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Eugenio Scomparini

Nella foto un autoritratto (Museo Revoltella)

Lo Scomparini era un bell’uomo, alto, forte e slanciato. Era di buonissimo carattere e genialissimo.” Così l’artista triestino venne descritto dall’amico Carlo Wosty nella sua Storia del Circolo Artistico di Trieste del 1934, asserendo che “Fu sventura per lui d’essersi lasciato abbacinare dal successo locale e di essersi fermato a Trieste. In un centro artistico la sua ala avrebbe spiegato ben altro volo. Ma egli amava il quieto vivere, evitava la lotta che fortifica e sprona. Così la sua arte non fu mai vivificata da nuovi stimoli, da nuovi impulsi” scriveva con spirito polemico il Wostry, prolifico e geniale autore che propose i suoi lavori a Monaco, Vienna, Parigi e perfino agli avveniristici Set cinematografici dell’America. “Ma fu nondimeno un maestro” ammise però, confermando quanto Trieste seppe apprezzare l’allegorismo tiepolesco dello Scomparini con una rivisitazione pittorica moderna e senza precedenti dalle nostre parti (Franco Firmiani).

Nato il I° settembre 1845 da una famiglia di origini venete, Eugenio Scomparini si diplomò all’Accademia di Venezia iniziando ben presto a esporre i suoi dipinti fino a essere nominato dal Curatorio del Museo Revoltella membro della Consulta artistica. Risale al 1878 uno scenografico sipario dipinto per l’inaugurazione del Politeama Rossetti e sciaguratamente perduto durante le successive ristrutturazioni. Il Museo Revoltella ne ha conservato il bozzetto che, seppure dipinto su un acquerello di piccole dimensioni, illustra le simbologie allegoriche.

Dopo un triennale soggiorno a Roma con una borsa di studio, divenne presidente del mitico Circolo Artistico di Trieste; nel 1887 iniziò l’insegnamento del disegno alle Scuole Industriali dove formò un’intera generazione di artisti triestini: Veruda, Orell, Fiumani Parin e di moltissimi altri che si affermarono poi nel vivace ambiente cittadino di quei tempi.
Tra il 1894-95 il maestro elaborò il trittico “Navigazione, Arte, Industria” collocato dal Curatorio del Museo Revoltella accanto la Sala da pranzo del barone. La scenografica cornice in avorio, bronzo, marmo e smalto fu eseguita nel 1888 dall’ebanista milanese Daniele Lovati.

I temi iconografici furono congeniali allo Scomparini il cui slancio pittorico fu ancora più accentuato nei dipinti commissionati per il Caffè alla Stazione. Sui muri dell’ampia sala, ristrutturata nel 1897 con elaborati stucchi e arredata con raffinati mobili intagliati, furono sistemati le 8 grandi tele dedicate ai fasti del progresso rappresentato da altrettante figure femminili.
Purtroppo il frequentatissimo Caffè scomparve nel 1955.
Nella foto sottostante in basso a destra si nota un fabbro, nuovo eroe dei tempi moderni, adagiato sulla densa nuvola di fumo formata dalle ciminiere della Ferriera mentre un’allegorica Gloria dominava l’immagine dall’alto del cielo.

Il dipinto a olio su tela (m. 3,48 x 2,46) e quello di uguale misura raffigurante il Commercio, rappresentato da due figure femminili simbolo della Ricchezza e dell’Abbondanza sovrastate da Mercurio a cavallo di Pegaso, furono poi acquistate dalla Cassa di Risparmio e collocate nella sede della Sopraintendenza ai Beni Culturali di palazzo Economo (a lato di piazza Libertà).

Per il restauro del teatro Fenice, ideato dall’architetto Berlam e inaugurato il 30 settembre 1905, lo Scomparini decorò il soffitto con una rappresentazione in cui erano protagonisti attori e mimi affacciati sul grande cornicione di un proscenio circondato da bianche quinte prospettiche.
Questo splendido teatro venne in seguito completamente trasformato e tutti i decori vennero distrutti; furono conservati soltanto due bozzetti presso i Civici Musei di Storia e Arte.
Nella foto Wulz il cine-teatro Fenice

L’anno successivo il nostro instancabile artista realizzò la scena di un baccanale agreste sulla volta a crociera nella saletta antistante la Sala delle Feste di palazzo Artelli, il bell’edificio dell’attuale via dell’Università 5, firmato dall’ingegnere Giorgio Polli (e attualmente in fase di un lungo restauro).

Lo Scomparini affrescò anche la piccola chiesa in alto della collina dove fu costruito il complesso del Frenocomio Civico di Trieste, i cui progetti iniziarono nel 1877 e si protrassero con l’inaugurazione dell’ospedale nel 1908.
Ristrutturata in tempi recenti, la cappella ha conservato solamente le decorazioni sul timpano esterno al di sopra del porticato.

Nel 1911sulle pareti dell’atrio della Cassa di Risparmio fu appeso il quadro “L’Edilizia” , l’ultimo di questo nostro prolifico artista che vi raffigurò il percorso dell’uomo dalla giovinezza alla vecchiaia attraverso il lavoro, qui ispirato da un’allegorica, femminea Arte.

Sofferente di angina pectoris, il maestro Eugenio Scomparini morì il 17 marzo 1913 tra il rimpianto di tutti i suoi moltissimi allievi. La moglie Caterina Schiellin cedette un gran numero delle sue opere al museo Revoltella ancora oggi esposte nelle gallerie.

Il primo quadro di Scomparini che entrò nelle gallerie del Revoltella fu l’imponente olio su tela (m. 2,36 x 1,53) “Margherita Gautier” l’emanciata dama dalle camelie ormai sfiorite:

L’altera dama dal frusciante abito bianco:

Una drammatica “Sofonisba” avvelenatasi con il veleno per non essere ceduta ai Romani come preda di guerra del vincitore Scipione: Fonti:

Comune di Trieste, Eugenio Scomparini, Litografia Moderna, Trieste, 1984;                                                                                                                                       Laura Ruaro Loseri, Ritratti a Trieste, Editalia, Roma, 1993;                                     Carlo Wostry, Storia del Circolo Artistico di Trieste, Edizioni Svevo, Trieste, 1991.

 

VITO TIMMEL

Figlio del nobile tedesco Raphael von Thümmel e della contessa friulana Adele Scodellari, Vito Timmel nacque a Vienna il 19 luglio 1886. Ricevuta una cospicua eredità la sua famiglia si trasferì a Trieste dove la madre gestirà un negozio di moda.
Superata una malattia che fu definita come meningite, a soli sette anni di età il piccolo Vito iniziò a dipingere con gli acquerelli dimostrando un precoce talento che in seguito lo indurrà a iscriversi alla sezione di Pittura e decorazione della scuola per Capi d’Arte con Eugenio Scomparini come insegnante. Attratto dal movimento austriaco dello Jungenstil, frequentò per 4 anni l’Accademia di Belle Arti a Vienna – dove assorbirà l’impronta dell’Art Nouveau – e successivamente quella di Venezia, poi abbandonata per dissidi con uno dei professori.
Durante gli anni di studio eseguirà i primi paesaggi ripresi dai luoghi dove villeggiava rappresentandoli con riflessi di luce e contrasti di colore di gran limpidezza. Risalgono a questo felice periodo gli splendidi Plenilunio sul mare, Sole cadente, Tramonto e dei romantici scorci di Arzene (tra gli anni 1900-1906). A 18 anni partecipò al concorso indetto dalla Fondazione Rittmayer con Ritratto di donna, Pausa e La dormiente ma fu escluso dalla borsa di studio per il suo scandaloso nudo femminile.
Dopo diversi viaggi di formazione a Roma e Firenze e aver prestato servizio di riservista nell’esercito austro-ungarico, nel 1910 ritornò a Trieste iniziando sotto i migliori auspici la sua produzione artistica.

Estroso e volubile Timmel dipingeva indefessamente paesaggi postimpressionisti con colori intensi e luci di grande effetto ottico alternando lo stile naïf a quello secessionista di Gustav Klimt da cui fu sempre affascinato. Tra i dipinti ispirati dal famoso artista viennese si ricordano Arte pura e arte impura, Arte etrusca (1910) e le superbe Amazzoni (1915-16).
Nel 1916 gli furono affidate le decorazioni per il cinema Ideal, collocato allora nel palazzo della Ras, costruito dagli architetti Ruggero e Arduino Berlam con gli interni dipinti da Piero Lucano, e adibito anche a spettacoli teatrali e di varietà. L’effetto finale dei 20 pannelli a tempera su carta esposti nell’antisala risulterà talmente splendido da entusiasmare gli spettatori fin dal loro ingresso. Nel fregio continuo collocato nella parte alta delle pareti, sarà rappresentata una sequenza di personaggi letterari e teatrali come un aitante Arlecchino con lo sfondo di San Marco, uno stranito Don Chisciotte accanto al mulino-fantasma, il meditabondo Cyrano, la perfida Salomè con la testa mozzata di San Giovanni ai suoi piedi, una fuggitiva Madame Bovary, il mercante Sylok dinnanzi a Palazzo Ducale, Elena di Troia, un osceno Aphroditos, l’ergastolano Valjean, la terribile Elettra danzante tra le fiamme e ancora Gulliver, Melisenda e il surreale Mafarka.

Una serie di fantasiosi mascheroni completerà la serie di pannelli che continueranno a essere ammirati anche dopo il cambio di nome dell’Ideal con quello di Italia (1919) e per altri 43 anni nell’atrio del cinema-teatro Filodrammatico.
Nel 1971 tutta la collezione sarà acquisita dal Comune di Trieste e dopo accurati restauri affidata al Museo Revoltella. Attualmente queste splendide tempere (meno l’Arlecchino di proprietà privata) sono collocate nella sala lettura della biblioteca dove attraggono ancora gli sguardi più sensibili all’arte creativa che mai potrà essere disconosciuta dalle mode come dal tempo.

Rimasto vedovo dopo soli 4 anni di felice matrimonio, durante il primo conflitto mondiale Timmel fu arruolato nel 97° Reggimento di Radkersburg dove trascorrerà un servizio militare più di facciata che di armi. Avendo avuto come diretto superiore Alessandro Marangoni, commerciante triestino appassionato d’arte, ebbe la fortuna di dedicarsi per tutto il tempo alla pittura insieme all’amico-collega Argio Orell. Risalgono ai quei tempi una serie di pannelli caricaturali sulla guerra, fortunosamente recuperati dopo le pazienti ricerche del fotografo Paolo Bonanni presso alcuni parenti di Milano.
Ritornato a Trieste, Timmel continuò la sua intensa produzione negli studi di via Machiavelli 3 e di palazzo Carciotti partecipando a diverse mostre collettive tra Trieste e Venezia che suscitavano l’ammirazione degli spettatori quanto i deprezzamenti della critica ufficiale spesso polemica con gli artisti al di fuori di un determinato star-system.
Durante gli anni Venti ottenne gli incarichi di consulente al museo Revoltella e di decoratore per il Teatro dei Cantieri navali di Monfalcone.

Sull’onda del successo riscontrato nella hall del cinema Ideal, la famiglia Cosulich gli commissionò infatti l’allestimento artistico nella sala interna della palazzina liberty di Panzano e che Timmel completerà in tempi brevissimi ma con un risultato forse inferiore rispetto al precedente. Ai lati della sala teatrale sarà ancora ideato il fregio continuo su ben 40 metri lineari dove verranno dipinte 30 fantastiche figure rappresentanti la storia del teatro e sintetizzate nei cinque mascheroni collocati sopra il palcoscenico: Tragedia, Scherzo, Satira, Commedia, Dramma.

Il teatro sarà purtroppo distrutto nei bombardamenti del 9 marzo 1944.

Solo 12 tele saranno fortunosamente recuperate da Paolo Marangoni, custodite in una villa privata e poi nei magazzini del Comune. In una mostra allestita nel 2008 nella Galleria d’Arte Contemporanea di Monfalcone i pannelli accuratamente restaurati verranno esposti al pubblico assieme alle immagini fotografiche dell’artistico edificio.
Terminate le decorazioni teatrali, il nostro prolifico artista completerà un trittico pittorico ridondante di simbolismi in stile klimtiano e dedicato agli Eroi, intesi come “i viventi della commedia umana”(1) ed esposti nella prima mostra d’Arte Romana nel 1921.

Di questo fortunato periodo si menzionano anche gli eccentrici disegni per delle Carte da gioco e la successiva serie di fantasiose Ballerine del 1927, forse commissionate per qualche specifica destinazione di cui non si hanno tracce. Più che ammiccante o malizioso il loro aspetto sarà piuttosto ambiguo dopo quello decisamente ermafrodita ritratto nel famoso quadro Fochi del 1924 tuttora esposto al Museo Revoltella.
Negli anni Trenta Timmel modificherà lo stile eseguendo tanti piccoli tocchi di pittura che ricorderanno il pointillisme francese, con un risultato aereo e coinvolgente come Il sorgere della luna sul mare (1934), la Marina con scogli (1935), Il viandante (1936), Paese carsico (1939) e l’affascinante Ritratto di Gemma Marangoni (1937-38).

Dopo il tormentato secondo matrimonio con Giulia Tomè e la loro brusca separazione l’anno successivo, inizierà lentamente a sprofondare nella depressione e nel’alcol. Abbandonata la vita sociale e alloggiato in stanze di fortuna, si abbruttirà nelle osterie di Cittavecchia fintanto che il figlio Paolo e l’amica Anita Pittoni riusciranno ad aiutarlo. L’uscita dall’inferno durerà per alcuni anni permettendogli ancora la realizzazione di bellissimi quadri dove i sogni onirici saranno alternati con gli incubi di un dramma esistenziale ormai inarrestabile. Sono di questo periodo intermedio Tempesta notturna, Luna d’oro, Crepuscolo, Bosco d’autunno, Trieste di notte e altri numerosi dipinti recuperati dopo le estenuanti ricerche di Paolo Bonassi presso mercanti e Case d’aste e riprodotti sul bellissimo libro di Franca Marri “Vito Timmel”, Collana d’Arte CRT, 2005.

Sfiancato dai disturbi neurologici e da una patologica pigrizia, Timmel si ritirerà ancora da ogni vita pubblica perdendosi tra luride bettole e disadorne stanzette dove tuttavia non mancheranno colori e pennelli. In quei miseri ambienti continuerà infatti a dipingere tratteggiando aurore sul mare, ombre di luna tra viottoli deserti, angeli biondi sopra soffici nuvole, foglie secche mosse dal vento esprimendo quel lato poetico che sopravviverà anche nei disegni del “Magico taccuino”, ultima testimonianza dei suoi mille disperati giorni trascorsi in manicomio.
La ricaduta al bere smodato provocherà una progressiva perdita della lucidità con gravi ripercussioni comportamentali che alla fine del 1943 lo porteranno a continui ricoveri nella “Villa paganti” del Sanatorio neurologico e in seguito all’internamento in un reparto psichiatrico di San Giovanni. Per ancora 2 anni riuscirà a dipingere alcuni quadri tra cui un notevole Palazzo ducale datato 1944 ed eseguito con tratti sorprendentemente nitidi e sicuri.
Tra dimissioni, fughe e ulteriori ricoveri, Vito trascorrerà gli ultimi anni della sua vita in un penoso stato confusionale con la perdita di ogni memoria e dignità umana. Nei suoi disegni appariranno visioni oniriche storpiate da una sconvolgente regressione infantile.
Compromesso nel fisico anche per le “cure” ricevute, il nostro Vito von Thümmel con la sola vicinanza dell’amico Cesare Sofianopulo concluderà a soli 63 anni la sua vita tormentata in una squallida stanzetta di San Giovanni nel giorno di Capodanno del 1949.

(1) Così definiti da Salvatore Sibilia nella pubblicazione del 1922 “L’Eroica”

Fonte: Franca Marri, Vito Timmel, Collana d’Arte CRTrieste, 2005

“BEETHOVEN”: un quadro copiatissimo

Questo famoso quadro intitolato “Beethoven” troneggia da più di un secolo in una Sala del Museo Revoltella di Trieste.
L’immagine dello scenografico dipinto (ben 4,20 metri per un’altezza di 2,02) non solo cattura gli sguardi per la sua suggestiva atmosfera ma racconta anche una tormentata quanto romantica storia iniziata alla fine dell’Ottocento in una vecchia soffitta di Montmartre. L’artistica mano che ha immortalato l’imponente tela appartiene all’artista toscano Lionello Balestrieri, nato in un’umile famiglia della dolce Valle dell’Oro a Cetona (Siena) nel lontano 1872. Dopo aver frequentato l’Accademia di Napoli gestita dal pittore Domenico Morelli ed essersi consacrato alle arti figurative, con l’entusiasmo della sua giovane età si trasferì a Parigi aspirando a raggiungere la fama o quantomeno a sbarcare il lunario. Come molti altri ragazzi di belle speranze ma di alterne fortune che pullulavano nei quartieri di Montmartre e Pigalle, Lionello visse e lavorò tra delusioni e difficoltà economiche dividendo i sogni e i miseri pasti con degli amici impegnati in varie specialità artistiche. Tra loro si unì il violinista Giuseppe Vannicola (Montegiorgio 1876 – Capri 1915), scapestrato rampollo di una benestante famiglia ascolana, dotato di notevole talento ma affetto da smodate manie esecutive. Costui era stato suggestionato dal singolare caso scaturito dall’estro del violinista inglese G. A. Bridgetower (1779-1860) che osò interpretare una sonata di Beethoven con un tale virtuosismo da indurre il maestro a inserire le sue variazioni nello spartito dell’opera. Con l’abile uso del violino il Bridgetower vi impresse infatti degli scatti rudi e selvaggi animati da un possente quanto spettacolare virtuosismo da trasformare di fatto l’originale testo beethoveniano (1). Così il creativo Vannicola amava eseguire arie famose apportandovi inedite performances secondo l’estro del momento. Le bizzarre esecuzioni che sottoponeva all’ascolto degli amici di sventura, sfinivano però l’esigua quanto annoiata platea suscitando i loro vivaci rimbrotti, scaturiti anche da abbondanti libagioni di laudano e del terribile assenzio.
“La musica è il grido terribile e supplicante che si leva dai luoghi profondi dell’abisso. La scala è il simbolo della sua ascensione, una scala infinibile che non ha inizio né fine” scrisse l’eccentrico violinista in una delle sue enfatiche pubblicazioni dove alternava l’esaltazione della musica tra l’amor sacro e l’amor profano. Dopo un’improvvisa quanto breve crisi mistica vissuta nell’Abbazia di Montecassino, il poliedrico artista s’innamorò perdutamente della ricca e aristocratica russa Olga de Lichnizki, iniziando un periodo di furore bibliofilo che non lo portò a una particolare fama ma che lenì la disperazione per essere stato costretto ad abbandonare il suo amato strumento per le conseguenze di una tremenda e progressiva artrite deformante.
“Spesso deliziava le pause delle nostre notti consacrate allo spiritismo con delle inebrianti cavate del suo magistrale violino”  lo ricordò il futurista Marinetti all’epoca in cui fiorivano le Riviste artistiche e letterarie.
Ma né la musica né la scrittura riuscirono a placare i tormenti esistenziali del Vannicola, esasperati dalla malattia e dallo smodato uso di sostanze alcoliche che lo condussero alla miseria e poi a un’improvvisa, tragica morte avvenuta in una spiaggia di Capri il 10 agosto 1915.

Durante gli anni di stenti vissuti nelle soffitte di Montmartre, il Balestrieri ideò di dipingere un grande quadro che rappresentasse quelle serate animate dall’amico Vannicola al cospetto dei suoi compagni di sventura. Dopo un estenuante lavoro il risultato finale fu talmente soddisfacente da destare immediatamente l’interesse dei mercanti d’arte e soprattutto di un astuto editore tedesco che con grande tempismo acquistò i diritti di riproduzione dell’opera. Il giovane e ingenuo Balestrieri, pagato con una cifra piuttosto modesta, non comprese subito il danno che gli sarebbe derivato né tantomeno immaginò di vincere il primo premio della prestigiosa Esposizione Internazionale al Salon di Parigi nell’anno 1900. Nonostante il “Beethoven” fosse stato stroncato da alcune poco benevole critiche della “Gazzette des Beaux Arts” e di qualche collega invidioso, l’opera pittorica fu molto apprezzata per la sua magica scena musicale che infatti fu copiatissima.
Stupito dall’inaspettata fortuna il Balestrieri osò sperare che il quadro fosse acquistato dal Governo Italiano quantomeno nell’esposizione alla IV Biennale di Venezia dell’anno successivo. Fatto che non avvenne ma che permise l’acquisto da parte dell’importante Galleria d’Arte del Museo Revoltella di Trieste dove ancora oggi si trova e suscitando dopo più di un secolo le stesse emozioni di allora.
Dopo il clamoroso successo conquistato a Parigi, il Balestrieri ritornò in Italia dove continuò a lavorare indefessamente su bozzetti, studi, disegni per collezionisti e scenografi ottenendo anche la presidenza della Società degli Artisti Italiani. Oltre ai quadri che espose in tutta Europa e perfino a Buenos Aires, in riscatto di tutte le scadenti copie del suo “Beethoven” si dedicò anche allo studio dell’incisione (metodo che permetteva appunto una facile riproduzione) e abbinando pennelli e bulino acquisì la capacità di eseguire lavori in punta secca, acquaforte e acquatinta. Così, dopo una lunga quanto infruttuosa corrispondenza con il curatorio del Museo Revoltella per impedire ulteriori copie del suo famosissimo quadro, Lionello Balestrieri divenne paradossalmente il riproduttore di sé stesso, riducendo i tempi d’esecuzione e aumentando i suoi guadagni.
Nel 1958 concluse la sua una lunga vita di lavoro e di soddisfazioni nella nativa Valle dell’Oro a Cetona.

Nel quadro “Beethoven” sopra riportato si riconosce in primo piano lo stesso Lionello Balestrieri corrucciato e indifferente all’abbraccio della ragazza con lo sguardo perduto. Sul lato destro è raffigurato il violinista Giuseppe Vannicola accompagnato al piano da un uomo di spalle che sta suonando per l’uditorio di amici. Sullo sfondo si nota una copia in gesso della maschera mortuaria di Beethoven.

(1) La Sonata per pianoforte e violino op. 47 di Ludwig van Beethoven, forse per una ripicca verso il musicista inglese che sfidò il suo genio, fu poi curiosamente intitolata “Sonata Kreutzer” dal nome del violinista francese che riportò le variazioi interpretative del Bridgeower nella pubblicazione dello spartito (1805).

Fonti:

Lionello Balestrieri, Edizioni Pananti, Firenze, 2000

Grande storia della musica, Fabbri Editori, Milano 1978

Giuseppe Vannicola, Il veleno, Sellerio Ed.,Palermo, 1981

PARIGI – gennaio 1910” (Da Le terre di Leidland, Gabriella Amstici, Trieste, 2010)

“Consumato un frugale pasto al bistrot Nicot di via Raspail, Rainer decise di raggiungere a piedi la stazione di Varenne in direzione Pigalle. Trovandosi in mezzo al caotico via-vai cittadino e intirizzito dalle umide e fredde correnti del Nord, quasi si pentì d’essersi allontanato dalla pace del suo studio, ma ormai la passeggiata era stata decisa e conveniva quindi predisporsi a un pomeriggio piacevole.
Dopo il percorso sull’affollato metrò, scese alla stazione d’Anvers per risalire verso piazza Saint-Pierre. Alzando lo sguardo vide la collina sotto Montmartre, già prossima alle fioriture primaverili che si annunciavano con minuscole gemme sugli alberi e sottili fili d’erba fra la terra ancora arida.
Gruppi di giovani e di turisti si avviavano con passi spediti verso la cattedrale del Sacro Cuore, che si stagliava imponente e bianca nell’indaco del cielo.
Fermatosi per riprendere fiato dopo le prime salite, Rilke si appoggiò su uno dei terrazzi: Parigi si stendeva come uno smisurato, immobile plastico sotto un velo di nebbia acceso dalle luci giallastre della città e dai riverberi grigioverdi dei tetti. La sua mente era ora libera da ogni affanno mentre sentiva di dover salire fin lassù per uno strano richiamo interiore. Poi sarebbe stato forse colto dall’immensità del Nulla, come spesso gli accadeva quando si trovava appena più in alto della consueta dimensione rasoterra, tuttavia voleva procedere. “Weiter oben!” dunque. Aveva trascorso mezza vita nell’andare sempre avanti, pur senza aver avuto mai un vero punto di partenza e meno che mai di arrivo.
Riprendendo a risalire le scalinate a forma di due ottagoni, proprio sotto il Belvedere di rue Lamark, avvertì degli intensi odori di legni bruciati mischiati a quello dell’affumicatura di carni grasse.
Superate le ultime terrazze, l’altera cattedrale era ormai davanti a lui. Stregato da quell’atmosfera, seguì la scia di gente che si avviava verso il cuore di Montmartre con vo-ci e risate sguaiate, del resto intonate alle loro appariscenti sciatterie. Giovani fanciulle dai volti involgariti da trucchi marcati e approssimativi, si guardavano intorno con maliziosi sorrisi rivolti ai numerosi uomini che si aggiravano solitari, e strusciando fra le loro sudicie gonne, scostavano e riavvolgevano i pesanti scialli di lane stinte, lasciando intravedere le generose scollature.
Rilke, osservando la folla che voleva distogliere l’attenzione verso quelle miserie la cui povertà veniva invece quasi esibita, si diresse verso la piazzetta du Tertre, dove fu investito da un mare di colori che si sprigionava dalle tele appoggiate su traballanti treppiedi o sugli schienali di vecchie sedie.
Alcuni artisti disegnavano con una certa abilità i volti di compiacenti ragazze che cercavano più che altro di attirare i clienti, altri richiamavano l’attenzione sui quadri in vendita.
Già pensando di allontanarsi da quella disordinata confusione, Rainer fu attratto da un dipinto di notevoli dimensioni montato su un cavalletto di buona fattura. La luce del cielo si rifrangeva sulla tela ad olio che già emanava una propria luminosità da un’invisibile lampada, e sembrava dar vita alle diverse anime dei personaggi raffigurati. Osservando la scena nel suo insieme, si aveva la sensazione che in quella stanza fosse accaduto un avvenimento tragico o che fosse atteso il suo epilogo.
In primo piano un bellissimo giovane, dai lineamenti affilati e uno sguardo severo, quasi indurito, era seduto su un grande sofà, del tutto indifferente alla tristezza di una ragazza bionda che gli si stringeva al braccio. Un uomo a loro vicino, appoggiava la testa fra le mani in un gesto di apparente disperazione o forse di concentrato ascolto della musica che lì si stava suonando a mezzo della mano protesa sui tasti di un piano e di un violino impugnato da una figura maschile. Sulla parete in penombra, fra lo spartito musicale e la sagoma di un altro personaggio seduto su uno sgabello, si notava il calco mortuario del volto di Beethoven.
Con un improvviso balzo, una donna con le mani sui fianchi, si portò davanti al quadro.
– È un Balestrieri, monsieur! – annunciò ad alta voce. Rilke, sorpreso da quell’inaspettata presenza, sobbalzò appena. – Il più bel quadro del secolo! – Rainer si soffermò su quel viso che rivelava una giovinezza precocemente sfiorita. Alcuni ciuffi della massa di capelli scoloriti, ricadevano in disordine sui grandi occhi chiari, deturpati dal trucco sfatto.
– Vi interessa acquistarlo, monsieur? – chiese la giovane, dischiudendo in un sorriso le labbra imbellettate.
– Che peccato signorina, che peccato io non abbia una casa degna di accoglierlo… Non abito neppure a Parigi del resto, ma il quadro è davvero bello…
– E’ una copia, monsieur! – Un uomo alto e grosso si affiancò alla ragazza, che si spostò appena con un moto di fastidio. – E non è certo sua! – aggiunse osservandola dall’alto. – Vattene Claudine!! Mi fai scappare tutti i clienti! — La ragazza alzò gli occchi verso l’uomo e aprì la bocca come per voler dire qualcosa, ma poi voltò le spalle e scomparve tra la folla.
– Beh, per la verità stavo osservando questo quadro, non necessariamente con intendi-menti d’acquisto, ma con queste maniere qui i clienti scapperanno davvero! – interloquì Rilke osservando l’uomo.
– Oh mi perdoni, monsieur! Ma ogni volta che mi allontano di pochi metri, quella donnina si fionda davanti a questo quadro come fosse suo per il solo fatto di essere stata ritratta. E’ insopportabile, ha come un’ossessione, me la ritrovo sempre intorno… Vi dicevo, monsieur, che questa è certamente una copia, ma come potete vedere da Voi, è di ottimo livello! – e spostandosi di poco, indicò con la mano la scena che Rilke aveva osservato.
– Il quadro originale è stato eseguito ormai dieci anni fa dal grande Lionello Balestrieri, vincitore di un primo premio al Salon di Parigi. Se non s’arricchì con questo quadro! Cinquemila franchi, monsieur, cinquemila! E poi la fama, gli articoli sui giornali… Il nostro caro Lionello ebbe ben motivo di montarsi la testa e così puff… Da un giorno all’altro praticamente scomparve, portandosi via tele e colori, fregandosene di tutti i suoi amici con cui aveva diviso il pane e i sogni di gloria… Adesso fa l’artista ricco a Montparnasse, ri-producendo il suo fortunato quadro in decine di copie che continua a farsi pagare profu-matamente. Per la verità, monsieur, questo è la copia di una copia, ma costa la metà della metà, pur essendo fatto da un artista bravo quanto lui! – L’uomo si spostò e con un breve inchino allargò le braccia verso il quadro – E quest’artista è qui in carne ed ossa davanti a Voi. Ramòn Balancieur, per servirVi. Balancieur è un nome d’arte sa, un po’a te e un po’ a me… – e voltandosi levò le braccia sopra le spalle e le agitò ripetutamente nell’aria per sollecitare un applauso da parte della folla. Ci fu invece un gran silenzio e Rilke s’accorse che dei volti si erano girati verso di lui aspettando le sue mosse. Lisciandosi il baffo con lieve imbarazzo, contrariato da tutti quegli sguardi che lo serravano a cerchio davanti a quel quadro inquietante, decise di svignarsela da quella massa di mentecatti dove regnava non il nobile spirito di geniali artisti, sia pur squattrinati, ma le ripicche e le gelosie verso chi potesse guadagnare qualche franco in più degli altri.
– Convengo le capacità dei Vostri prolifici estri artistici, ma per oggi non avevo previsto nessun acquisto. Caso mai, in futuro… –
– Balancieur, monsieur, non dimenticate questo nome. Vi farei un buon prezzo per questo capolavoro qui e per ogni altra riproduzione che soddisfi il Vostro raffinato gusto! Sempre qui per servirVi, monsieur! – e si girò per cercare l’approvazione dei colleghi, che invece avevano già distolto la loro attenzione.
– Buona fortuna a tutti! – esclamò Rilke alzando brevemente la mano in segno di saluto collettivo, e dando un’ ultima occhiata al quadro, si allontanò di qualche passo.
– È un falso! È un falso! – senti dire da una voce forte e rauca. Girandosi di scatto si ritrovò vis-à-vis con un grosso pappagallo verde e giallo che ciondolava ritmicamente sulle zampe ancorate da una catenella all’asse del cavalletto. Tra un coro di risate, si fece varco in mezzo alla folla che si era formata intorno e abbassando la falda del cappello, con un gesto più di stizza che di saluto, si diresse verso il lato della piazza, deciso a recarsi in un bistrot per bere qualcosa di caldo. Il cicalio delle voci sfumò nell’aria, mentre il vocione del pappagallo continuava a ripetere:
– È un falso!… È un falso!…”

Gabriella Amstici