Il Castello Nuovo di Duino

Autocertificazione 2921Nel 1472, dopo il dominio dei Walsee, il nuovo castello di Duino passò agli Asburgo, di cui il bavarese Mattia Hofer fu l’ultimo Capitano.
Con il matrimonio delle figlie Lodovica prima e Chiara poi con un Conte della Torre Valsassina iniziò il dominio del ramo lombardo dei Torriani che ingrandirono l’estensione dell’edificio trasformandolo sempre di più in un centro umanistico e culturale. (Nota 1)
Nel corso delle loro discendenze i Signori di Duino contrastarono diverse incursioni turche e divennero pazienti mediatori tra l’Impero e la Serenissima Repubblica di Venezia; furono grandi mecenati, provvidero alle bonifiche delle terre circostanti fondando scuole e conventi.
Autocertificazione 2928Dal matrimonio di Giovanni Battista III, ultimo discendente dei della Torre, con Polissena, figlia del Governatore di Trieste Pompeo Brigido, nacquero tre figlie di cui Teresa Maria Beatrice (1817 – 1893) sposatasi in seguito con il principe Egon Hohenlohe divenne un’importante castellana trasformando la nobile dimora in un vero centro di cultura e arte.
Donna intelligentissima e di grande cultura, ospitò nei salotti del castello illustri personaggi del tempo tra cui Johan Strauss e Franz Listz, che le dedicò una composizione musicale. (nota 2)

Nel quadro di Ludwig Rubelli von Sturmfest dipinto nel 1833 è rappresentato il castello ai tempi del suo massimo splendore e quanto rimaneva dell’antica Rocca.

Ludwig_Rubelli_von_Sturmfest_Castello_de_Duino_1883[1]

La figlia Marie (1855 – 1934), sposatasi con il principe Alexander von Thurn und Taxis (nota 3) ne ereditò le passioni invitando al castello letterati, musicisti, filosofi e poeti tra i quali il boemo Rainer Maria Rilke con il quale intraprese una lunga e affettuosa amicizia. (nota 4)
Alexander von Thurn und Taxis (1881 – 1937) uno dei 4 figli di Marie, nel 1934 ottenne l’italianizzazione del nome in Torre e Tasso e s’impegnò nella ricostruzione del castello dopo il bombardamento del 1917 (nota 5).
lobianco518Nella foto la Sala Cavalieri del Castello prima della sua distruzione
lobianco516Una delle più travagliate storie del castello fu vissuta da Raimondo, figlio di Alexander e Marie de Ligne, personaggio molto conosciuto e amato a Trieste, al quale ci permettiamo dedicare un articolo a parte.

Note:

1. La dinastia lombarda dei Valsassina (vicino Bergamo) dopo le devastazioni del Barbarossa ricostruirono Milano, i canali del Ticino istituendo il primo catasto; parteciparono alla prima Crociata verso Gerusalemme al seguito di Goffredo di Buglione;

2. Lo spartito originale del brano musicale “La Perla”, ispirato a una delle molte poesie scritte da Teresa, è conservato all’Archivio di Stato di Trieste;

3. I Thurn und Taxis appartenevano a un ramo della famosa dinastia dei grandi maestri di posta;

4. La principessa Marie nel libro Ricordo di Rainer Maria Rilke (Ed- Fenice, Trieste, 2005) narrò la lunga amicizia con il poeta; Autocertificazione 2923

5. Dopo il divorzio con la moglie Marie de Ligne, si sposò con l’americana Ella Walker, ricca ereditiera della famiglia produttrice del whisky “Jonny Walker”

Fonti:

Rodolfo Pichler, Il castello di Duino, Memorie, E. Seiser, Trento, 1882;
Ettore Campailla, IL CASTELLO DI DUINO, Editoriale MGS Press, Trieste, 1996;
Giulia Schiberna, Duino, Edizioni Fenice, Trieste, 2003

LA ROCCA DI DUINO E DINTORNI

ItinTS-Duino[1]Le origini
Tutta la zona intorno alle foci del fiume Timavo fu abitata fin dall’antichità. Gli scavi effettuati nelle caverne del territorio carsico furono rinvenute armi in pietra di abitanti trogloditi risalenti a epoche ben anteriori alle leggende degli Argonauti qui giunti con le navi dopo la caduta di Troia. (nota 1)
In epoche remote, trovandosi il mare più arretrato rispetto ad oggi e tutto il circondario più vasto e rigoglioso, esisteva il Lacus Timavi, formato dall’ansa dei sette rami formati dalle vicine sorgenti del fiume, protetto dalle 2 Insulae Clarae (nel tempo inabissate) e sufficientemente profondo per essere usato come porto. (nota 2)
In seguito alla fondazione della colonia militare di Aquileia nel 181 a.C. , iniziarono le mire espansionistiche dei Romani che nel corso del loro impero, disseminarono vari edifici e splendide ville che si diramavano intorno alla lunghissima via Gemina, di cui ancora oggi rimangono alcune tracce.
Se una tribù Gallica penetrata dalle abilmente debellata non altrettanto semplici furono le guerre con i vicini Istri, esperti naviganti e avidi predatori dei commerci intorno ai porti, contro i quali tra l’anno 178 e 177 a.C. furono combattute delle cruente guerre tra gli eserciti del console romano Manlio Vulsone e quelli del giovane condottiero Epulo.

Dopo il 46 a.C. , quando l’antica Tergeste divenne anch’essa colonia romana con l’assegnazione di un territorio ben presidiato compreso tra i fiumi Timavo, Vipacco e Risano, le incursioni degli Istri cessarono e sulle falde interne alle coste vennero costruiti edifici e residenze disseminati tra fertili campi e rinomati vigneti.

Il dominio dell’ Impero Romano continuò per quasi cinque secoli di relativa pace fino a un progressivo indebolimento dell’Impero causato sia per le interne lotte di potere che per gli alti costi degli eserciti di mercenari a protezione dei territori.
Le disgregazioni delle frontiere resero così possibili le prime invasioni barbariche e dopo la distruzione di Aquileia nel 452 d.C. per opera degli Unni, nel 568 vi fu la calata dei Longobardi che provocarono devastazioni anche nella stessa Tergeste.
Dopo il 580 sull’altopiano carsico fino alle sponde dell’Isonzo si ebbero le scorrerie degli Slavi con dei violenti saccheggi estesi su tutta l’Istria che neppure le colonie militari per la difesa riuscirono a impedire.

Tra il 752 e l’804 gli storici narrano di ulteriori contese tra Longobardi, Franchi e Bizantini fino alla cacciata dei terribili Slavi in “loca deserta” ritenendo che si riferissero proprio alle terre del Carso all’epoca in stato di abbandono.

Per finire il millennio si verificarono poi le scorrerie degli Ungheri in transito nell’Italia settentrionale dove erano avezzi a far piazza pulita su tutti i territori.
Iniziarono così gli oscuri secoli del Medioevo con innumerevoli battaglie tra feudi e feudatari, vassalli e valvassori con la progressiva ingerenza del potere vescovile per la spartizione dei Comuni.

Note:
1. Dall’Eneide, Libro I: “Attraversando achive terre, Antenore le spiagge dell’Illiria raggiunse ed i remoti regni varcati dei Liburni illeso, superò del Timavo le sorgenti onde per nove sbocchi con rimbombo esce dal monte, quale effuso mare e con flutto sonante i campi allaga

2. Durante l’impero di Ottaviano Augusto (63 a.C. – 14 d.C.) su uno dei 2 isolotti sorse uno stabilimento termale che sfruttava una sorgente d’acqua calda.
Riattivato dai Veneziani nel XV secolo e caduto in disuso all’inizio della seconda guerra mondiale, è sorto a nuova vita nel 2014. Valvasor-15531[1]La Carta del Valvasor (1553)

La Rocca

Autocertificazione 2892Le pochissime tracce dei periodi barbarici e medievali possono essere rintracciate solamente tra le numerose chiese superstiti e la Rocca di Duino (nominata anche Castelvecchio), unica struttura in parte miracolosamente sopravvissuta alle lunghe e sanguinose battaglie su queste terre così contese.

Fin dai tempi dell’imperatore Diocleziano nel III° secolo d.C. (nota 1) sulle più alte falesie dell’alta costiera adriatica compresa tra gli antichi porti di Duinum e Sextilium (l’odierna Sistiana) i romani avevano eretto una torre di difesa e di controllo del mare e delle vie retrostanti, ma la fortezza medievale venne costruita su un promontorio roccioso più a ovest rispetto al torrione romano.
Del resto osservando quell’arditissimo scoglio proteso a picco sul mare si conviene che nessun altro luogo poteva immaginarsi più adatto per erigervi un’inespugnabile rocca. Autocertificazione 2894Nella foto il Castelvecchio come appariva in un’incisione di Gabriel Bodenehr eseguita nei primi anni del Settecento.
Le sue dimensioni erano ristrettissime sia per la natura del sito quanto per la necessità di rendere sicure le difese ed efficaci le aggressioni degli assalitori.
I ruderi della rocca ci inducono a credere che per quanto permettesse l’irregolarità dello scoglio, la forma fosse rettangolare e fiancheggiata da torri merlate sostenute da arcate che si appoggiavano sulle rocce della scogliera.
046[1]Nella parte inferiore della torre principale, che fungeva pure da abitazione, si trovava una cappella di cui sono ancora visibili alcune tracce degli affreschi che decoravano le pareti e la volta del soffitto; i viveri venivano disposti in alcuni anfratti scavati nella roccia mentre l’acqua era raccolta in una grande cisterna a cielo aperto.
castel%20vecchio%20di%20duino%20(3)[1]All’altezza di una piccolissima finestrella gotica esiste ancora un leggio in pietra mentre non sono state rilevate tracce di scale in muratura ritenendo che l’accesso al piano superiore avvenisse per mezzo di scale esterne di legno. Infatti sulle mura della torre si notano incavi quadrati ove presumibilmente erano incastrati i supporti della scala, probabilmente mobile, per assicurare in caso di assedio, una perfetta difesa agli abitanti della torre.
Sulla strettissima lingua di terra che si congiungeva alla terraferma era stato scavato uno stretto andito sia per costringere il passaggio di una sola persona che per rendere agevole lo sbarramento al nemico. Autocertificazione 2896Planimetria di Castelvecchio in un disegno di L. Foscan – E. Vecchiet

Note:
1. Nato nella regione Illirica nel 247 d.C. e morto a Salona (odierna Spalato) nel 313;

Le foto della Rocca come appare oggi sono di Manlio Giona.

Note sui 2 castelli

Fin dalla pace del Timavo nel 1112 erano stati definiti i confini del territorio carsico tra il Marchesato dell’Istria e la Contea di Gorizia, entrambi feudatari dei Patriarchi di Aquileia che nel corso del XII e XIII secolo affideranno poi tutti i territori del Carso ai Signori di Duino, detti Duinati.
Come si è scritto nei paragrafi precedenti, considerando le ridottissime dimensioni della fortezza, è stato supposto che gli uomini di armi e servizi dimorassero anche intorno alla torre romana sulla sponda opposta della scogliera.
Nel 1363, sotto il dominio di Ugone VI vennero rinvenute notizie sulla costruzione di un nuovo edificio proprio intorno all’antichissima torre Diocleziana; da allora i due castelli si distinsero con i nomi di Castelvecchio o basso e di Castel nuovo o alto.
Quando i conti di Duino si dichiararono vassalli dei duchi d’Asburgo dopo il 1383 i lavori nel nuovo maniero vennero ulteriormente incrementati.
1655921_1451041815110470_1828896941_n[1]Nel 1395 la famiglia dei Duinati però si estinse e tutta la contea passò all’Austria che la consegnò ai ricchissimi Signori di Walsee che apportarono ulteriori strutture al nuovo castello.

Dal XV secolo l’antica Rocca di Duino venne del tutto abbandonata e in seguito a un’incursione turca avvenuta nel 1476 fu quasi del tutto distrutta.
Eppure ancora su quell’impervio scoglio battuto dai venti alcune parti delle sue storiche mura sono riuscite a sopravvivere con tutte le sue leggende.

Duino, attività sportive nel limpido mare ph Massimo Goina

Duino, attività sportive nel limpido mare ph Massimo Goina

Origini del nome Duino

Nel suo documentatissimo libro Il castello di Duino, Memorie (pubblicato nel 1882) l’abate professor Rodolfo Pichler sostenne di aver rinvenuto un’antica lapide di marmo dove veniva menzionato un certo abitante della Gallia di nome Douinos, vissuto tra il IX e X secolo e defunto nel luogo che da lui avrebbe preso il nome.
Il testo citato Pichler ne riporta la scritta in greco:
Quegli che per ogni sapienza e venustà era celebre / L’eroe Duino, sommamente illustre, qui giace / Dal contado dei Cauni, nella onninamente felice Galizia”.

In un documento risalente al 1121 scritto dal Patriarca di Aquileia Uldarico risulterebbe il nome di Ortuwin (luogo o terra di Duvino), in una pergamena del 1139, dove fu sancito un compromesso di confine con la città Tergeste, fu rinvenuta per la prima volta la scritta Duinum.

Fonti delle notizie:

Rodolfo Pichler, Il castello di Duino, Memorie, E. Seiser, Trento, 1882;
Dante Cannarella, Il Carso della Provincia di Trieste, Ed. Svevo, Trieste, 1998;
Ettore Campailla, IL CASTELLO DI DUINO, Editoriale MGS Press, Trieste, 1996;

Rilke a Duino e altrove

Non dovrei permettermi di scrivere alcunché su Rainer Maria Rilke, ritenuto tra i più importanti poeti di lingua tedesca e oggetto di bibliografie planetarie ma sono stata attratta dalla sua complessa e poliedrica personalità e coinvolta dagli aspetti più introspettivi della sua esistenza e dalle nevrosi emerse nei numerosissimi carteggi epistolari.
helmut-westhoff-portrait-of-rainer-maria-rilke-19011[1](Nella foto un ritratto di Rilke dipinto nel 1901 da Helmut Westhoff)

Il suo nome originale era René Maria e fin da bambino fu convinto dalla madre Sophia Entz di essere l’ultimo rampollo di una nobile stirpe boema (le cui tracce risalivano al 1625) e che il suo ambiente dovesse quindi trovarsi tra gli aristocratici.
Se per il piccolo René le nobili origini rappresentavano un vanto da esibire, non altrettanto dovevano essere graditi gli abiti da femminuccia con cui lo vestiva l’amorevole madre, mai rassegnatasi alla morte a soli 8 mesi della primogenita. Forse ancora peggiori furono le conseguenze delle ambizioni del padre Josef che indirizzandolo a una detestata carriera militare, poi abbandonata a 16 anni, contribuì a innescare quelle sensazioni di inadeguatezza che non lo abbandoneranno più.
Mantenuto da uno zio paterno e successivamente da generose cugine, nel 1895 Rilke riuscirà a ottenere privatamente la maturità liceale seguita da svogliati studi di Legge e Letteratura alle Università di Praga e di Monaco.

La sua vocazione poetica sbocciò dopo l’incontro del 1897 con Lou Andreas-Salomé, un’eccentrica scrittrice tedesca di origini russe, di 14 anni più anziana di lui, conosciuta per un chiacchierato ménage “filosofico” con Nietzsche e Paul Rée prima di sposarsi e dedicarsi anima e corpo agli studi psicanalitici di Sigmund Freud.
Lou e Rilke rimarranno insieme per alcuni anni intensamente vissuti tra le tensioni dello spirito e quelle dei sensi testimoniate nelle liriche a lei dedicate del Libro d’ ore dove il poeta comporrà alcuni versi di insolito romanticismo:
Allora del suo canto le sorgenti / dalla sua rosea bocca dolcemente / si sciolsero e si spinsero sognando / a coloro che son pieni d’amore / e caddero nelle corolle aperte / e affondarono lente in fondo al fiore”.
Sarà ancora dedicate a Lou un’ appassionata poetica:
Spegni i miei occhi: io ti vedrò lo stesso / sigilla le mie orecchie: io potrò udirti / e senza piedi camminare verso te / e senza bocca tornare a invocarti.
Spezza le mie braccia e io ti stringerò / con il mio cuore che si è fatto mano /
arresta i battiti del cuore, sarà il cervello / a pulsare e se lo getti in fiamme /
io ti porterò nel flusso del mio sangue.”

Quell’amore da lei definito “debilitante” per l’amante- bambino si consumò dopo soli quattro anni trasformandosi lentamente in una sincera e affettuosa amicizia che continuò per 25 anni.
Dopo la fine di quella bruciante passione il poeta precipiterà in una sorta di “desertificazione interiore” dalla quale riuscirà a uscirne faticosamente e forse mai del tutto.
Fosti la più materna delle donne” le scriverà in una delle numerosissime lettere a testimonianza del loro indissolubile legame “Fosti un amico, come lo sono gli uomini. Una donna, sotto il mio sguardo. E ancora più spesso una bambina. Fosti la più grande tenerezza che ho potuto incontrare. L’elemento più duro contro il quale ho lottato. Fosti il sublime che mi ha benedetto. E diventasti l’abisso che mi ha inghiottito”. (Nota 1)

Rilke riprenderà così a viaggiare tra l’Italia, l’Austria, la Svizzera, la Germania e la Russia, alla ricerca di quella ispirazione che sembrava per sempre perduta.
Approdato a Worpwede, villaggio di artisti nei pressi di Brema, nell’aprile del 1901 si unirà in un breve matrimonio con l’allieva di Rodin Clara Westhoff, presto abbandonata nonostante la nascita della figlia Ruth. (nota 2)
Le donne saranno un punto fondamentale nella vita del poeta ma nessuna riuscirà a staccarlo dalla sua esigenza di una totale libertà che gli garantisse la creatività artistica e se i legami intellettuali riusciranno a prolungarsi nel tempo, molto più brevi saranno quelli passionali vissuti con la pianista Magda von Hattinberg e con la pittrice Baladine Klossowska.

Dopo ulteriori pellegrinaggi tra L’Europa e la Russia, Rainer approderà a Parigi dove gli sarà offerto un lavoro di segretario presso lo studio del maestro August Rodin (nota 3) presto interrotto per uno spiacevole malinteso.

Alloggiato in due modeste stanze in rue Varenne, in perenne attesa di ricevere i proventi dei suoi libri per campare, scriverà i Quaderni di Malte Laurids Brigge (nota 4) un romanzo a mezza via tra un diario autobiografico e un percorso retrospettivo con una serie di dissertazioni che alcuni critici definiranno “dissociative” ma che riveleranno il disperato smarrimento del poeta:
Non si ha più nulla e nessuno, si va per il mondo con una valigia e una cassa di libri, in fondo senza curiosità. Che vita è questa, in fondo, senza casa, senza oggetti ereditati, senza cani. Si avessero almeno i ricordi…” (nota 5)

In seguito a un fortuito quanto fortunato incontro a Parigi con la principessa Marie von Thurn und Taxis nel dicembre 1909 e alla successiva corrispondenza tra loro intercorsa, il 20 aprile 1910 Rilke sarà invitato al castello di Duino, sulle ultime falesie della costiera triestina.
painting1.1So di aver pensato che ci doveva essere da qualche parte un castello e dovunque esso fosse, sarebbe stato proprio quello che io allora avevo cercato” (nota 6) scrisse alla principessa, lusingato di essere ospitato in una così splendida e nobile dimora.

Dopo il breve soggiorno nell’aprile del 1910 , il poeta soggiornerà nuovamente al castello dall’ottobre 1911 al maggio del 1912; qui inizierà la stesura delle Elegie duinesi che si protrarrà per oltre dieci anni affiancata da varie profusioni letterarie ed epistolari a testimonianza della sua esistenza errabonda e inquieta, vissuta nella costante ricerca di quel “nessun dove” che cercava “da qualche parte nel profondo”.
Quest’anno sono ospite qui, in questo castello e solido castello (al momento completamente solo) che mi trattiene un po’ come un prigioniero, e del resto non può fare altrimenti” confiderà a Lou.
Infatti ti per quanto la memoria storica dei suoi lunghi soggiorni sulla costiera carsica vanti l’ispirazione delle sue celebri Elegie al fascino dell’antico castello sul mare, Rilke non lo amò mai veramente apprezzandone piuttosto la ricca biblioteca e le frequentazioni dei suoi coltissimi salotti dove poteva incontrare il fior fiore di nobili e letterati.
In una lettera del marzo 1912 Rilke si lamentava della desolazione che lo opprimeva e del pessimo clima della zona, incolpandolo (ma ironicamente compiacendosene) dello stato della sua salute. “Questa costante alternanza di bora e scirocco non fa bene ai miei nervi e perdo le forze nel subire ora l’una ora l’altra”.
E ancora: “È vero, Duino non mi ha mai fatto bene, quasi ci fosse qui troppa elettricità dello stesso segno che mi sovraccarica, proprio il contrario della sensazione che sento al mare” (nota 7)
Più spesso il poeta ammetteva però che i suoi malesseri provenissero da un male dell’anima, da un’irrequietezza incapace di fermarsi in un luogo e un’inquietudine che gli impediva di trovare una ragione per cui lottare: “Trovarmi un giorno riordinato sarebbe forse ancora più disperante di questo disordine” ammetteva poi, quasi negando una possibile soluzione alle sue sofferenze.

In alcuni frammenti dei suoi epistolari emergevano spesso anche malesseri di origini sconosciute, causati da un sistema nervoso molto sensibile o da una fisicità troppo reattiva.

E’ possibile che la costante distrazione interiore in cui vivo sia in parte dovuta a cause fisiche, è una rarefazione del sangue, e ogni volta che ne prendo atto mi rinfaccia di averla lasciata progredire fino a un punto così estremo” (nota 8) confidava ancora a Lou nel corso del lungo soggiorno nel castello di Duino messogli a disposizione della generosa principessa Marie.

Non troverà pace nemmeno nella solitaria fortezza di Muzot dove sceglierà di vivere nel 1921 ritenendo benefico il clima mite e secco del Vallese ma dove poi si sentirà chiuso e stregato come in un “cerchio malefico”.
Dentro il castello ci si immagina la favola di qualcuno estremamente vitale che trattiene la propria vita come alito prezioso che non deve mischiarsi all’aria nella sua ordinaria funzione poiché c’è qualcosa di invisibile accanto a lui a cui insufflerà lo spirito” immaginerà Lou Salomé in una delle ultime drammatiche lettere. muzot-1[1]

Il disamore per l’opera non realizzata intacca ora anche il mio corpo, come una ruggine, persino il sonno nega il suo sollievo, nel dormiveglia le tempie pulsano come passi pesanti che non trovano pace” scriverà Rilke nelle ultime pagine del Testamento del 1925.

Si potrebbe supporre che la grave malattia che lo condusse a miglior vita a soli 51 anni avesse dato i primi segnali ben prima del ricovero del 1923 al sanatorio di Val-Mont cui ne seguirono altri fino all’infausta diagnosi del 1926, ma solo nelle lettere spedite agli amici negli ultimi mesi di vita emergerà il suo rammarico e tutta la sua infinita tristezza verso una realtà ormai senza futuro.

Alla dolce principessa Marie che tanto lo aveva sostenuto e conclusa la sofferta stesura delle mitiche “Die Duineser Elegien“ Rilke, consapevole della sua imminente morte, le donerà la proprietà del manoscritto (nota 9) con una dedica che apparirà su tutte le edizioni dell’opera.lobianco872

Sulla sua lapide del suo sepolcro accanto alla chiesetta sulla collina di Raron, Rilke farà incidere lo stemma di famiglia e la frase: “Rosa, contraddizione pura, desiderio di essere il sonno di nessuno sotto tante palpebre.” Chissà cosa avrà voluto dire. Rainer-Maria-Rilke-Grab[1]

Note:

1. Rainer Maria Rilke – Lou Andreas Salomé, Epistolario 1897 – 1926, La Tartaruga edizioni (Baldini&Castoldi), Milano 2002;
2. Sarà Ruth Rilke a curare tutto l’espistolario del padre
3. Lo studio dello scultore si trovava all’Hotel Biron, riadattato nel 1919 come Museo Rodin;
4. pubblicato nel 1910;
5. Epistolario, ibid;
6. Marie von Thurn und Taxis, Ricordo di Rainer Maria Rilke, Edizioni Fenice, Trieste 2005;
7. Epistolario, ibid;
8. Epistolario, ibid;
9. Conservato presso l’Archivio di Stato di Trieste.

Gli anni della psicoanalisi a Trieste

Nel saggio Gli anni della psicoanalisi (nota 1) lo scrittore/saggista Giorgio Voghera (Trieste 1908 – 1999) sondò il legame tra la psicoanalisi e gli scrittori nella Trieste degli anni Venti e Trenta, città allora all’avanguardia per aver accolto con favore la psicoanalisi freudiana.
VogheraIn precedenza fu un padovano di origini ebraiche, Marco Levi Bianchini (1875 – 1961) il primo medico che aderì con entusiasmo alle dottrine di Sigmund Freud (Freiberg, Moravia 1856 – Londra 1939) fondando nel 1915 la “Biblioteca psichiatrica internazionale” e nel 1921 l’ “Archivio generale di neurologia, psichiatria e psicoanalisi”, divenuto in seguito l’organo ufficiale della Società psicoanalitica italiana. (nota 2)

Ma fu a Trieste che sorsero dei circoli di letterati dove venivano lette e discusse le nuove teorie freudiane e ancora a Trieste che vennero praticate le prime analisi psicanalitiche per il fatto che qui nacque e visse Edoardo Weiss (Trieste 1889 – Chicago 1970) (nota 3) che dopo la laurea in medicina a Vienna e la specializzazione in psichiatria venne attratto dai rivoluzionari studi del dott. Sigmund Freud. (note 4, 5, 6)
lobianco863lobianco862Assunto nel 1918 all’ospedale psichiatrico di Trieste, il dottor Weiss s’impegnò alle alterazioni psichiche e alle dinamiche della psicosi da lui definite “malattie dell’Io”. Le sue teorie furono talmente affascinanti da coinvolgere letterati e artisti in una vera e propria stagione culturale descritta nel sopracitato libro di Voghera Gli anni della psicanalisi di cui ci permettiamo riportare qualche breve passaggio.

Tra i primi scrittori suggestionati dall’imprintig dell’inconscio fu Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz (Trieste 1861 – Motta di Livenza 1928) uno dei principali esponenti della cultura mitteleuropea.
Attraverso Zeno Cosini, il protagonista del suo più celebre romanzo, Svevo narrò allo psicanalista le vicende della sua vita sviscerando le dinamiche mentali che lo avevano indotto alla nevrosi. Se il dottor Weiss negò di essere il medico menzionato nella Coscienza di Zeno non ravvisandone alcun metodo di analisi psicanalitica, lo stesso Svevo ne trattò gli aspetti con una bonaria se non a tratti paradossale ironia, da molti ritenuta indotta dal fallimento delle cure di un suo stretto parente.

Del tutto diverso fu invece il coinvolgimento alla psicanalisi di Umberto Saba (Trieste 1883 – Gorizia 1957) che, tormentato fin da giovane dalla nevrosi e in seguito sprofondato in una profonda crisi depressiva, si sottopose per lungo tempo alle cure analitiche del dottor Weiss.
Se nella raccolta poetica Il piccolo Berto il poeta analizzò i traumi della sua infanzia attraverso un immaginario dialogo tra il Saba adulto e il Saba bambino, il discusso libro Ernesto (scritto nel 1953) con la sua tematica dell’omosessualità (quasi sconfinante nella pedofilia) fu un vero coming-out ante-litteram.
Interpellato dal dott. Weiss in merito al caso Saba, Freud si espresse con un’inattesa quanto singolare teoria, scrivendogli:
«Non credo che il suo paziente potrà mai guarire del tutto. Al più uscirà dalla cura molto più illuminato su se stesso e sugli altri. Ma, se è un vero poeta, la poesia rappresenta un compenso troppo forte alla nevrosi, perché possa interamente rinunciare ai benefici della sua malattia”. 
In effetti Saba riuscì a esprimere la sua travagliata interiorità nei suoi versi indimenticabili dove la dolcezza poetica raggiunse le corde di un’intensa musicalità.

Quanto entusiastica fu l’adesione di Saba alle teorie psicanalitiche, tanto palesemente scettica fu quella di Roberto Bazlen (Trieste 1902 – Milano 1965) apprezzato consigliere editoriale e divulgatore di nuove correnti letterarie. Eppure Giorgio Voghera sostenne fosse un attentissimo lettore di tutte le riviste concernenti l’argomento anche se poi volse il suo interesse alla psicologia analitica di Gustav Jung (Kesswill, Svizzera 1875 – Zurigo 1961) dove si compenetravano i suoi prediletti studi riguardanti l’alchimia e l’astrologia, le filosofie e le religioni orientali.

Chi aderì in maniera fulminea e totale alle tesi freudiane fu lo scrittore Guido Voghera (Trieste 1908 – 1999) che come scrisse il figlio Giorgio ritrovò in sé stesso la verità di alcuni postulati freudiani.

Lo scrittore Giani Stuparich (Trieste 1891 – Roma 1961), seppure attento ascoltatore dei discorsi che animavano i circoli triestini, fu sempre molto scettico in merito a tutte le dottrine psicanalitiche mentre il poeta Virgilio Giotti (Trieste 1885 – 1957) si dimostrò nettamente contrario anche se non quanto il filosofo Giorgio Fano (Trieste 1885 – Siena 1963) che espresse una netta e a volte intemperante opposizione a quella che ritenne un’irrazionale suggestione collettiva.

Giorgio Voghera sostenne che ai tempi descritti nel saggio Gli anni della psicanalisi Trieste fosse veramente una città di nevrotici, insoddisfatti della realtà politica, economica e specialmente esistenziale e che quindi rappresentasse un terreno ideale per l’attecchimento delle teorie freudiane e la loro ricerca dell’ignoto.

Certo che per altri celebri letterati europei la psiche fu trattata come una scissione dell’IO, e se Marcel Proust la disintegrò del tutto abbandonandosi ai ricordi associativi, James Joyce si abbandonò alla descrizione di una sua particolare giornata senza trovarne il baricentro che reggesse la contorsione dei suoi pensieri.

Chi invece sprofondò nell’introspezione fu lo psicanalista tedesco Georg Groddek (1866 – 1934) ricercando la coscienza dell’IO e le energie psichiche degli istinti che definì l’ES (nota 8) descritte nel libro Lo scrutatore d’anime in cui il protagonista esternava i messaggi mentali dell’inconscio con i discorsi più strampalati.
Il termine nominato da Groddek fu poi introdotto dallo stesso Freud nel trattato Io e L’Es del 1923, dove sostenne che le pulsioni fossero estranee alla parte cosciente della personalità e che i conflitti e le nevrosi fossero provocati dal conflitto di questi due distinti elementi.

Concludendo (si fa per dire) da Gli anni della psicanalisi in poi gli studi sulla psiche hanno rappresentato una costante lotta per intravvedere quell’ignoto che ci logora ma che continua pur sempre ad affascinarci.

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Note:

  1. Giorgio Voghera, Gli anni della psicanalisi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1980
  2. Enciclopedia Treccani
  3. Nel 1931 Weiss abbandonò l’ospedale psichiatrico di Trieste per la sua opposizione al fascismo trasferendosi a Roma; nel 1939 dopo la promulgazione delle leggi razziali emigrò a Chicago dove si dedicò agli studi della psicosomatica
  4. Foto di Edoardo Weiss giovane studente di medicina a Vienna
  5. Foto del palazzo di Corsia Stadion (oggi via Battisti 18) dove abitò la famiglia Weiss
  6. Vedere articolo su Edoardo Weiss https://quitrieste.it/tag/edoardo-weiss/
  7. Autore (con lo pseudonimo di Anonimo triestino) del romanzo Il Segreto, che molti ritennero essere stato scritto a 4 mani con il figlio Giorgio.
  8. Il dott. Groddek si dedicò al simbolismo degli organi del corpo applicando la psicoanalisi per la cura delle affezioni somatiche

 

Il colle Cacciatore

Nei primi anni dell’Ottocento fu creata una società, presieduta dal negoziante Ignazio Czeike, per tracciare un sentiero che dalle falde del Boschetto portasse agilmente alla vetta del colle Cacciatore, così chiamato per il guardiaboschi che lì risiedeva.Nella primavera del 1817 venne finalmente aperta alla cittadinanza la strada a serpentina che conduceva in cima alla collina dove, oltre alle passeggiate tra i boschi i cittadini potevano usufruire di una trattoria con i tavolini all’aperto, di un campetto per il gioco dei birilli e di uno spazio per il tiro a segno.boschetto5

Quando nel 1844 Ferdinando I donò al Comune di Trieste i terreni boschivi nella zona del Cacciatore, si pensò di valorizzare tutta la zona con la costruzione di un elegante albergo per i soggiorni dell’élite cittadina commissionando i progetti all’architetto berlinese Friedrich Hitzig.
In seguito all’atto di cessione del 1854 iniziarono i lavori e nel 1857 fu inaugurato il bell’edificio in stile tardo rinascimentale chiamato Ferdinandeo in onore dell’imperatore d’Austria che ne elargì i fondi. Sulla balaustra tra le due torrette laterali al corpo principale del palazzo venne deposto il busto di Ferdinando I con le statue allegoriche della Giustizia e della Gloria e una targa che ricordava la donazione.
Autocertificazione 2369L’ albergo Ferdinandeo venne frequentato da una raffinata clientela che con la bella stagione amava passeggiare tra i boschi e di sera ballare nel salone decorato con colonne e stucchi dorati o starsene al fresco nella terrazza al pianoterra.

La zona intorno, rimasta del tutto incolta, interessò il ricchissimo barone Pasquale Revoltella (Venezia 1795 – Trieste 1869) che essendo alla ricerca di una degna sepoltura per sé stesso e per la madre Domenica (nota 1) ne acquistò una buona parte.
Proponendo al Comune e al vescovo Bartolomeo Legat il progetto di una chiesa, il barone dovette svolgere un lungo iter burocratico per ottenere i permessi.  Nell’ attesa commissionò all’ingegner Giuseppe Sforzi (nota 2) la costruzione di un rustico chalet per trascorrervi brevi vacanze tra una battuta di caccia e l’altra. Fu allestito anche uno uno splendido giardino dotato di vialetti, curatissime aiuole e una grande serra per la coltivazione di piante rare e frutti esotici tra cui i famosi ananas che venivano offerti negli spettacolari banchetti nella principesca residenza di piazza Venezia. (nota 3)Autocertificazione 2372

Autocertificazione 2373Ottenuti tutti i permessi, il barone Revoltella affidò all’architetto praghese Joseph Andress  Kranner i progetti per erigere la chiesa con la cripta sotterranea, ma solo nel 1863 iniziarono i lavori che si protrassero per 4 anni.Autocertificazione 2367Autocertificazione 2368
La chiesa di San Pasquale Bylon fu consacrata il 17 maggio 1867 dal vescovo Legat (nota 4) e dotata di una rendita per la sua manutenzione assieme a quella del parco. Il barone volle inoltre assumere il cappellano e il sacrestano assicurando il loro alloggio nella casa a sinistra dell’ingresso principale con l’impegno di destinarla a Scuola del Contado.
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Nota 1 : Sepolta dal 1830 al Cimitero di Sant’Anna

Nota 2 : Sui disegni dell’architetto Friederich Hitzig

Nota 3: Vedi articolo: https://quitrieste.it/il-barone-pasquale-revoltella/

Nota 4 : Divenuta parrocchia solo nel 1966

La chiesa San Pasquale Bylon lobianco801
Dalla doppia scalinata dell’elegante edificio religioso costruito in pietra bianca del carso si entra nella loggia a tre arcate a porzione di circolo appoggiate sopra le colonne binate e quindi nella splendida chiesa a forma di croce greca sormontata da una cupola ottogonale dipinta a cielo stellato con 8 occhi circolari in vetro istoriato.
Gli interni sono rivestiti in alabastro egiziano riquadrato di cardiglio e rosso di Verona, sulle pareti laterali si ammirano gli affreschi di Domenico Fabris (Osoppo 1814-1901) che rappresentano degli episodi della vita di san Pasquale Bylon.lobianco804Molto bello l’affresco dorato di Trenkwald sulla volta dell’abside raffigurante i 12 apostoli e l’Ascensione di Cristo tra gli angeli. lobianco807

Sepolcro di Pasquale Revoltella Sotto l’elegante struttura progettata dal Kranner, si accede alla suggestiva cripta che accoglie le spoglie di Domenica e Pasquale Revoltella conservate in loculi a forno di lato all’altare a mensa dove è posta una splendida Pietà dello scultore viennese Francesco Bauer, fusa in bronzo da W. Brose. HPIM0468lobianco800

Pasquale Revoltella spirò dopo soli due anni dall’inaugurazione della bella chiesa.

Il parco di Villa Revoltella, esteso su un’area di 50.000 mq. è stato in seguito dotato di un lungo colonnato con panchine di sosta e una gradinata verso i campi giochi e di basket, una pista di pattinaggio e una fontana con il celebre Pinocchio di Nino Spagnoli.
Sempre molto curato il giardino e il laghetti davanti la bianca chiesa di San Pasquale Bylon, scelta dai concittadini per romantici Wedding.Autocertificazione 2370

Fonti:
Silvio Rutteri, TRIESTE Spunti dal suo passato, E. Borsatti Editore, Trieste, 1950;
Una chiesa, una storia, una vita a cura della Comunità Parrocchiale di San Pasquale, Arti Grafiche Stella, Trieste, 1997;  foto collezione personale

 

Un Ulisse a Trieste

lobianco779In seguito alle donazioni dell’ archivio privato di Giorgio Strehler da parte delle due eredi Andrea Jonasson e Mara Bugni al Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” di Palazzo Gopcevich (3/2/2005) e alle successive catalogazioni del materiale rinvenuto, emersero dei fogli dattiloscritti e corretti per mano dello stesso Maestro concernenti un progetto cinematografico rimasto inedito fino allora. (qui la prima pagina dell’ “intelaiatura” del progetto cinematografico)

lobianco777Il libro Strehler privato, pubblicato dal Comune di Trieste in occasione del decimo anniversario dalla sua morte, ha reso pubbliche le pagine in cui fu elaborata una bozza per l’adattamento di un film tratto da La coscienza di Zeno, il più famoso romanzo di Italo Svevo.
Si riassume brevemente qui la sua storia.

Nel corso di una crisi con il mondo teatrale vissuta alla fine degli anni Sessanta, Giorgio Strehler preso da una “grande voglia di fare del cinema” si dedicò alla scrittura di soggetti cinematografici. La sua passione per la Settima Arte risaliva alle professioni del nonno materno Olimpio Lovrich, impresario lirico e gestore di alcuni cinema triestini e del padre Bruno, prematuramente scomparso, che ne continuò l’attività.
In un’intervista rilasciata a Tullio Kezich (“L’Europeo” n.12, 1967), Strehler parlò della sua intenzione a realizzare un film su La coscienza di Zeno di Italo Svevo da lui considerato “il” romanzo tout court, una “grande commedia” psicologica e di costume, una storia di vita narrata come “un gioco dei sentimenti, dei movimenti umani più segreti”. Questo progetto era stato ripreso e abbandonato più volte finché ritornando a Trieste riscoprì quasi “con violenza” i suoi odori, i suoi sapori e le sferzate di bora che riecheggiavano in quel romanzo.
“Il mondo di Svevo mi appartiene […] Un qualcosa sul filo della tragedia con un tanto di umoristico, di grottesco che lascia anche la bocca amara” scrisse a Piero Zuffi, testimoniando quanto quel testo rappresentasse anche il luogo e il tempo dei suoi ricordi.
Nel linguaggio narrativo di Svevo, Strehler percepiva anche la vicinanza letteraria di James Joyce, tanto che avrebbe voluto intitolare il film Un Ulisse a Trieste immaginandolo in varie gradazioni di bianco e nero con una tonalità contraddistinta da “una luminosità tenera e lancinante”.
La trama sarebbe iniziata con la scena di uno sbuffante treno a vapore che percorreva un paesaggio innevato tra Vienna e Trieste dove nell’ultimo scompartimento si trovava un Zeno ormai anziano e con l’immancabile sigaretta tra le dita. Le vetture deserte sarebbero state popolate dai fantasmi della sua vita: i parenti, le amanti, le istitutrici e le prostitute; defilata in testa al convoglio ci sarebbe stata la balia con in braccio lui in fasce.
Nel corso del viaggio la memoria del protagonista avrebbe ripercorso in continui flash back tutti gli episodi della sua esistenza suddivisi in episodi paralleli ai capitoli romanzeschi (Preambolo e psicanalisi, Il fumo, La morte del padre, Storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale) fino a richiudersi sulla stessa scena del treno che passava tra le pietraie carsiche con La morte di Zeno.
Durante il viaggio il protagonista avrebbe visto le tradotte dei soldati avviati al fronte compiacendosi della propria vecchiezza che lo preservava dal coinvolgimento in quella guerra dannata. Vedrà la moglie e la figlia allontanarsi verso la Svizzera, al sicuro, e al sicuro si sentirà anche lui, avvolto dal tepore del suo plaid e dal nulla che si sarebbe ormai aspettato dopo una vita che era già stata vissuta.
La romanzesca storia si snoderà fra stupide e tragiche casualità che si presenteranno in una sequelle di eventi inaspettati e dalle imprevedibili conseguenze con la godibile e umoristica leggerezza che i lettori di Svevo certo conosceranno.
Dopo le grottesche scene del funerale del tanto odiato cognato, il drammatico addio con la donna amata ma ormai diventata brutta e malata, a Zeno non sarebbe rimasto altro che rivivere gli accadimenti della sua vita in quello scritto che rileggerà nella solitudine di quel treno in corsa fra le nuvole rossastre della sera e gli scoppi lampeggianti delle granate. Forse quella lunga storia gli sembrerà ormai inutile e avrebbe gettato i fogli dal finestrino. Sarebbe stato molto meglio pensare di non dover fare nulla, di abbandonarsi al sonno immaginando l’esplosione della terra e il suo ritorno alla forma di nebulosa errante tra cieli privi di parassiti e malattie. E nel sonno quell’ultima sigaretta stretta tra le dita si consumerà, diverrà cenere e cadrà “grigia e fredda” precipitando nel vuoto.

Dopo una lunga rielaborazione sul testo con una serie di appunti, ricerche, meditazioni, Strehler consegnò al regista Carlo Ponti le cartelle che costituivano l’intelaiatura per l’adattamento cinematografico del romanzo di Zeno o “alla Zeno” che comprendesse anche tematiche su Trieste, l’Austria, lo sfascio dell’Impero e sulla trasformazione della storia narrata da una psicologia individuale.
Annoiata e deprimente fu però l’opinione del produttore che liquidò quel soggetto in poche parole: “L’ho letto sai, il tuo coso lì. Vedi, secondo me non va mica bene perché non è sexy, capisci? Manca la “donna”. Un film è la donna! La femmina.” (lettera del 7 settembre 1967 a Maria Teresa de Simone Niquesa).
Shockato dall’inappellabile rifiuto e rimasto senza argomentazioni da controbattere (Ponti non conosceva affatto il romanzo di Svevo) Strehler fece “il pesce in barile” sprofondando però poi in una sorta di “paralisi interiore” aggravata anche dai problemi di salute .
In una successiva lettera a Moravia (forse datata 1968 e mai spedita), Strehler ammise di essere seccato e di non voler parlare più nemmeno con i muri.
Chissà quali risate si sarebbe fatto il nostro Ettore Schmitz se avesse saputo che il suo romanzo era stato ritenuto “non sexy”. Ma allora erano certo altri tempi.

Nella foto di Marino Ierman la sala del Fondo “Giorgio Strehler a Palazzo Gopcevich

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Fonte articolo e foto:

Strehler privato, Ed. Comune di Trieste, 2007

I mulini del torrente Lussandra

Come si è scritto nei precedenti articoli dal versante a ovest della Val Rosandra (nota 1) sgorgavano diverse fonti d’acqua che si ricongiungevano a quelle più abbondanti della Fonte Oppia (chiamata anche Glinščica ) che vennero sfruttate fin dal I° secolo d.C. da tutto l’Agro romano stabilitosi nell’antica Tergeste. (nota 2)
Quando nel corso del VI e VII secolo il lunghissimo acquedotto venne distrutto dall’avvento dei barbari, le acque della Val Rosandra continuarono a scorrere liberamente scavando un alveo naturale e arricchendo la portata del fiume anche se dovettero trascorrere ancora molti secoli prima dello sfruttamento della loro energia.

A partire dal IX secolo finì la schiavitù e lo sfruttamento umano e animale mentre il progressivo aumento demografico necessitava di una maggiore produzione di farine.
Fu cosi escogitato un sistema per la macinazione delle granaglie mediante l’uso di grandi ruote che, spinte dall’energia delle portate fluviali, azionassero i torchi permettendo un forte aumento produttivo di farine.

Nei nostri territori la più antica testimonianza dell’esistenza dei mulini ad acqua risale all’anno 1085 quando il patriarca Wolrico destinò a una confraternita di frati l’antico monastero di San Giovanni in Tuba, vicinissimo quindi alle ricchissime risorgive del Timavo.

Come si è già scritto nelle vicinanze di Trieste l’unico corso d’acqua era quello del torrente Rosandra, sufficientemente ricco per azionare le pale delle macchine idrauliche sebbene durante i mesi estivi si verificassero dei periodi di siccità e in quelli invernali vi fosse il rischio delle gelate.
Le prime notizie scritte sull’uso dei mulini si trovano su un atto di compravendita della Vicedomineria di Trieste risalente al 1276 dove risultò l’esistenza di altri 3 in proprietà del Vescovado.

Negli statuti trecenteschi conservati nell’Archivio Diplomatico (presso la biblioteca Hortis di via Madonna del Mare) si trovano interessanti testimonianze dell’attivita molinaria presente a Trieste

Nei cinque secoli successivi i mulini aumentarono di numero e nel 1757 nel tratto del torrente tra Bollunz (Bagnoli) e il mare se ne contavano ben 16 a ruota singola, doppia o tripla.
Nella mappa sottoriportata si nota la collocazione dei mulini (segnati in rosa) lungo il fiume “Lussandra” e un canale parallelo che convogliava lungo la “Strada dei mulini” diretta a Trieste.

In questa mappa della metà del XVIII secolo è segnato il mulino di San Martino situato su un’ansa del Rosandra a monte dell’attuale frazione di Mattonaia e identificabile con quello che diverrà poi il mulino comunale di Trieste.

I mugnai che lavoravano in questi mulini erano anche esperti nello scolpire la pietra per le ruote e nella costruzione di supporti in legno, mentre le loro mogli si occupavano del commercio della farina, trasportata a dorso d’asino in città e in luoghi più lontani.
Nei canali di alimentazione scavati nella roccia, chiamati struge si trovavano anche gamberi e anguille cucinati nel sugo e serviti con la polenta durante le feste d’agosto.

Il progresso tecnologico causò l’interruzione dell’attività di molti mulini che furono abbandonati o trasformati in laboratori per fabbri mentre le struge vennero via via sepolte dalla vegetazione senza lasciare testimonianze delle attività un tempo svolte.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale tutta la zona si trovò su un confine conteso e subì un depauperamento che si protrasse fino agli anni Trenta quando l’avvento delle Scuole di Roccia rianimarono tutta la vallata.

Note:
1. Le due fonti di Botazzo e quella dell’Antro delle Ninfe
2. Vedi articolo https://quitrieste.it/lacquedotto-romano-di-val-rosandra/

Fonti:

Enrico Halupca, “Le meraviglie del Carso“, LINT Editoriale, Trieste, 2004

L’acquedotto romano di Borgo San Sergio

Tra il 1976 e 1977 durante gli scavi per la costruzione di nuove palazzine residenziali nella periferia di Borgo San Sergio (nota 1) emerse un tratto dell’ acquedotto romano proveniente dall’antro di Bagnoli, uno dei tre che serviva la Tergeste costruita tra il I° e II° secolo d.C.

La conduttura si trova a mezza a mezza costa della piccola collina sul versante a est della Val Rosandra, a 3,2 chilometri in linea d’aria dalla fonte Oppia, sorgente situata sotto il monte Carso e che all’epoca romana costituiva la principale fonte d’acqua.
Il segmento, lungo 216 metri con una pendenza dell’1,1 per mille a una quota di 74 metri s.l.m., era dotato di cinque pozzi posti ad una distanza variabile da 30 a 36 metri.

Intervenuta la Soprintendenza, fu provveduto a conservare una parte degli storici reperti in un locale protetto dagli agenti atmosferici titolato Antiquarium (nota 2). Qui sono visibili un tratto del canale ed uno dei cinque pozzetti di ispezione sulla volta della conduttura, nonché il materiale archeologico rinvenuto negli scavi.

Sul terrazzamento posto tra le abitazioni della zona, è tuttavia sempre visibile il segmento originario della conduttura romana (allora interrata) che è stato racchiuso in un parallelepipedo dalla base in cemento e ricoperto da lastre trasparenti.
Anche qui si può notare il piedritto costituito da blocchi irregolari di arenaria con la volta a sesto acuto che chiudeva il canalone e la malta idraulica sul fondo per permettere lo scorrimento delle acque.

Dagli studi seguiti a questa interessante scoperta venne stabilito che la lunghezza dell’acquedotto romano dovesse avere una lunghezza di ben 17 chilometri e mezzo di pendenza costante prima di giungere al fontanone collocato in zona Cavana.

Dai terrazzamenti di via Donaggio è visibile la collina dove recentissimamente sono stati scoperti i resti di una Tergeste romana risalente addirittura nel 178 a.C. e quindi precedente a quella sorta tra il I° e II° secolo d.C. intorno al colle di San Giusto di cui sono invece rimaste moltissime documentazioni.

Dagli studi eseguiti con il georadar su questo colle sono state individuate le strutture sepolte del principale campo militare di San Rocco e i forti più piccoli di Grociana piccola e Montedoro, forse edificati durante uno dei conflitti con gli Istri. (nota 3)
Per 2.200 anni i preziosissimi resti sono rimasti protetti in quelle zone talmente vegetate e battute dalla bora da essere usate solo per pascoli e che non sono state soggette a edificazioni che avrebbero compromesso la loro lunghissima sopravvivenza.

Note:
1. In via Donaggio n. 17

2. Visitabile il sabato mattina su richiesta alla Soprintendenza

3. Il campo grande si estendeva su 13 ettari, quanto 13 campi da calcio ed era strategicamente situato nei pressi della baia di Muggia, un porto naturale protetto.

Fonti:
– A.Halupca – L.Veronese – E. Halupca “Trieste nascosta”, LINT Editoriale, 2015, Trieste;
– “Il Piccolo” articolo del 16/3/2015;
– Musei del Friuli Venezia Giulia
– Archeocartafvg

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L’acquedotto romano di Val Rosandra

IMG_0242L’acquedotto romano, risalente al I° secolo d.C., testimonia lo straordinario ingegno idraulico della florida civiltà romana che nell’antica Tergeste e intorno ai sui suoi territori ha lasciato reperti di grandissimo interesse archeologico.
La sua base era costituita da un conglomerato di pietre e malta sovrastato da due muri laterali di piccole pietre squadrate per una larghezza di circa 55 cm. che però variava a seconda dei tratti e della pendenza la cui media si attestava al 2%. A causa degli smottamenti dei detriti di falda non si è stabilito se l’acquedotto fosse un canale scavato o se corresse su delle arcate sopraelevate emerse in alcuni punti.
L’acqua veniva prelevata da una sorgente situata nel corso medio del torrente Rosandra, alla base del Crinale sotto il monte Carso, e dopo aver costeggiato monte San Michele riceveva un secondo ramo proveniente da San Dorligo (nota 1) e un terzo da quello dell’ Antro di Bagnoli (nota 2) (nota 3).

Da qui iniziava la condotta sotterranea che attraverso i 16 – 17 chilometri di lunghezza veniva convogliata in un fontanone pubblico nella zona di piazza Cavana fornendo l’approvvigionamento dell’acqua a tutta la colonia tergestina.
Tracce dell’acquedotto vennero trovate alla fine di via Bramante (nota 4) e in via Madonna del Mare dove, nel 1805, venne scoperta una galleria lunga 264 metri.
Questa importante opera idraulica romana fu descritta dallo storico Ireneo della Croce ((Trieste 1625 – Venezia 1713) nella sua Historia antica e moderna, sacra e profana della città di Trieste e in seguito studiata dal professor Girolamo Agapito (Pinguente d’Istria 1783 – Trieste 1844).

Quando nel 1815 l’architetto Pietro Nobile valutò che le acque trasportate nel canale sotterraneo potessero ammontare a ben 5.800 metri cubi nelle 24 ore, Domenico Rossetti volle propugnare il ripristino di quel notevole approvvigionamento e a seguito della terribile siccità verificatasi nel 1827 avanzò una richiesta ufficiale al governo austriaco.
Si presume che l’acquedotto romano funzionò fino al V o VI secolo quando, per la contrazione demografica, per il progressivo impoverimento della città e l’isolamento di tutto il territorio carsico, sarà abbandonato a sé stesso per lungo tempo.

Considerando che dalla fonte di Val Rosandra al fontanone di Cavana il dislivello è di soli 90 metri, l’acquedotto romano del nostro territorio fu un opera davvero straordinaria sia per l’accuratezza delle misurazioni che per la sua sopravvivenza a ben due millenni di storia.

NOTE:
1. Rinvenuto nel 1954 durante gli scavi alle fondamenta di una casa a Crogole;

2. Si ritenne che i tre rami dell’acquedotto convogliassero in una grande vasca di raccolta;

3. Nel 1976 a Borgo San Sergio venne rinvenuto un manufatto proveniente dall’acquedotto di Bagnoli lungo 216 metri e con una pendenza dell’1,1 per mille a mezza costa della collina (in una quota do di 74 metri) costituito da blocchi irregolari di arenaria legati con malta. Il segmento era dotato di cinque pozzi posti ad una distanza variabile da 30 a 36 metri;

4. Un segmento di 10,65 metri (a sezione quadrata) dell’acquedotto in pendenza verso via Bramante venne scoperto durante gli scavi del 1902.

FONTI:
Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, LINT Editoriale, 1998-2004, Trieste
Siti vari su Internet

http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2015/03/21/news/a-bagnoli-riaffiora-un-acquedotto-romano-1.11089881

 http://www.museifriuliveneziagiulia.it/scheda_museo.html?id=58