredibile costanza.

Per oltre mezzo secolo Diego de Henriquez prese contatti con tutti gli eserciti del Friuli e della Venezia Giulia: iniziando da quello austriaco passò al Regio italico proseguendo con quello del Terzo Reich, poi con lo jugoslavo (durante l’occupazione di Trieste nei 40 giorni), accordandosi in seguito con gli ufficiali inglesi e americani (di stanza in città fino al 1954) e successivamente ancora con l’Esercito Italiano, divenuto questa volta repubblicano.
Per l’appassionato collezionista le diverse armi erano soltanto dei potenziali fornitori – possibilmente gratuiti – del suo museo e a testimonianza del suo chiacchierato quanto insussistente collaborazionismo, vi furono ben 18 arresti (sia pur di breve durata) da parte delle varie polizie militari per le sue presenze non autorizzate in zone proibite o per le foto scattate in zone strategiche.
Il maniacale e persino ossessivo collezionismo non solo fu sempre finalizzato come suo esclusivo e personale museo e quindi privo di qualsiasi tornaconto, ma fu anzi la causa di una situazione pesantemente debitoria nei confronti dei vari finanziatori, alcuni dei quali si dimostrarono sempre più avidi e spietati (nota 7).

Negli ultimi anni di vita di Henriquez divenne così una sorta di barbone che accattonava qualche piatto di minestra nelle più malfamate bettole della città diventando vittima dell’alcolismo, di patologie sessuali e di una violenta aggressività di cui, a raptus superato, chiedeva in lacrime il perdono. (nota 8).

In aggiunta a questa complessa situazione, venne preso pure da uno sconcertante spirito futurista che, intorno agli anni Sessanta, trascrisse sulle pagine del suo “diario paranormale” dove emergevano le vendette del profeta inascoltato.
Questa sua controversa attestazione fu confermata da Aldo Bobek, il suo più stretto collaboratore nel riordino e la custodia di tutto il materiale (nota 9) che dichiarò di essere stato chiamato “ telepaticamente” dall’amico la notte dell’incendio ma di essersi precipitato nel magazzino di via San Maurizio quando ormai era troppo tardi.
“Vivrò ancora molto a lungo, se non subirò incidenti” diceva Diego de Henriquez solo qualche giorno prima della sua morte che invece avvenne la notte del 2 maggio 1974.

Lo stesso magistrato Gianfranco Fermo alla fine delle due inchieste su quello che venne definito “un incidente” valutò le precarie condizioni psico-fisiche in cui Henriquez si trovava come una possibile, fatale causa della sua tragica fine.

NOTE:

(1) In via delle Acque, oggi via Timeus;

(2) Una Micheluzzi originaria di Gradisca d’Isonzo;

(3) Le cronache ipotizzarono che all’origine delle future distorsioni psicologiche e dell’omosessualità di Henriquez fosse stata la “prosperosa e brillante” personalità della madre e il suo contorto rapporto con il figlio;

(4) Mario Franzil diverrà sindaco di Trieste, Eugenio Zumin presidente della Corte d’Appello;

(5) La tutela pubblica del patrimonio archeologico entrò in vigore solo dopo il 1939;

(6) Alcune cronache avanzarono l’ipotesi di un possibile licenziamento causato dalla sua “svagatezza”;

(7) Il celebre “Ponte verde” sul Canale fu un recupero creditorio come rottame di ferro.

(8) Nel suo articolo “Luci e ombre di una vita” Guido Botteri accennò al drammatico squarcio sul mondo sommerso dello strozzinaggio cittadino di cui le documentazioni riportate nei minuziosi diari di Henriquez sarebbero una testimonianza.

(9) Fu Bobek che rimise in funzione tutti i carri armati arrivati come rottami nel centro di Trebiciano.

FONTI:
Guido Botteri, articolo “Luci ed ombre di una vita” pubblicato sulla rivista La Bora, Trieste, ottobre-novembre 1979;
Antonella Furlan, Civico Museo di guerra per la pace Diego de Henriquez, Rotary Club Trieste, 1998;
Foto: Civici Musei di Storia e Arte

 

Nino Spagnoli

Foto autoritratto giovanile (1944)

Nato a Trieste il 25 ottobre 1920 Nino Spagnoli iniziò a studiare pittura con Edgardo Sambo e Giovanni Zanfgrando ma dopo l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti a Venezia, si appassionò alle arti scultoree.
Assunto come disegnatore tecnico in un cantiere navale gli venne proposto di insegnare ai corsi serali per il personale del Governo Militare Alleato.
La prima opera importante fu il gruppo in bronzo Defensor Civitatis eseguito nel 1946 per la Curia Vescovile come ricordo della difesa di Trieste svolta da Antonio Santin
Per la cosiddetta “Divisione Lavori in Economia” nel 1951 eseguì la Fontana dei putti per piazzale Rosmini e l’anno successivo il bassorilievo dei puttini che giocano nel giardino di via San Michele
Sempre negli anni cinquanta Spagnoli restaurò la Fontana del Nettuno, oggi in piazza della Borsa ma allora in piazza Venezia (in sostituzione del monumento a Massimiliano d’Asburgo) e quella di piazza Garibaldi, entrambe scolpite da Giovanni Mazzoleni (1699 – 1769) .

Risalgono al 1955 la Fontana di Pinocchio nel parco di Villa Revoltella e il gruppo della Piccola Leda per il laghetto dei cigni nel Giardino Pubblico di via Giulia.
Nella foto l’artista al lavoro in uno dei suoi studi: quello dei primi tempi in via Ciamician e quello storico” in via dell’Ospitale, sotto il castello di San Giusto.

Nella foto sotto, Spagnoli presenta a una giovanissima Fulvia Costantinides il suo volto in occasione di una mostra nel 1956.
L’anno successivo si trasferirà a Caracas, in Venezuela, dove si sposò con la pittrice Giuliana Pazienza dedicandosi all’insegnamento e a diverse opere monumentali.
Rientrato in Italia nel 1962, s’impiegò nello stabilimento delle cave di marmo bianco di Giuseppe Sonzogno a Lasa (vicino Bolzano) per trasferirsi tre anni dopo a Catania in qualità di agente concessionario della ditta Marmi Henraux.

Rientrato nel 1983 definitivamente a Trieste continuò a lavorare nello studio sotto San Giusto realizzando busti, medaglioni, ritratti privati e restauri di monumenti, come quello per la Fontana dei Quattro Continenti di piazza Unità e il celebre monumento di Sissi, oggi in piazza Libertà.
Nella foto Nino Spagnoli già ottantenne occupato al restauro del braccio della figura che simboleggia Trieste.

Sono divenute celebri le sue sculture di Umberto Saba in via San Lazzaro, di Italo Svevo in piazza Hortis, di James Joyce su Ponte Rosso e della Mula de Trieste sulla scogliera di Barcola.

La scultura della fanciulla con lo sfondo di Miramare l’ultimo lavoro di questo nostro grande artista, spentosi il 31 dicembre 2005.

L’ immensa produzione di Nino Spagnoli fu dovuta a un costante lavoro di fatica e sacrificio ma sempre libero e indipendente da legami e costrizioni, così ci piace ricordare il suo dinamismo in questa forse poco nota scultura giovanile intitolata “Lo Scattista” del 1956.

Fonti: Anna Krekic e Michela Messina, “Nessun Maestro cade dal cielo- arte e lavoro nella scultura di Nino Spagnoli” , Edizioni Comune di Trieste, 2007