Giacomo Joyce, l’enigmatico testo di James Joyce scritto negli anni in cui visse a Trieste, rivela qualche frammento di un’insopprimibile attrazione verso una sua giovane e non identificata allieva a cui impartiva lezioni d’inglese in una villa della città.
Lo scritto in forma di appunti fu rinvenuto dal fratello Stanislaus dopo la partenza di James nel 1920 (nota 1) e si ritenne fosse stato scritto tra il 1912 e il 1914.
“Who?” la domanda che costituisce l’incipit di questa sorta di taccuino lascia intuire che lo scrittore non volesse affatto svelare di chi fosse quel “pallido volto circondato da pesanti pellicce odorose. I suoi movimenti sono timidi e nervosi. Lei usa il monocolo. Sì: una breve sillaba. Una breve risata. Un breve battito di palpebre”. Una donna affascinante sembra a noi, “una giovane persona di qualità” la definisce lui aggiungendo “Le lunghe palpebre battono e si aprono: una puntura che scotta e vibra sull’ iride vellutato”. Insomma quasi un folgorante coup de foudre descritto con una delicatezza che da Joyce non ci saremmo aspettati.
Quando la giovane Lady va a cavallo lui la osserva: ” Il grigio tramonto le modella delicatamente le esili anche proporzionate, il collo dai tendini docili e elastici, il capo dalla fine ossatura” e quando una sera la incrocia per strada parlandole di lezioni e orari s’accorge che: “lentamente le sue pallide guance si illuminano di un’accesa luce d’opale” come se quell’incontro inaspettato le avesse provocato un’emozione talmente intensa da farla impallidire.
Quindi il professore non le doveva essere indifferente, del resto James aveva allora trent’anni e doveva essere un uomo di grande fascino…
Ma un’altra scena colpisce il nostro “immaginario”, senza però capire se sia il nostro o il suo:
“Lei alza le braccia in un tentativo di allacciarsi alla sommità del collo un abito di velo nero. Non ci riesce: no, non ci riesce. Indietreggia muta verso di me. Alzo le braccia per aiutarla: le sue braccia ricadono. Prendo i soffici e aggrovigliati orli del suo abito e, tirandoli per allacciarli, vedo attraverso l’apertura del velo nero il suo corpo sottile inguainato in una sottoveste arancione. Scivola sui nastri che glielo fermano sulle spalle e cade lentamente. Un corpo sottile, liscio e nudo che riluce di scaglie argentate. Scivola lentamente sulla natiche snelle d’argento levigato e sul loro solco, un ombra d’argento opaco… Dita, fredde e calme in movimento… Un contatto, un contatto”. Questo sottile, delicato erotismo svelerebbe un inconfessabile desiderio del professore dal momento che la sua presenza nella villa fosse giustificata per impartire lezioni di inglese e non certo per concupire la figlia dei padroni.
La scena comunque s’interrompe, per poi riproporne un’altra più castigata: “Una sottana ripresa per un improvviso movimento del ginocchio; un bianco orlo di pizzo per una sottoveste esageratamente sollevata, la tesa rete di una calza”, così ci sorge il dubbio che la giovane allieva ci mettesse un po’ di malizia…
Ma se fosse solo un sogno? Un desiderio irrealizzabile e consapevole che “quell’età è qui e ora” rendendosi conto che “gli occhi offuscano la luce dell’alba, il loro bagliore è la schiuma che copre la corte del bavoso James” quando si perdeva nelle osterie tra il vino e le prostitute sporche di sifilide:
“Lei si appoggia ai cuscini addossati al muro: profilo di odalisca nella lussuriosa oscurità. I suoi occhi hanno bevuto i miei pensieri: e nell’umido caldo malleabile accogliente buio della sua femminilità il mio spirito, dissolvendosi, è sgorgato e si è versato e ha inondato di un seme liquido e abbondante… Ora la prenda chi vuole!...”
Certo che leggendo Joyce sembra di trovarsi su un Tagadà che si ferma all’improvviso causando una scombussolante perdita di equilibrio e ci si chiede se le descrizioni si riferissero a personaggi diversi come appunti preparatori di un testo non scritto:
“Why?” si chiede anche lo stesso Joyce nell’ultima parte del taccuino:
“Scorrimento – spazio – anni – fogliame di stelle – e paradiso calante – quiete – e più profonda quiete – pace di annientamento – e la sua voce” concludendo il breve testo con un’immagine melanconica:
“Un lungo pianoforte nero: bara di musica. In equilibrio sull’orlo un cappello da donna, rosso fiorito, un ombrello ripiegato”.
(continua nella seconda parte)
Nota 1: Il testo fu in seguito affidato dalla vedova di Stanislaus a Richard Ellmann, autore di una monumentale biografia di Joyce.
Tratto da: James Joyce, Giacomo Joyce