Diego de Henriquez nacque a Trieste nel 1909 (nota 1) in una famiglia che amava definire “di solide tradizioni militari” asserendo che i suoi avi avessero partecipato addirittura alle Crociate, alle guerre napoleoniche e risorgimentali continuando a combattere nelle due guerre mondiali.
Figlio di un agente di cambio (divenuto nella prima guerra ufficiale del Genio austriaco) e di una madre bellissima (nota 2) che sembra lo avesse allevato come una femminuccia (nota 3), il giovane Diego iniziò a dedicarsi precocemente alle più disparate invenzioni raggiungendo, senza vocazione né interesse, il diploma di capitano marittimo all’Istituto Nautico.
Nel 1926, assieme a Eugenio Zumin e Mario Franzil (nota 4) fondò la SAT, Società di Archeologia Triestina, scoprendo interessanti reperti nelle grotte di rio Ospo (che documentarono i passaggi di Veneti e Turchi nel nostro territorio) e di Luppogliano (donati in seguito al museo di Postumia) (nota 5).
Trovato un impiego presso la Società di navigazione Libera Triestina (in seguito riassorbita dall’Adriatica) a 19 anni si sposò con la figlia di un benestante proprietario terriero di San Daniele del Friuli da cui, oltre alla consistente dote, ebbe 2 figli: Maria Adele e Alfonso.
Richiamato alle armi dal Regio Esercito italiano nel marzo 1941, fu assegnato alla “Compagnia Deposito” a San Pietro del Carso, dichiarata già il mese successivo in stato di guerra.
Dopo una serie di colloqui con il superiore colonnello Ottone Franchini, ottenne l’incarico di raccogliere e selezionare il “materiale P.B.” (preda bellica) per il futuro “Museo Storico di Guerra e di Pace” di cui in seguito sarebbe divenuto Direttore.
Dimessosi nel 1948 dalla Società Adriatica di Navigazione (nota 6) e vendendo progressivamente i beni immobili quanto prosciugando tutte le risorse finanziarie della famiglia, si dedicò completamente alle sue strabilianti collezioni iniziate – con gli aiuti dello storico Pietro Sticotti e dell’archeologo Carlo de Marchesetti – ben vent’anni prima, nonché alla scrittura degli enciclopedici “diari” compilati con incredibile costanza.
Per oltre mezzo secolo Diego de Henriquez prese contatti con tutti gli eserciti del Friuli e della Venezia Giulia: iniziando da quello austriaco passò al Regio italico proseguendo con quello del Terzo Reich, poi con lo jugoslavo (durante l’occupazione di Trieste nei 40 giorni), accordandosi in seguito con gli ufficiali inglesi e americani (di stanza in città fino al 1954) e successivamente ancora con l’Esercito Italiano, divenuto questa volta repubblicano.
Per l’appassionato collezionista le diverse armi erano soltanto dei potenziali fornitori – possibilmente gratuiti – del suo museo e a testimonianza del suo chiacchierato quanto insussistente collaborazionismo, vi furono ben 18 arresti (sia pur di breve durata) da parte delle varie polizie militari per le sue presenze non autorizzate in zone proibite o per le foto scattate in zone strategiche.
Il maniacale e persino ossessivo collezionismo non solo fu sempre finalizzato come suo esclusivo e personale museo e quindi privo di qualsiasi tornaconto, ma fu anzi la causa di una situazione pesantemente debitoria nei confronti dei vari finanziatori, alcuni dei quali si dimostrarono sempre più avidi e spietati (nota 7).
Negli ultimi anni di vita di Henriquez divenne così una sorta di barbone che accattonava qualche piatto di minestra nelle più malfamate bettole della città diventando vittima dell’alcolismo, di patologie sessuali e di una violenta aggressività di cui, a raptus superato, chiedeva in lacrime il perdono. (nota 8).
In aggiunta a questa complessa situazione, venne preso pure da uno sconcertante spirito futurista che, intorno agli anni Sessanta, trascrisse sulle pagine del suo “diario paranormale” dove emergevano le vendette del profeta inascoltato.
Questa sua controversa attestazione fu confermata da Aldo Bobek, il suo più stretto collaboratore nel riordino e la custodia di tutto il materiale (nota 9) che dichiarò di essere stato chiamato “ telepaticamente” dall’amico la notte dell’incendio ma di essersi precipitato nel magazzino di via San Maurizio quando ormai era troppo tardi.
“Vivrò ancora molto a lungo, se non subirò incidenti” diceva Diego de Henriquez solo qualche giorno prima della sua morte che invece avvenne la notte del 2 maggio 1974.
Lo stesso magistrato Gianfranco Fermo alla fine delle due inchieste su quello che venne definito “un incidente” valutò le precarie condizioni psico-fisiche in cui Henriquez si trovava come una possibile, fatale causa della sua tragica fine.
NOTE:
(1) In via delle Acque, oggi via Timeus;
(2) Una Micheluzzi originaria di Gradisca d’Isonzo;
(3) Le cronache ipotizzarono che all’origine delle future distorsioni psicologiche e dell’omosessualità di Henriquez fosse stata la “prosperosa e brillante” personalità della madre e il suo contorto rapporto con il figlio;
(4) Mario Franzil diverrà sindaco di Trieste, Eugenio Zumin presidente della Corte d’Appello;
(5) La tutela pubblica del patrimonio archeologico entrò in vigore solo dopo il 1939;
(6) Alcune cronache avanzarono l’ipotesi di un possibile licenziamento causato dalla sua “svagatezza”;
(7) Il celebre “Ponte verde” sul Canale fu un recupero creditorio come rottame di ferro.
(8) Nel suo articolo “Luci e ombre di una vita” Guido Botteri accennò al drammatico squarcio sul mondo sommerso dello strozzinaggio cittadino di cui le documentazioni riportate nei minuziosi diari di Henriquez sarebbero una testimonianza.
(9) Fu Bobek che rimise in funzione tutti i carri armati arrivati come rottami nel centro di Trebiciano.
FONTI:
Guido Botteri, articolo “Luci ed ombre di una vita” pubblicato sulla rivista La Bora, Trieste, ottobre-novembre 1979;
Antonella Furlan, Civico Museo di guerra per la pace Diego de Henriquez, Rotary Club Trieste, 1998;
Foto: Civici Musei di Storia e Arte