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Bosco Pontini e via Bramante

Conosciuta per aver ospitato in una delle sue case l’illustre scrittore James Joyce (nota 1), la via Bramante vanta un’antichissima origine. Sulle sue tracce esisteva infatti una trafficata strada che dal portale della cinta muraria ancora, ancora oggi visibile dalla via San Giusto, s’incurvava verso l’attuale via Tiepolo per proseguire, attraverso murature difensive, verso l’Istria.
La relazione dei ritrovamenti archeologici sugli “Scavi del Bosco Pontini” (un tempo molto più vasto rispetto all’odierno giardino Basevi), illustrati da Pietro Sticotti nel 1908 (nota 2), rivelarono l’esistenza di un florido quartiere romano sotto le case limitrofe alla scala Joyce di via Bramante. Gli studi dell’architetto Cornelio Budinis stabilirono che lì si trovasse un’officina per la lavorazione del ferro divisa in due distinti locali: l’uno rivestito dal pavimento in mosaici bianchi e neri, l’altro in lastrico di pietra con un tetto sostenuto da 4 pilastri.
Accanto ai locali del fabbro ferraio c’erano quelli del pistorium, granaio d’approvvigionamento delle legioni romane, provvisto di un forno a volta e una finestrella per l’uscita dei fumi. Lo stanzone era dotato di macine a mano, conche per mondare il grano e un bancone per le vendite, manufatti che nel corso dei secoli si sono sorprendentemente salvati. Nella corte adiacente furono rinvenuti il pavimento di arenaria, frammenti della muratura bianca con una striscia decorativa dipinta in rosso e di lato le cantine scavate nella roccia per un’ottimale conservazione delle scorte. L’acqua era assicurata dai vicini due pozzi ciascuno con il canale di scolo diretto verso il mare.
Altri resti sparsi nella zona testimonierebbero l’esistenza di altre officine ma verso il III secolo l’operosità di questo antico borgo venne meno fino a ridursi in rovine usate poi come luoghi sepolcrali privi di nome.

Poco a poco l’area venne del tutto abbandonata e in tutte le zone limitrofe si sviluppò una consistente massa boschiva che lambiva la piana sottostante (corrispondente alla nostra Barriera) estendendosi fino all’attuale via del Bosco.
Nel Medioevo la famiglia patrizia del barone de Fin entrò in possesso di quei vasti e alberati terreni dove costruirono una ricca dimora aggiungendovi nel 1631 una cappella dedicata a Santa Maria Maddalena con un officiatura ecclesiastica protratta fino al 1770.
Passata per un certo periodo in proprietà di un certo Buhelin, fu poi acquistata dal negoziante di borsa Pontini con il cui nome venne identificata la zona boschiva sulle mappe catastali anche quando, nel 1825, passò al signor Pepeu.

Con il progressivi sviluppo della città il Comune decise di tracciare dei nuovi percorsi tra il colle e il rione di Barriera, collegati fino alla fine del Settecento con un tortuoso vicolo inerpicato attraverso l’attuale piazza Vico.
Agli inizi dell’Ottocento vennero così costruite le vie del Bosco e Madonnina (che allora si prolungava fino alla via Bramante) entrambe delimitate dal Bosco Pontini mentre la villa rimase confinata alla Scala Dublino, costruita per collegare il rione della Barriera con quello di San Vito. (Nota 3)

Nel 1839 la tenuta venne acquistata dal deputato triestino al Parlamento di Vienna cav. Giuseppe Basevi che ne affidò la ristrutturazione e l’ampliamento all’ingegner Eugenio Geiringer.
Trasformata in un castello di stampo medievale, nel 1898 l’edificio fu donato al Comune di Trieste.
Ceduto in locazione nel marzo 1898 al governo austro-ungarico l’importante struttura fu adibita a Osservatorio Zentralanstalt für Meteorologie und Geodynamik dotato di un sismografo di tipo Rebeur-Ehrlet e di un potente telescopio astronomico.
In seguito la villa-castello, collocata tra la via Tiepolo e Segantini, divenne sede dell’ Osservatorio Astronomico triestino.

Nel corso del Novecento la zona sotto il Castello di San Giusto ebbe un notevole sviluppo e nell’ultimo tratto di via Madonnina fu abbattuta una parte boschiva per costruire la via Bramante (dal nome dell’architetto Donato) le cui case vennero erette sulle antiche rovine romane sopradescritte.

Qui, al II° piano della casa al numero civico 4, dall’ottobre 1913 alla fine di maggio del 1915 abitò il celebre scrittore James Joyce con la moglie Nora Barnacle e i figli Giorgio e Lucia.

Al numero 10, proprio vicino allo storico cortile del fabbro ferraio, nella casa contrassegnata con il numero civico 10, sorse un’officina per la lavorazione artistica del ferro, divenuta poi famosa per aver costruito la statua alata che ancora oggi svetta sul Faro della Vittoria sul colle di Gretta. (nota 4)

Oggi l’area si estende su livelli diversi in continua pendenza; uno degli accessi al piccolo parco è situato a metà della scala Dublino. Attraverso una cancellata in ferro lavorato si accede ad uno dei viali dove si passeggia all’ ombra dei grandi alberi ed arbusti.
Di aspetto romantico e suggestivo, il giardino si presenta attualmente un po’ “dimenticato” nonostante rappresenti un polmone verde in questa zona di grande traffico.

NOTE:

(1) Una targa posta sulla casa di via Bramante n.4 ricorda che qui fu scritto il primo episodio del suo più famoso romanzo

(2) Pietro Sticotti (Dignano 1870 – Trieste 1953) dal 1898 ricoprì la carica di Direttore del Museo Civico dell’Antichità e la direzione dell’ “Archeografo triestino” fino al 1952;

(3) Negli archivi comunali è riportata la descrizione del parco: “Un magnifico portone a cancelli in ferro dorati” che immette “sotto le volte di antica pergola tra due campi….a un viale di pioppi fino alla casa”. La casa, a due piani, presenta al piano terra un’ampia sala che d’inverno funge da serra. Sono descritti i pergolati con colonne in pietra, un “boschetto opaco” con “annose querce”, noci, olmi e abeti, fiori profumati, “labirintici viali” e un cippo sepolcrale.

(4) Sul modello ideato da Giovanni Mayer, la Vittoria Alata (h. 7 metri) fu sbalzata in rame dall’abile artigiano Giacomo Sreboth che la completò pochi mesi prima della sua morte avvenuta nel gennaio del 1928.

FONTI:
Silvio Rutteri, TRIESTE Spunti dal suo passato, E. Borsatti Editore, Trieste, 1950;
Biblioteche Comune di Trieste.

Villa Gossleth – Economo

In largo Promontorio, alla convergenza di viale Terza Armata con la via Franca, accanto a una serie di palazzine condominiali si trova questa imponente struttura dall’aspetto vagamente neo classico.L’edificio, un tempo circondato da uno splendido giardino, venne costruito nel 1817 per volere dell’inglese George Hepburn, commerciante di foglie di tabacco e di mercurio d’Idria. Secondo alcune cronache cittadine, sembra fosse stata la prima residenza di Trieste dotata di WC con la tazza a sifone e serbatoio d’acqua.
Dopo il 1838 fu acquistata dal ricco industriale ungherese Francesco Gossleth, titolare di una prestigiosa falegnameria dove vennero creati una lunga serie di mobili destinati alle più belle dimore dell’epoca. (nota 1)
Per ingrandire la villa il Gossleth affidò l’incarico all’architetto udinese Valentino Presani, direttore del Dipartimento Tecnico di Trieste che aggiunse un avancorpo centrale con 4 colonne corinzie reggenti un grande timpano dalla cornice dentellata e un balcone in pietra con parapetto a balaustra.
Sul portale ad arco dell’ingresso fu collocata una bella inferriata in ferro battuto decorata da motivi geometrici e floreali e sulla facciata vennero murati una serie di pannelli a rilievo con decorazioni a festoni e immagini mitologiche.
Si ricorda che nel 1850 il Gossleth fondò assieme al barone Pasquale Revoltella la “Scuola domenicale di disegno per artigiani”, diretta dall’abile scultore-intagliatore Giovanni Moscotto.Il palazzo passò poi in eredità alla figlia Emma, coniugata in de Seppi e in seguito acquistato dal barone Leo Economo, proprietario con Edmondo de Richetti degli “Oleifici triestini” (poi passati alla “Gaslini”) da cui derivò l’attuale nome della villa.

Nel luglio del 1883 la Villa Economo fu affittata a sir Richard Francis Burton, l’esploratore-antropologo e console inglese che qui visse, con la devota consorte Isabel Arundell, dedicandosi alla traduzione del libro Le Mille e una notte, iniziato vent’anni prima, del mitico Kama Sutra, L’Arte indù dell’amore e lo scandaloso manuale di erotologia araba Il Giardino Profumato. Gli ultimi anni della sua esistenza saranno però amareggiati da una serie di contestazioni in merito ai suoi libri e dai problemi di una salute pesantemente compromessa.
Due settimane dopo la sua morte, avvenuta all’alba del 20 ottobre 1890, Isabel accenderà nel giardino della villa un grande falò dove getterà alcuni preziosi e inediti scritti del discusso consorte.

Tra gli anni Sessanta e Settanta l’immobile è stato interessato da ampliamenti e rifacimenti, risparmiando solamente l’avancorpo centrale e l’atrio d’ingresso mentre il vasto parco verrà lotizzato in una serie di condominii.

(nota 1): Esistono documentazioni certe sull’attività di Francesco Gossleth che fornì anche diversi arredi per il castello di Miramare e per il palazzo Revoltella

Fonte: Atlante Beni culturali; Museo Revoltella

San Giuseppe della Chiusa

Per raggiungere San Giuseppe della Chiusa, o Ricmanje, ci sono tre strade: dalla deviazione della provinciale di Basovizza in discesa verso i paesi di San Lorenzo e Sant’Antonio in Bosco; dalla strada della Rosandra verso Domio e Log; girando a destra dopo la biforcazione della chiusa di Cattinara con la salita verso Basovizza.
Quest’ultima strada fu aperta all’inizio dell’Ottocento e per segnare il limite del Comune di Trieste con le borgate periferiche fu eretta una colonna con un capitello votivo raffigurante la fuga in Egitto di Giuseppe e Maria. Dopo il 2005 la stele è stata affidata all’Orto Lapidario di San Giusto.

San Giuseppe fu un importante feudo vescovile sia per il numero che per l’agiatezza degli abitanti e visse varie vicende storiche legate alle contese per i transiti dal soprastante pasum Longere lungo l’antica strada dei Carsi.

Un tempo aveva una piccola chiesa, dedicata a S. Giorgio Martire, conosciuta almeno dal 1645, data della sua consacrazione. Ma nel 1749 davanti l’altare del Santo si verificò un fatto prodigioso che provocò grande scalpore.
Sbirciando dalla finestra della chiesa un abitante del posto sostenne di aver veduto ardere la lampada votiva, solitamente spenta in quanto sempre priva di olio. Sparsa la voce iniziarono ad accorrere valligiani, pellegrini finché i cancellieri vescovili decisero di controllare sigillando porte e finestre. Ma la lampada continuò ad ardere. (nota 1)
Riportata la notizia alla Santa Sede, il papa Innocenzo XII si affrettò ad attestare il prodigioso evento vergando il “libro d’onore” con l’istituzione ufficiale della congregazione il cui primo iscritto fu il primogenito di Maria Teresa d’Austria, il futuro Giuseppe II.
La stessa Imperatrice donò alla Chiesa, rinominata nel 1750 Santuario di San Giuseppe, una serie di magnifici paramenti oggi conservati nel vicino Museo Etnografico.
In conseguenza del grande flusso di pellegrini la chiesa fu ingrandita e ricostruita nelle forme attuali con l’aggiunta del doppio campanile. Consacrata nel 1771 dal vescovo Antonio Herberstein, eretta a cappellania nel 1778 divenne parrocchia nel 1905.

L’interno della chiesa settecentesca ha uno stile di tardo barocco settecentesco, piuttosto raro da queste parti e non privo di una certa suggestione. L’altare ha mantenuto le sculture originali, opera di artigiani locali e il grande affresco del soffitto risalente al 1770 e sorprendente dipinto dal napoletano certo Pasquale Perriello raffigurante la morte e l’ascesa al cielo del santo patrono. (2)

Molto bello l’organo a 200 canne risalente al 1750 e una particolarissima croce all’ingresso che ricorda un “ora et labora“.Sulla parete sinistra della navata svetta un sorprendente altare in puro stile Impero: in candido marmo di Carrara con decorazioni dorate, due statue neoclassiche ai lati, una teca in vetro con il Cristo morto e un Cristo risorto sopra.

Negli anni Novanta questo singolare altare è stato restaurato da Boris Zulian, un conosciuto artista di Ricmanije, recentemente scomparso.

Nei primi anni del Novecento la chiesa di San Giuseppe ebbe uno scisma voluto da una parte della comunità slovena e che con alterne vicende tra Vaticano e Impero Austro-ungarico durò dieci anni per poi risolversi grazie a un combattivo vescovo viennese.
Con il recente arrivo di un nuovo parroco, attualmente la Chiesa è aperta per le funzioni giornaliere.

Nel piccolo Museo Etnografico di fronte alla chiesa, si trovano diversi utensili della vita contadina come una vecchia culla in legno per la lievitazione del pane, torchi per il vino e la ricostruzione di una cucina tradizionale. Per la visita è però necessario rivolgersi al Parroco.

Note:
(1) Non è dato sapere se il fenomeno si sia poi ripetuto

(2) Il recente restauro dell’affresco è stato effettuato dalla professoressa Anna Maria Scatola

Fonti:
Carlo Chersi, Itinerari del Carso Triestino, Stab. Tipografico Naz.le, Trieste, 1963;
Borghi e Paesi del FVG, Carsa Edizioni, Pescara, 2009

 

Il distretto di Moccò

Inoltrandosi per la vecchia strada provinciale e superata la Foiba di Basovizza. si raggiunge il piazzale dove si trova la piccola chiesa di San Lorenzo che pur risalendo alla metà del Quattrocento conserva intatte le sue antiche mura di pietra carsica e l’originario campanile a vela.
Superato il fantastico belvedere a 377 metri s.l.m. e le ultime case del borgo che si snodano sull’estremo margine della Val Rosandra, ci sono i due rami dell’antica strada carsica: a nord si scende verso Bagnoli e a sud verso le frazioni del paese di Sant’Antonio in bosco o Boršt, dall’antico nome tedesco di Forst (selva).
Sulla sinistra si apre una spianata il cui breve sentiero porta su un costone a strapiombo con una vedetta con il più spettacolare panorama di tutta la vallata.
Da qui si spazia a nord tra le bianche sassaie del cañon, le acque del Rosandra, i boschi dello Stena e a sud tra le ultime borgate di Trieste, il mare e le verdi colline dell’Istria.
E ci si sente come sospesi: saranno i soffi d’aria fresca, gli odori della terra inaridita dal sole, il profumo del timo e dei ginepri. O sarà forse la percezione delle molte anime di questo Carso così selvaggio, tormentato, conteso.
Su queste terre sono passati pellegrini verso paesi lontani, carovane di mercanti e brigate di predatori, spietati cavalieri al servizio di vescovi e patriarchi, ricchi signorotti assetati di potere e castellani troppo pavidi per difendere i propri territori.
Questa vallata ha sopportato assedi di fuoco e sanguinose battaglie, ha dovuto assistere alla distruzione di case, boschi e campi, è stata tormentata da pestilenze, carestie e terremoti eppure è ancora qui, tra questi monti sferzati dai venti o riscaldati dal sole.
Osservando le brulle pendici del monte Carso e laggiù le foreste di Ocisla vengono in mente le indimenticabili pagine di Slataper che lì visse la sua più intensa e solitaria estate.Alzando lo sguardo verso nord-est si scorge il promontorio dove un tempo lontano sorgeva un torvo castello a difesa di tutta questa splendida valle.
Così ci è venuta la voglia di ripercorrere la sua lunga storia.

Il castello di Muchou
Sebbene la prima notizia certa della sua esistenza risalga al 1233, da un documento pubblico del 1166 risulterebbe che il patriarca di Aquileia avesse acquisito il possesso di una struttura fortificata consegnandola ai fratelli Noppo ed Enrico “de Muchon”, vassalli ministeriali di Wernado, vescovo di Trieste e Capodistria.
L’origine del toponimo potrebbe quindi derivare dal nome di questi fratelli delegati alla custodia del castello e dei villaggi d’intorno: a valle quello piuttosto esteso di Sant’Odorico (nota 1) e verso sud gli abitati di Log (nota 2) anticamente chiamato Gas o Gias (nota 3), di Boršt (Sant’Antonio in Bosco) (nota 4) e della silva Cereti in seguito scomparsa. (nota 5).
Si riporta qui un particolare del documento del 1233 con la prima citazione del castello “in castro de Muchou”.
La valle compresa nel bacino idrografico del torrente Rosandra e conosciuta come de Zaullis sub Bagnolo, era allora percorsa dal pasum Longere, l’importante via di comunicazione che scendendo dal Carso si dirigeva verso Capodistria.
In seguito alle mire espansionistiche del Comune istriano e alle sue azioni armate, il castro de Muchou venne seriamente danneggiato e ricostruito a spese del patriarca di Aquileia.
Dopo essere affidato in custodia al Comune di Trieste nel 1281, iniziò una serie di contenziosi con il vescovado cittadino che vantava il controllo sulle contrade sottostanti nonostante mancassero le linee confinarie. La causa delle diatribe verteva essenzialmente sugli interessi economici legati al passaggio dei mercanti con le provvigioni di grano, farina, olio, vino e soprattutto sale, forniture che peraltro interessavano anche Capodistria e quindi il patriarcato di Venezia.
Nel 1338, dopo vari arbitrati fu stabilito che la contrada di Zaule appartenesse al distretto di Trieste mentre l’interno della valle al feudo vescovile.
Vent’anni dopo però il Comune decise di chiudere l’importante via di comunicazione con l’Istria provocando la reazione dei veneziani che tra il 1368 e 1369 assediarono la città.
Dopo un’estrema difesa il castello di Muchou, oggetto di una trattativa con il doge in persona, fu di fatto venduto e occupato da una guarnigione veneta fino all’atto di dedizione di Trieste all’Austria del 1382 quando si avvicendarono i capitani dell’Impero.
In seguito a ulteriori battaglie con Venezia e alle trattative di pace del 1463, il castello venne nuovamente annesso al dominio dei veneziani fino alla resa nel 1508 e il ritorno dei delegati imperiali.

Ma su quella strategica fortezza continuarono le ostilità perpetuate da guarnigioni venete con sfibranti assedi, razzie sulle coltivazioni agricole e vinicole, danneggiamenti alle vicine saline e blocchi delle vie di transito penalizzando sempre di più la non florida economia di Trieste.

Un’epidemia di peste esplosa nel corso del 1510 e le violente scosse di terremoto del 1511 indebolirono ulteriormente tutto il distretto di Mocho, segnando il suo destino.
L’esercito imperiale costituito da boemi e croati guidati da Cristoforo Frangipani raggiunse la valle di Zaule con l’intento di espugnare i baluardi a difesa del confine veneto. Asserragliato dentro le mura della fortezza l’ultimo castellano Girolamo Contarini, incapace di resistere all’assedio di un contingente dotato di bombarde a distanza, riuscì a fuggire a Trieste grazie al capitano Nicolò Rauber.
Dopo l’11 ottobre 1511 fu compiuta la totale distruzione del castello e delle altre strutture fortificate sparse sul ciglione carsico.
Considerando le proprietà e i diritti vantati dal Vescovado in quella particolare zona non sorprenderebbe la volontà del potente Pietro Bonomo di consiliare l’eliminazione dello strategico fortilizio – ufficialmente per evitare le continue incursioni venete – come non sembrerebbe del tutto disinteressata la compartecipazione di Rauber che per i servizi resi all’Impero ottenne la custodia del castello di San Servolo. (nota 6)
Comunque da allora i transiti commerciali vennero convogliati sui confini dello stato veneto anziché dirottati sulla direttiva di Longera, controllata da Trieste, e solo dopo il 1690 la stazione doganale, rinominata Fünfemberg (nota 7) venne riportata nel distretto di Moccò.
Questo insolito toponimo fu ancora riportato sulle carte del 1700, sulle prime piante catastali del 1800 e sulle Cronache di Ireneo della Croce.

Successivamente sull’area della dogana venne costruito un grande edificio rettangolare nominato “castello nuovo” inizialmente adibito a scopi amministrativi, in seguito acquistato dai conti Petazzi per poi essere trasformato verso la fine dell’Ottocento in un albergo-trattoria.
Divenuto abitazione privata nel 1945 fu completamente distrutto da un incendio e oggi non ne restano neppure le fondamenta.

Dell’antico castello di Mouchou rimangono oggi solo dei piccoli tratti di mura sul lato nord-ovest, ma essendo ricoperti dalla vegetazione, sono visibili solo in inverno.
La sua più antica raffigurazione è una litografia del 1698 riportato sulla Historia Antica e Moderna di Ireneo della Croce dove appare la lunga muratura della facciata, la torre quadrata e la porta d’ingresso sul lato a valle.

Sulla base di questo schizzo Pietro Kandler tracciò poi un disegno inserendolo nella sua copia personale della Storia del Consiglio dei Patrizi di Trieste.
Questa immagine fu ripresa a sua volta da Alberto Rieger che nel 1863 realizzò la nota incisione e per quanto fosse alquanto fantastica, anche per l’improbabile circondario alpestre, venne inserita nella Storia cronografica di Trieste di Scussa e ritenuta ancora oggi plausibile.
L’ultima rappresentazione con i resti del castello è stata dipinta in un acquerello di Antonio Tribel nel 1883 dove si notano la struttura quadrata, la doppia muratura e la scalinata sul lato a valle con il ponte levatoio.
Nella zona gli abitanti del posto hanno trovato diversi materiali ferrosi, punte di freccia e di balestra, ferri di cavallo e frammenti di ceramiche databili al XVI secolo.
Secondo l’interessante saggio di Fulvio Colombo ancora oggi sui pendii sotto il costone sarebbero visibili dei conci di arenaria distinguibili dal contrasto con le bianche rocce calcaree.

NOTE:
(1) Da documenti del 1298-99
(2) In sloveno bosco o boschetto
(3) Dal longobardo gahagi con significato di luogo recintato
(4) Dal tedesco Forst, bosco
(5) Menzionata negli statuti del 1322 e poi disboscata nel 1337 per far posto a terreni agricoli
(6) vedi articolo Il castello di San Servolo  (pubblicato il 21 novembre 2012)                           …          ..
(7) Forse dal nome dei signori della casata Vichumberg

FONTI:

Fulvio Colombo, Moccò – Castello e distretto, Estratto da “Archeografo Triestino” Biblioteca Civica A. Hortis;

Carlo Chersi, Itinerari del carso triestino, Tip. Nazionale, Trieste, 1962;

Dante Cannarella, Guida del carso triestino, Ed. Svevo, Trieste, 1975.

Contovello

Fino alla metà del Duecento tra il confine della signoria di Duino e quello del Vescovado di Trieste esisteva solo il piccolo villaggio di Prosecho o Prosecum.
Agli inizi del Trecento, sulla dorsale prospicente il mare a circa 500 metri dall’abitato e nei pressi della vicina chiesa “de Sancto Ieronimo”, il Comune di Trieste iniziò a costruire un castello per il controllo del mare e delle contrade verso Trieste. L’edificio nominato Castrum montis Collani o Moncolanum si trovava non solo in una posizione dominante ma era collocato in un particolare terreno marnoso-arenaceo che permetteva la coltivazione di vigne e uliveti, fonte di ricchezza per la comunità triestina di allora.
Il 25 febbraio 1369 il castello venne però espugnato rimanendo in mano a una guarnigione di 20 balestrieri veneziani e 30 pedoni trevisani.
Dopo l’assalto del 1380 di una coalizione genovese-friulana e la successiva trattativa di pace, Venezia abbandonò ogni pretesa su Moncolanum e il suo territorio.

Con l’atto di Dedizione all’Austria del 1382, a Trieste subentrarono i delegati e amministratori austriaci che ben presto si misero a presidio della fortezza, da allora identificata come Torre di Moncolano nei pressi del borgo da loro rinominato Prossek, di più facile fonetica e scrittura.

Nel 1413 nei pressi della torre fu deciso di costruire un nuovo centro abitato chiamato come la vicina chiesa e destinato agli slavi dei territori carsici, fatto che provocò malumori e qualche ritorsione da parte degli abitanti di Prosecho.
Con l’atto di acquisto del 1437 per una vigna firmato da un certo Matteo “de Contovello”, appare per la prima volta la scrittura del toponimo anche se lo studioso Mario Doria lo farebbe risalire a un più antico Coltovello o Coltivello che indicava il terreno adatto alle coltivazioni. Gli sloveni invece attribuirono la derivazione del nome da kônta inteso come “valico”, mentre alcuni abitanti del posto asserirono romanticamente che provenisse dal “contar le vele” delle mogli in attesa del ritorno dal mare dei pescatori.

Le mura di Contovello furono costruite dopo i saccheggi e gli incendi di Prosecco da parte di alcune milizie a cavallo provenienti nel 1470 dalla Bosnia.
In seguito a un’altra incursione dei Veneti e a successivi cambi di presidio, nel 1524 la torre fu affidata a Pietro Giuliani, fido segretario dell’arciduca Ferdinando, attestando un nuovo distretto che comprendeva, e di fatto dominava, i 2 villaggi.
Con la cessione al potente uomo di corte Giovanni Gasparo Cobenzel e poi ai suoi eredi, iniziò una serie di lunghi contenziosi con il Comune di Trieste comprese quelle perorate dagli abitanti dei due borghi.
Dopo gli ultimi documenti riguardanti la torre sui quali è stato individuato come ultimo “signore di Prosecco” un certo Giovanni Filippo, figlio di Giovanni Gasparo, le notizie si esauriscono.
Nel frattempo alle mancate manutenzioni della fortezza si aggiunsero dei crolli murari per la caduta di fulmini o di avvenimenti sismici, allora non infrequenti, mentre la progressiva espansione dell’abitato e il riutilizzo dei materiali di costruzione segnarono il lento declino della torre.
Su una mappa delle linee di confine tra Trieste e Duino del 1645 vengono segnati i paesi di Contovello e Prosecco senza più nessun riferimento alla fortezza e dopo l’Ottocento i terreni circostanti vennero definiti “da pascolo”.

Ai nostri giorni, accanto al cimitero di Contovello sopravvivono ancora i ruderi di un muro formato da grossi conci di arenaria addossato a una maceria che un tempo il prof. Lonza ritenne parte di un tumulo preistorico collegato a un antichissimo castelliere. I saltuari scavi hanno effettivamente portato alla luce dei frammenti di ceramiche e di altri materiali riferibili a un arco cronologico molto ampio che avrebbero richiesto una strategia d’indagine oggi divenuta ormai  impraticabile per la presenza di ville e giardini.

Per la disposizione delle stradine, la compattezza dell’abitato in forma allungata e le case allineate entro un perimetro definito, il cuore di Contovello presenta però ancora oggi le caratteristiche di un paese medievale di cui rimane ancora la porta di accesso con le caratteristiche pietre squadrate dell’arenaria.
Tra i viottoli, gli antichi masegni e le balconate in legno, si aprono piccoli cortili con linde casette riadattate e ricolme di fiori.
Nell’antica chiesa in stile gotico-romanico di San Gerolamo, eretta nel 1606 e consacrata nel 1634, si trova l’altare appartenuto alla cappella di Santa Maria di Grignano, soppressa nel 1785, un notevole soffitto affrescato e numerose statue di fattura locale. Nel 1912 sono state aggiunte 4 bellissime finestre istoriate.
Dal prospiciente belvedere si gode una strepitosa vista che spazia dalle colline istriane fino alle lagune venete mentre sui declivi della collinetta si notano le verdi vigne destinate alla coltivazione del nostro pregiato “Prosecco”.
A metà della strada che porta a Contovello, nell’avvallamento che confina con un fittissimo bosco, si trova il piccolo laghetto delle paperelle, oggi risistemato con l’aggiunta di romantiche ninfee.

Sulla strada provinciale, sulla curva prima di Prosecco, c’è una piccola cappella gotica dedicata alla Madonna della Salvia, dal nome dei suoi nobili possessori terrieri. Gli affreschi del presbiterio e le iscrizioni latine farebbero risalire la costruzione al XV secolo o agli inizi del XVI.

E’ proprio bellissimo questo angolo di Carso così verde e così pieno di storia…

Fonti:
Fulvio Colombo, Dal Castello di Moncholano alla Torre di Prosecco, estratto dall’ “Archeografo Triestino”, 1998;
Dante Cannarella, Guida del Carso Triestino, Ed. Svevo, Trieste, 1975;
Fulvio Colombo, Prosecco, patrimonio del Nordest, luglio editore, Trieste, 2014

Santa Croce

Dopo un lussureggiante bosco di acacie e betulle, alcune doline che costeggiano la strada provinciale e una serie di splendide ville, si giunge nel piccolo paese di Santa Croce dove si respira un’aria d’altri tempi.

 Oltre l’antica porta vecchie case abbandonate, altre riadattate, con le panchette di pietra e tanti vasi fioriti. Tra le viuzze un grande silenzio, un senso di pace e un profumo di legni bruciati e di erba tagliata.
Una piccola Osteria, un vecchio bazar, un’agraria in una tavernetta dismessa, le donne che vanno verso il cimitero, qualche chiacchera tra i vicini, alcuni gatti di passaggio. La chiesa di Santa Croce sembra risalire al XIII secolo anche se ma la più antica iscrizione, riportata sulla torre campanaria risale al 1543 e su un’ altra lapide murata è inciso l’anno 1584.
La sua consacrazione avvenne nel 1613 per volere del vescovo Reinaldo Scarlicchio come attesta la scritta latina sopra la porta d’ingresso. All’interno si trovano dei begli altari barocchi, alcune statue, un notevole affresco sul catino dell’abside e un organo aggiunto in tempi recenti. Divenuta parrocchia nel 1847, ha avuto diversi restauri nel corso del Novecento e oggi si presenta ancora in un buon stato di conservazione.
Accanto alla chiesa si trova un piccolo e lindo cimitero dall’aria romantica e profumata di mare. Sopra il cancello di ferro e su un vecchio pozzo di paese spicca la nostra orgogliosa alabarda.
Dietro la chiesa si trova una piccola costruzione in pietra adibita fino qualche tempo fa ad abitazione del parroco ma fino all’ottocento sede della scuola. Sulle mura di questa costruzione a due piani sono visibili delle interessantissime incisioni che non sono state del tutto decifrate. Alcuni vi hanno ravvisato dei segni cabalistici, altri delle scritte risalenti al tempo dei Templari e dunque ben precedenti al 1308, data di scioglimento dell’Ordine.
Sul breve saggio di Aristide Buffalini “Santa Maria di Grignano e i Templari” (nota 1) risulta una possibile spiegazione della seconda scritta che riportando:
HOC OPUS MAGISTER GEORGYUS FECIT
potrebbe richiamare alla mente un maestro muratore che ai quei tempi poteva essere sia un monaco benedettino sia un costruttore Magister Militiae Templi che avesse indicato i suoi possedimenti con dei segni criptici.
La scritta MCCCC89 ha invece dei caratteri diversi che presuppongono una datazione postuma come forse il rosone di lato.
Altre curiose incisioni sulle mura della vecchia scuola parrocchiale:
Appena fuori dal paese la piccola chiesa gotica dedicata a San Rocco, protettore dei viandanti, dei mendicanti e degli appestati. Costruita nel 1646 come ex-voto quando la comunità venne risparmiata da una pestilenza che aveva colpito l’intero territorio. Di lato la statua del vecchio questuante, opera di uno scalpellino locale di nome J. Dousak, sistemata dopo i restauri di fine Ottocento quando le offerte inserite nella sua borsa confluivano in uno sportellino all’interno della Cappelletta.
Attualmente l’edificio è interamente transennato per lavori iniziati diversi anni fa e non conclusi.

Sulla piazzola- belvedere, appena sotto il paese è rimasto l’antico lavatoio di recente ristrutturazione ma purtroppo deturpato dalle scritte.

Per chi gradisse un paesaggio di più largo respiro c’è un sentiero lungo il margine della collina e tra piccole doline, solcati carsici e una bella pineta si avverte un sentore di resina frammisto a quello del mare e da lì si spazia con lo sguardo dalle terre d’Istria fino alle lagune venete.

Nota 1:
Tratto da: Comunità religiose di Trieste, Civici Musei di Storia e Arte, 1978;

Fonti: ibidem; Carlo Chersi, Itinerari del Carso Triestino, 1962; Dante Cannarella, Guida del Carso triestino, 1975.

Prosecco, il territorio, il vino

Fin dalla metà del Duecento il toponimo “Prosech” o “Prosecum” ma anche nel più moderno “Proseco” si è sempre riferito a un piccolo centro confinante a nord con la signoria di Duino e verso sud-est con il territorio del Vescovado di Trieste.
Le prime citazioni del luogo provengono dall’atto di locazione per 4 vigne con un certo Romano, di professione muratore, stipulato nell’anno 1289 e rinnovato nel 1308. Da un documento del 1344 si apprese che tale Romano era figlio di un Michaelis de Prosecho, presupponendo l’esistenza delle vigne in epoca retrodatata alla metà del secolo XIII. Altri documenti del 1311 attestano l’esistenza di vigneti sulla zona barcolana in proprietà dei signori Muchor, Vidrich e Larencio Colorico tutti “de Prosecho”.
E’ dunque certo che le coltivazioni viticole fossero collocate lungo i pendii soleggiati e digradanti verso il mare, quindi al riparo dei freddi venti di bora, e soprattutto dove si trovava un terreno marnoso terreno marnoso-arenaceo favorevole alla maturazione di uve molto particolari.
Nel Trecento questo vino si chiamava “Ribuolla” o “Raibiola” e veniva coltivato anche nei pressi del centro di Trieste e poiché costituiva un’attività molto redditizia era soggetto a precisi regimi tributari dovuti a Venezia (fin dal 1202) e dopo il 1382 al duca d’Austria. L’imperatore Federico III d’Asburgo (1415 – 1493) ne pretese addirittura le migliori produzioni d’annata, ufficialmente per curare i malati.
Altrettanto entusiasta ne fu l’arciduca Massimiliano d’Austria (1459 – 15199 che proibì l’introduzione nel nostro territorio di altre qualità di uva e vitigni per evitare il rischio di contaminazioni.
Dalle quantità di orne di vino che venivano consegnate si può senz’altro presumere l’eccellenza di questo vino fornito esclusivamente dalle uve del nostro territorio.
Ma se si trattava di Ribolla, come e quando si trasformò in Prosecco?
Agli inizi del Trecento il Comune di Trieste sulla sommità della collina, a circa 500 metri dall’abitato di Prosecco e vicino al cimitero di Contuel, costruì un castello nominato Castrum montis Collani o Moncholano destinandolo al controllo delle strade e delle aree produttive.
Per la posizione strategica del luogo, collocato alla confluenza della “via publica romana” con la strada che dal valico di Contovello portava a Trieste, sia i forestieri che i confinanti duinesi, ancora soggetti a un regime feudale, iniziarono ad acquistare terreni nella zona allargando sempre di più le coltivazioni del pregiato vino.
Considerata l’attività di presidio, il castello era di dimensioni piuttosto ridotte e già alla fine del Trecento venne definito Torre di Moncholano.
Con l’atto di Dedizione all’Austria del 1382, a Trieste subentrarono i delegati e amministratori austriaci e dopo pochissimo tempo sulle note-spese per il castello e la sua guarnigione fu apposto il nome di Prossek, evidentemente di più facile fonetica e scrittura.
Nel luglio del 1413 fu deciso di costruire un nuovo centro abitato vicino alla Torre chiamato prima “Villa San Gerolamo” per la vicinanza con l’omonima chiesa, e successivamente Contovello. Alla fine del Quattrocento il toponimo Moncholano scomparve dai documenti divenendo Castello di Prosecco.

Agli inizi del Cinquecento, quando si diffuse progressivamente la stampa con la riscoperta dei grandi classici, entrò negli onori delle cronache cittadine un illustre personaggio, Pietro Bonomo, (145 – 1546) segretario e consigliere di 3 sovrani austriaci: Federico III, Massimiliano I e Ferdinando I.

Poeta e uomo di grande cultura Bonomo studia la Naturalis Historia del prolifico Plinio il Vecchio (23 – 79 d.c.) interessandosi particolarmente, e non a caso, alla storia del leggendario vino pucino amatissimo dai romani e molto apprezzato da Livia, moglie del potente imperatore Ottaviano Augusto, che si assicurò così una lunga oltreché piacevole vita (Nota 1)
La storia fu riportata poi dal famoso medico Galeno (129 – 216 d.c.) che contribuì a diffondere la fama terapeutica del vino Pucino proseguita poi anche nei secoli successivi.

I Bonomo erano infatti proprietari di ampi vigneti vicino al Castello di Prosecco e il fatto che Plinio si riferisse ai vigneti del Castrum Pucinum intorno all’abitato di Duino e che la prelibata bevanda derivasse da uve rosse (Nota 2) divenne irrilevante davanti alla possibilità di compiere un’autentica operazione di marketing ante-litteram proclamando che fosse proprio il dolce e delicato Prosecco l’erede dello storico Pucino.
Tale asserzione fu incredibilmente condivisa da quasi tutti gli eruditi dell’epoca e il brand Prosecco iniziò la sua inarrestabile fortuna.
Pietro Bonomo dedicò perfino dei versi in onore di questo vino che a sua volta venne menzionato anche da altri compiacenti letterati e in seguito addirittura esaltato dal vescovo umanista Andrea Rapicio nel suo poema Histria del 1556. (nota 3)
Divenuto vescovo di Trieste nel 1502, Bonomo distribuì generosamente il suo vino alla corte di Vienna tentando pure, ma senza fortuna, di farsi concedere la custodia del castello di Prosecco che invece nel 1524 l’arciduca Ferdinando concesse con tanto di solenne cerimonia al suo segretario di Trieste Pietro Giuliani.
Nel documento apparve la scritta: “Chastelo montis Pucini, vulgariter nuncupato turri Porsechi sive Contovelli” rivendicando così l’antica discendenza da quel famoso Pucino che dalla metà del Cinquecento venne identificato assieme a quella del Prosecco (denominato Proseck o Prosecho) come identificazione geografica comprendente assieme la zona sui declivi costieri anche quella di Grugnano.
Ancora a metà dei Seicento il vescovo di Cittanova Giacomo Filippo Tommasini nei Commentari storico-geografici della provincia dell’Istria attestava che l’antico vino coltivato nelle vigne tra Giovanni da Duino, Santacroce e Grignano era identificato proprio con il pregiato Prosecco.
Verso la fine del secolo XVII il ricercatore- scrittore storico Johann Weichard Valvasor (1641 – 1693) stabilì che il Prossegker-vein o vino di Prosecco si identificasse con la Ribolla, Reinfall in tedesco, Rifolium nelle antiche carte o anche Raywol in scritta arcaica.

Dopo il Settecento per garantire la qualità del Prosecco fu fissata la data delle vendemmie al 18 ottobre per far maturare al punto giusto le pregiate uve la cui produzione continuò sui pendii marnoso-arenacei sotto Contovello e in parte sul tratto costiero del territorio comunale mentre il vecchio castello (o torre) di Moncholano, ormai privo di una funzione difensiva e mai trasformato in residenza signorile, venne abbandonato andando lentamente in rovina.

Con la proclamazione del Portofranco del 1719 e la progressiva espansione delle aree urbane con i diversi interessi di Trieste, i vitigni che ancora esistevano intorno al centro abitato poco a poco scomparvero. Pur continuando la produzione del prosecco essenzialmente sui pendii marnoso-arenacei sotto Contovello e in parte sul tratto costiero del territorio comunale, gli interessi di Trieste vennero sempre più convogliati sui traffici marittimi.
Inoltre come spesso accade, la fortuna di questo vino dovette fare i conti con le  invidie  e soprattutto con le inevitabili adulterazioni. Così il ricercato Prosecco, definito dal Mattioli “lucido, color dell’oro, odorifero e di gusto graditissimo” interessò gli imprenditori di altre terre confinarie come il nobile Ferdinando Giuseppe d’Attems che importò alcuni vitigni a Lucinico e Podgora, ottenendo un vino giovane, dal sapore più dolce e delicato ben presto molto apprezzato.

La potente Venezia intanto, per incrementare le importazioni e alzare i prezzi, pretese dei trattamenti per stabilizzare il vino durante i trasporti iniziando di fatto una serie di inarrestabili contaminazioni.

Verso la metà del Settecento in Veneto si verificarono degli eventi molto simili a quelli che costituirono la fortuna del vescovo Pietro Bonomo, ossia un nobile canonico di nome Jacopo Ghellini produsse un vino di qualità che venne esaltato dal poeta Aureliano Acanti con versi molto accattivanti:
Ed or ora immolarmi voglio il becco con quel melaromatico Prosecco. Di Monteberico questo perfetto Prosecco eletto ci dà lo splendido Nostro Canonico” e se pur il vino fosse dichiarato “un po’ fosco e torbido” fu definito “un balsamo puro e sano, sguaiato, impazzato che non potrebbe essere cambiato con l’Ambrosia degli Dei”.
Come dunque resistere a questo vino addolcito con il miele e con un’ accattivante quanto sostenuta gradazione alcolica? Infatti dopo il 1770 fu importato sulle colline di Conegliano dando inizio alle grandi coltivazioni viticole.

Il Prosecco diventa veneto

Un ulteriore evoluzione dell’ormai noto vino fu apportata a Conegliano da Antonio Carpenè (1838 – 1902) fondatore della Società enologica e del Consorzio agrario di Treviso. Con la riduzione del contenuto alcolico, un’ elaborazione chimica per renderlo più secco, e una consistente produzione, il Prosecco divenne un ambito prodotto da tavola che definito “ambrato, asciutto e leggermente aromatico” e con l’etichetta “Prosecco 1870” ottenne un lusinghiero successo all’Esposizione internazionale di Vienna.
Brevettato il nuovo metodo vinicolo, nel 1876 Carpenè fondò con il socio Angelo Malvolti la floridissima azienda dall’inconfondibile brand presentato come “PROSECCO Vino pregiato Amabile dei Colli di Conegliano”.
Il destino della viticoltura triestina fu così segnato e con l’ascesa dei vini veneti la produzione del Prosecco triestino si ridusse sempre di più fino a uscire di scena.

Dopo un lungo periodo di storia e le alterne vicende che mutarono il nostro territorio, fu ripreso un certo interesse verso lo storico vino prodotto nel Consorzio fondato a Conegliano che con gli anni Sessanta acquisì il titolo di Denominazione Controllata (DOC) estendendosi poi ad altre province del Veneto e del Friuli Venezia Giulia.

Con gli anni Settanta il Prosecco venne inserito nell’elenco dei “Vini da tavola a Indicazione Geografica” (IGT) con un progressivo incremento delle produzioni.
Il successo per il vino con le bollicine, riproposto per un certo periodo addirittura in lattine, fu riprodotto persino nel lontano Brasile con la dicitura “Prosecco espumante natural brut 2007” presentato entusiasticamente ai Vinitaly di Verona nel 2008. E a questo punto esplose il “casus belli

La guerra del Prosecco
L’informazione inizia così a interessarsi della questione in merito al Prosecco, anche perché era entrato ormai nell’interesse delle Regioni, in primis ovviamente quella del Veneto con a capo Luca Zaia, nel frattempo nominato Ministro dell’Agricoltura.
Dopo il caso del Prosecco brasiliano, l’imprenditore vicentino Gianni Zonin rilasciò un’intervista sul Correre Vinicolo (nota 4) riportata poi su tutti i media e che sollevò la questione della salvaguardia del celebre brand con la sua ricollocazione delle sue origini, cioè:
In quel territorio vicino Prosecco dove era nato e dove era prodotto fin dai tempi della Roma antica”. Quindi il nome del vino doveva essere identificato con la zona d’origine ridefinendo i confini della DOC”. 

Così, l’efficace sinergia tra i Ministero, la Regione Veneto, Friuli Venezia Giulia, i Consorzi di categoria e di tutela insieme alle Amministrazioni locali nel luglio del 2009 ha riordinato la classificazioni della Denominazione Origine Controllata e ha stabilito che nell’etichetta poteva essere aggiunto il nome di Trieste e di Treviso con il riconoscimento della DOCG (origine garantita) per la specificazione “Superiore di Cartizze”.
Un insperato successo per la nostra città che nel 2011 ha visto cancellata la definizione del Prosecco come vitigno anziché come vino derivato esclusivamente da uve “glera” sulle zone costiere triestine e già identificate sulle documentazioni del Cinquecento.

Insomma una bella occasione per Trieste: una leggenda, un mito da assecondare e il rilancio di un brand prestigioso con il nome della nostra città.
E allora Prosit Trieste!

NOTE:

(1) Carnorum haec regio iunctaque lapudum, amnis Timavus, castellum nobile vino Pucinum, Tergestinus sinus, colonia Tergeste, XXXIII ad Aquileia;

(2) “Nasce nel seno del mare Adriatico non lontano dalla sorgente del Timavo, su un colle sassoso; il soffio del mare ne cuoce poche anfore, medicamento che è superiore ad ogni altro. […] La vite del Pucino è di colore nerissimo. I vini de Pucino cuociono nel sasso”.

(3) “Te veneriamo o padre Pucino, che a Livia serbasti tanto a lungo una volta i suoi anni felici di vita / Questo è merito tuo, o Pucino, che abiti i colli aridi e l’alte rupi scoscese e i lidi giapidi / e ch’ogni altro frutto sorpassi in valore ed in fama

(4) Il Corriere vinicolo, anno 81, n. 14 del 7 aprile 2008;

FONTI:

Fulvio Colombo, Prosecco, patrimonio del Nordest, luglio editore, Trieste, 2014;
Dante Canarella, Guida del Carso Triestino, Edizioni Svevo, Trieste, 1975;
Carlo Chersi, Itinerari del Carso Triestino, Stab. Tipografico Nazionale, Trieste, 1962;

Le ricerche del Timavo sotterraneo

La mancanza d’acqua che periodicamente si verificava a Trieste nel 19esimo secolo, nell’estate del 1828, dopo più di un anno di siccità continua, divenne gravissima.
Le fontane pubbliche furono razionate e a parte il modesto approvvigionamento dalle sorgenti di Zaule, l’acqua doveva essere attinta dall’Isonzo e portata in città con le botti. Un’apposita Commissione iniziò a esaminare le polle esistenti sul del territorio progettando la costruzione di un acquedotto ma alla fine dell’anno il controllore di cassa del Comune si defilò con tutti i denari provocando una disastrosa sospensione dei lavori programmati, scavi compresi.
I provvedimenti più urgenti ed eseguiti con mezzi limitati e provvisori ebbero degli effetti molto scarsi e quando si verificò l’estenuante siccità del 1834 che si protrasse fino all’autunno del 1835, il rifornimento idrico della città divenne improrogabile.
Fu interpellato allora l’apprezzato perito di Milano ing. Anastasio Calvi che dopo diversi sopralluoghi, studi e misurazioni, ritenne fattibile riattivare gli antichi acquedotti della val Rosandra (costruiti in epoca romana nelle zone di Dolina) e allacciarli a nuove tubature, senza però escludere la possibilità di creare dei condotti alimentati dal Reka (com’era chiamato il Timavo) prima del suo inabissamento nella voragine di San Canziano.
Considerata la distanza dalla città e gli altissimi costi di entrambi i progetti, l’ingegnere minerario Anton Friedrich Lindner iniziò una sistematica perlustrazione delle colline sovrastanti Trieste ascoltando anche i paesani in merito ai forti sibili da tempo avvertiti in determinate zone e sicuramente provocati dalla rimonta di acque nascoste nelle profondità carsiche.
Nell’aprile 1839 Lindner presentò al Governo del Litorale le mappe del presunto corso di un torrente sotterraneo con la proposta di intercettarlo con i necessari scavi per poi convogliarne le acque in una serie di gallerie. Gli amministratori pubblici però non intesero vincolarsi in questioni dai risvolti giuridici poco chiari circa la proprietà delle acque stesse e prima del ritrovamento effettivo del misterioso fiume.
Durante gli improvvisi diluvi che si verificarono all’inizio di novembre del 1840 il fenomeno delle violentissime correnti d’aria sprigionate dalle fessure in una dolina fra Orlek e Trebiciano dimostrarono senza più dubbi la presenza di un torrente in piena. L’ing Frederick Lindner assoldò allora dei minatori per allargare il pertugio da cui era fuoriuscito il più potente e sibilante getto d’aria e cercare il misterioso fiume che scorreva sotto il carso.
La disostruzione dei passaggi e la scoperta di una successione di pozzi sempre più profondi fu arditissima e non priva di imprevisti.
Procedendo con inaudite difficoltà fra mine e vigorosi colpi di mazza su cunicoli ad assetto verticale, i lavoranti avvistarono sabbie, detriti vegetali e perfino la pala di un mulino incastrata fra le rocce. A 220 metri di profondità giunsero sulla sommità di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi. Dopo altre fessure da forzare e ulteriori scavi in una “finestra” in parete che attraeva le fiamme delle fiaccole, finalmente venne raggiunta una strettoia dove i frammenti di roccia si sentivano cadere a grande profondità.
Allargato l’ultimo passaggio, il 6 aprile 1841 a cinque mesi dall’inizio dei lavori, i minatori scesero nel dodicesimo pozzo affacciato a una grandiosa caverna dove furono avvertiti i mormorii di un’ immensa massa d’acqua.
Fu così provata l’esistenza di un fiume che scorreva negli abissi carsici proprio come Lindner aveva sempre sostenuto.
Con l’allargamento dei passaggi più angusti, la costruzione di impalcature e robuste scale di discesa si giunse però alla conclusione che quel fiume sotterraneo scoperto con tanto entusiasmo era talmente profondo da rendere troppo elevati i costi degli allacciamenti idrici. Fu infatti calcolato che il precipizio aveva una profondità complessiva di 322,318 metri, con il livello medio dell’acqua a 19 metri sul livello del mare. Inoltre le innumerevoli ricerche di Lindner effettuate in condizioni estreme e senza neppure ottenere il riconoscimento dell’autorità comunale, minarono la sua salute e lo condussero alla morte per tubercolosi a soli 40 anni il 19 settembre1841.
L’abisso di Trebiciano rimase così in stato di abbandono fino al 1849, anno in cui fu ottenuta la reggenza municipale di Trieste.
Sotto la direzione di un “Comitato alle Pubbliche costruzioni e Lavori idraulici” l’ispettore dei civici pompieri Giuseppe Sigon con una serie di progressive esplorazioni nella grotta di Trebiciano riuscì a raggiungere il sifone di entrata del canyon sotterraneo e a valutare in ben 758.000 metri cubi la sua portata nelle 24 ore e a 410.000 mq/h. durante i periodi di massima siccità, quantità dieci volte superiore a quella giudicata necessaria per l’acquedotto di Trieste. Per l’enorme volume delle acque si dedusse che altri fiumi potessero ingrossare quello di Trebiciano che con altre ramificazioni confluisse poi allo sbocco di San Giovanni di Duino.
Mentre in Comune venivano esaminati i lavori di scavo per costruire gallerie e tubature, un nuovo fatto ribaltò ancora i progetti. Per rifornire i treni a vapore della futura Ferrovia Meridionale, fu costruito in breve tempo un acquedotto che convogliava le non molto abbondanti sorgenti costiere di Aurisina mentre una conduttura parallela avrebbe portato l’eccedenza d’acqua in città. Ma in una Trieste in continuo sviluppo l’erogazione così ottenuta, peraltro con altissimi costi, divenne ben presto del tutto insufficiente. Le risorgive avevano inoltre dei flussi incostanti e spesso commisti ad acqua salmastra e con l’ennesima siccità verificatasi nel 1868, si prosciugarono del tutto.
Intanto però molti studiosi continuavano i progetti estrattivi dal fiume sotto le grotte di Trebiciano.
Nel 1895 l’ingegnere svizzero Polley, ritenendo fattibile l’approvvigionamento idrico di quel torrente sotterraneo, decise di acquistare la grotta di Trebiciano affidando al giovane Eugenio Boegan dei nuovi rilievi. Dopo anni di misurazioni e studi, appena nel 1910 l’ing. Polley presentò i progetti per azzardatissime gallerie con pendenze dello 0,5 per mille dotate di pompe elettriche azionate da turbine per intercettare le acque a 85 metri di quota. Propose poi di allungare le gallerie per intercettare anche le acque delle grotte di San Canziano e perfino la costruzione di un’elettrovia per il trasporto di merci e persone. Tutte le elaboratissime proposte del Polley terminarono nel 1912 con la cessione della grotta di Trebiciano al Comune di Trieste.
Nell’anno successivo, dopo alcuni riadattamenti e le periodiche misurazioni delle acque, si riuscì a provare con un colorante di cloruro di litio, che le acque del Reka inabissate a San Canziano continuavano il loro segreto percorso fino a congiungersi con quelle sotto la caverna di Trebiciano.
Durante le operazioni belliche della prima guerra mondiale le briglie di contenimento alle risorgive del Timavo furono distrutte per impedire di incrementare la portata dell’acquedotto di Aurisina, danneggiato anch’esso dalle artiglierie italiane e le misurazioni nella grotta di Trebiciano divennero saltuarie.
Nel 1927 fu escogitato un nuovo tentativo di marcatura delle acque del Reka-Timavo-risorgive del Timavo: un certo numero di anguille (con diverse incisioni) furono immesse nel corso esterno del fiume nella pianura di Vreme, altre nella voragine di San Canziano e un terzo gruppo nel torrente inabissato a Trebiciano. La prima anguilla giunse alle risorgive di San Giovanni di Duino dopo 40 giorni, alcune delle restanti entro un anno.
Fu così finalmente raggiunta la certezza che le zampillanti acque provenienti dal Monte Nevoso dopo un tranquillo percorso in valle, la loro scomparsa e il tortuoso tragitto nelle profondità delle terre carsiche, sgorgavano proprio nelle risorgive di San Giovanni di Duino per poi sfociare nell’Adriatico.
Ma ancora nel 1953 e 1977 si tentava di carpire il segreto del sifone di entrata dell’arcano Timavo nelle vicine grotte di Trebiciano: l’immenso bacino di tutti i vasi comunicanti possiede delle dinamiche ancora sconosciute dominate da forze che sfuggono ai più sofisticati studi idrologici e idrodinamici.

Fonte: Mario Galli, “La ricerca del Timavo sotterraneo“, Edizioni del Museo Civico di Storia naturale, 2000, Trieste

Googlemania

Non so come la pensate voi ma per me Google è una sorta di The Thing, quel terrificante film di Carpenter dove La Cosa era una massa generata da un alieno venuto da Altrimondi e scomposto da più parti in relazione tra loro, proprio come gli astrusi algoritmi di Google.
Che l’invenzione del computer sia di portata planetaria, che dico, intracosmica, non si discute neppure: ha rivoluzionato il mondo del lavoro, della comunicazione, del sapere, della ricerca, dei rapporti intrapersonali sia diretti che trasversali e a volte anche piacevolmente sorprendenti.
È entrato negli uffici, nelle aziende, nelle Istituzioni rendendo le nostre vite più informate, attente, partecipi e in definitiva attive.
Qualsiasi notizia o curiosità è soddisfatta in tempi rapidissimi, qualunque indagine di fatti e misfatti viene rilevata in tempo reale con osservazioni, commenti e relativo seguito. Non c’è argomento che non sia ripreso da vari link con rimandi e ulteriori approfondimenti. Insomma un fantastico merry-go-round che apre la mente e ci porta ovunque.
Quando ho iniziato a navigare mi sentivo attratta come Alice nel paese delle meraviglie anche se procedevo cautamente per paura di ritrovarmi in siti oscuri. Ma del resto cosa potevo temere? I cookie? Le SPAM sulla posta elettronica? Ma quando mai! I messaggi pubblicitari sono i companatici delle nostre vite e io li guardo pure: sono veloci, belli da vedere e a volte utili. Allora dove starebbe il problema?
Ecco, non so voi, ma io ne ho avuti, e proprio quando meno me l’aspettavo.
Filosoficamente pensando potrei ammettere che è stata anche colpa mia, per un surplus di amore verso Trieste manifestato in modo corretto ma nel posto sbagliato. Insomma volevo uscire dai contesti strettamente “nostrani” per trovare degli spazi dove Trieste insomma ci fosse e un sito di storia abbinato a una nota testata giornalistica me ne dava l’opportunità. Niente di eccessivamente impegnativo: notizie, date, vecchie foto, fatti ignorati o dimenticati, le nostre questioni irrisolte, cose così, mantenendo comunque un low-coast di massima sintesi.
Scusate se ancora mi aggrappo alla filosofia per farmene una ragione, ma mi viene in mente un concetto di Zarathustra espresso nelle meditazioni nell’oscura caverna:
Nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero”. Infatti non lo era.
Non solo a nessuno fregava niente di Trieste e meno che mai del mio lavoro elargito con tanto meticoloso zelo, ma la perseverante costanza, rea di qualche firma di troppo, è stata “premiata” da qualche maghetto del Web con una rapidissima rastrellata degli articoli più significativi e ripescandomi come trailer di costosissimi quanto insaziabili brand, li ha shakerati con altre frammentari notizie contenute nel sito ottenendo una serie di blog titolati, si fa per dire, con lettere e numeri alla rinfusa, tipo Vbrwsdtztw1069 con una sfilza di algoritmi che neanche stavano nelle strisce di Explorer .
Curiosa come sono li ho aperti incappando in altrettanti collages di notizie caricate con il metodo copia-incolla dall’effetto surreale e in più spesso affiancate da un pupazzetto che rideva sarcastico.
Un tecnico informatico da me interpellato ha ritenuto che quei siti-cash fossero stati creati da qualche smanettone disoccupato che, ripetendo decine e decine di volte il nome del marchio, si sarebbe guadagnato un tot dalle case produttrici, sponsor occulti dello storico blog.
Sforzandomi di accettare questo fatto come “fisiologico” non ci avevo più pensato e tralasciai ogni successivo controllo sul mio insignificante nome.
Invece The Thing si era riprodotto ed espanso in una miriade di blog farneticanti che riproponevano stralci dei miei poveri articoli stritolati dai nomi delle “prestigiose”
firme usando la mia come “membro” di qualche misteriosissimo sito.
Quando me ne sono accorta il danno era ormai fatto, ma volendo approfondire la spiacevole questione, ho fatto delle ricerche sugli astrusi algoritmi dei blog legati a quel progetto editoriale e sondando i vari files l’arcano enigma si è svelato in tutto il suo squallore: a generare gli assurdi link non erano affatto stati navigatori casuali ma gli stessi programmatori del sistema che invitavano alla partecipazione.
Così, raccolti come Rossella O Hara i brandelli del mio orgoglio, ho azionato il tasto delete pensando, anch’io per una volta, che Trieste non la calcola proprio nessuno.
Insomma, adesso mi fido di più quando i mega-siti del Web hanno vagonate di pubblicità, lecito e irrinunciabile modo per coprire le spese di gestione senza sfruttare le collaborazioni gratis et amoris dei volontari, non vi pare?

Googletissima-mente
Quanto a Google, il potente motore di ricerca, è divenuto un colossale contenitore dove qualsiasi scemenza o fiuto di business possono raggiungere delle pool position.
Cambiando continuamente i termini di ricerca aggiungono servizi ambigui o comunque poco chiari che fanno rimbalzare dagli archivi vecchie notizie, così, giusto per farti impazzire.
Anni fa ebbi la sciagurata idea di cercare su Internet un fisioterapista ma avendo cretinamente firmato la richiesta mi ritrovai con menischi, metacarpi, ilei e omeri tutti rotti, e ancora sciatalgie, artrosi e addirittura artriti reumatoidi, mammamia, da farci le corna, tiè! Ma tu guarda…
Se esponi il problema ai tipi di Google ti ringraziano della segnalazione e ti offrono subito dei nuovi antivirus nella posta elettronica, a pagamento si capisce, intanto i link rimangono inchiodati per mesi. Ma poi mica spariscono davvero… Appena un altro navigatore incappa in quel sito, tadàààà!!! Riappare il tuo nome e tutte le tue ossa a pezzi.
Da autorevoli fonti si è saputo che nel solo mese di luglio 2012 sono state chieste 6 milioni di rimozioni per contenuti sgraditi, quindi il problema esiste, eccome!
Recentemente è stato infatti pubblicato un libro dalla Hoepli intitolato La tua reputazione su Google e i Social Media con dei buoni consigli per scantonare i tranelli. E sapete cosa consigliano? Di pubblicare contenuti positivi e di successo così nel motore di ricerca saliranno i nuovi link e scenderanno quelli sgraditi, capito?
Ma almeno si può constatare che anche in Internet il tempo ha il suo corso.

Dalla SISAL al TOTIP

Molti forse non lo sanno ma la creazione del Totocalcio è dovuta alla geniale idea del nostro concittadino Massimo della Pergola, nato a Trieste nel 1912, corrispondente a Trieste della “Gazzetta dello sport” e grande tifoso di calcio.
Con l’entrata in vigore delle leggi razziali del 1938, il Della Pergola, di origine ebraica, fu costretto a lasciare l’impiego al giornale rifugiandosi con moglie e figlio in un campo di lavoro svizzero. Dotato di grande inventiva, ebbe così il tempo di escogitare un sistema che gli permettesse di guadagnare sfruttando la sua prediletta passione.
Rientrato in patria nel 1945, pur riprendendo a occuparsi cronache sportive, propose il suo progetto al CONI. Dopo un anno di trattative il 17 gennaio 1946 riuscirà a istituire la SISAL basata su un sistema di scommesse sulle partite giocate: un “1” per la vittoria della squadra ospitante, una “X” per il pareggio e un “2” per la vincita della squadra esterna. Chi avesse pronosticato tutti i 12 risultati avrebbe vinto palate di soldi.
Il debutto sarà deludente: verranno stampate 5 milioni di schedine (a 30 lire ciascuna) e acquistate solamente 34.000.
Ma il 5 maggio un certo signor Emilio Blasetti azzeccherà un “12” incassando ben 463.000 lire, astronomica cifra per l’epoca.

Prima schedina vincente della Sisal (Collezione privata Gasperutti)

Diffusasi la notizia e divenuti popolarissimi i pronostici per le partite di calcio, la vendita delle schedine avrà una rapida impennata.
Domenica dopo domenica le puntate aumenteranno con una tale velocità che nel 1948 il Governo Italiano con altrettanto tempismo sancirà la nazionalizzazione del concorso ribattezzato Totocalcio e incamerando come Monopolio di Stato il gettito delle puntate sulle squadre in gioco.

Dopo la colossale fregatura il Della Pergola avvierà un estenuante battaglia legale per far valere i suoi diritti e un meritato indennizzo. Avute tutte le ragioni sarà liquidato a Roma con un assegno non solo modesto ma di cui dovrà anche rendere conto a due zelanti ispettori del fisco che attenderanno il suo arrivo alla stazione di Milano.
Mazziato e deluso il della Pergola abbandonerà le mire sul calcio ma non demordendo affatto dai sogni di gloria, inizierà ad applicare i suoi sistemi sulle corse dei cavalli assieme all’amico ed ex-collega Giorgio Jegher.
Il 30 maggio 1948, a pochi mesi dall’esordio del Totocalcio, verrà così diffusa la prima schedina del Totip con l’indicazione di 6 corse di cavalli suddivisi in gruppi contraddistinti dai simboli 1, X e 2. Saranno giocate 114.000 colonne di puntate e con l’immediata vincita di ben un milione e mezzo di due scommettitori di Milano e Napoli che azzeccheranno i 12 segni giusti (ma in seguito saranno anche premiati i “10” e gli “11”) il successo sarà planetario e le schedine del Totip saranno distribuite nelle ricevitorie di tutto il territorio nazionale.
Da allora per tentare la fortuna inizierà a circolare il famoso consiglio di “darsi all’ippica”.
Il Della Pergola sarà però costretto ad accontentarsi dell’1% dei ricavi per il “suggerimento formale” della sua originaria invenzione.
E dopo aver arricchito a dismisura lo sport italiano e le casse dello Stato il nostro genialissimo concittadino con ineffabile humor dichiarerà: “Non ho mai giocato una schedina in vita mia”.

(Notizie tratte da: Trieste 1900-1999 Cent’anni di storia, VI volume, Publisport Srl, Trieste)

Dicono di noi

“Trieste: una delle città più belle del mondo, elegante, colta, crocevia tra tre mondi – quello latino, quello slavo, quello tedesco – il punto più a Nord del Mediterraneo e il punto più a Sud della Mitteleuropa. Trieste che ha dato all’Italia Saba e Svevo, Strehler e Magris, Dorfles e Kezich, oltre a tanti altri scrittori, artisti, maestri. Eppure per andare da Venezia a Trieste ci sono solo treni regionali. Non si può fare neppure il biglietto elettronico. Il che sarebbe grave anche se Trieste fosse ancora il confine oltre cui c’era la cortina di ferro e il mondo comunista.

Oggi Trieste è tornata il centro d’Europa. Ma l’Italia non se n’è accorta. Cosa si aspetta a rimediare?”

(Aldo Cazzullo, “Sette” Corriere della sera, 26/4/2013)

“Ci sono due posti che mi emozionano davvero: il retro di un palcoscenico e Trieste” confida il giornalista-scrittore Giorgio Dell’Arti a “Il Piccolo”.

Il padre Consalvo, nato a Brindisi da una famiglia leccese trasferitasi a Pola, si sposò con la polesana Carla Roinich. Arrivati gli anni difficili, la coppia decise di tornare in Italia pur consapevole di dover affrontare tempi durissimi.

Attori-girovaghi sempre in viaggio alla ricerca di scritture in ruoli teatrali o cinematografici e vivendo tra una pensione e l’altra, nel corso del primo anno di scuola del figlio Giorgio furono costretti a iscriverlo in 5 diverse città con effetti disastrosi sul suo profitto. Decisero così di affidarlo allo zio Alfredo che dirigeva a Trieste l’Unione militare di via Mazzini, un grande negozio di abbigliamento che serviva l’esercito nelle sedi di tutta l’Italia.

Ospitato per tre anni nel piccolo appartamento soprastante, Giorgio riuscì così a frequentare continuativamente tre anni alla scuola elementare Felice Venezian.

“Considero Trieste la città della mia infanzia” ricorda ancora dell’Arti. “Ci sono tornato dopo un sacco di tempo e ho provato un’emozione grandissima.”

(Giorgio Dell’Arti, Alessandro Mezzena Lona, Il Piccolo, 15/11/2008)

 

“Il nostro Carso ci appartiene come noi gli apparteniamo. E’ terra in cui la civiltà specchia i suoi miti. Bellezza schiva e scontrosa, guadagnata palmo su palmo, schiva ed essenziale, aspra e tenace: il Carso esalta la lotta e sa donare brevi attimi intensi di maestosa serenità.
E’ il microcosmo ove i conflitti si lasciano sublimare da una legge che l’umana precorre e vuole informare. Patria di eroi, martiri, poeti. Bensì di sacrifici duri, di esasperati confronti, d’inesausti richiami alla realtà: il lavoro vi trova la sua dignità antica, che si ripete di stagione in stagione in un’epica coscienza del dovere quotidiano, da compiere con paziente umiltà.
Questo è il nostro Carso. Dobbiamo difenderlo come un bene prezioso e vigilare sulla sua integrità. Esso è il nostro passato e il nostro futuro. Perché è il solo bene che possediamo.”
(Dante Cannarella, Guida del Carso triestino, Ed. Svevo, Trieste, 1975)

“Il futuro di Trieste transita in effetti sulle banchine della sua passata gloria, e parlo dei traffici marittimi e del recupero di Porto Vecchio. Ma ci sarà un baluginìo di razionalità se Trieste è l’unica e l’ultima città europea che non ha ancora saputo dare valore e centralità alle sue strutture portuali ottocentesche? Sarà sempre per un destino cinico e baro oppure dipende dalla follia di chi ha osteggiato il trasloco delle funzioni portuali là dove esse sono compatibili con la moderna logistica, liberando i meravigliosi hangar concepiti in Porto Vecchio?
Il conservatorismo fine a se stesso, che a Trieste salda destra e sinistra, ha sinora frenato il corso di una città che disporrebbe di un patrimonio formidabile.
In una fase storica segnata da drammatiche discontinuità a livello planetario, in un mondo dove non esistono più confini e le gerarchie geo-politiche, economiche e culturali vengono stravolte in un batter di ciglia, non scommetterei affatto sulla scelta della conservazione per la conservazione.
Potremmo trovarci seduti su un cumulo di macerie. Vale per l’Italia, vale per Trieste.”
(Paolo Possamai, direttore de Il Piccolo)

“Dove dunque andrà la città dei confini? Il finale pare già tratteggiato. Bella ma vecchia, con il mare che l’abbraccia tutta, incantata dal fascino della decadenza, Trieste, nella sua orgogliosa diversità, ha inconsciamente anticipato la trasformazione verso cui tutto il Paese si orienta.
Politica troppo debole, non legittimata, ma sempre pronta a controllare.
Economia troppo pubblica e orientata dalla politica stessa: una miscela micidiale a favore del mantenimento dell’esistente, il consolidamento delle posizioni, un sistema chiuso.
Una vecchiaia dorata, da godere finché dura.”
(Beniamino Pagliaro, Trieste la bella addormentata, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2011)

“Ci sono città che si svelano quasi subito al visitatore. Non è il caso di Trieste. Questa città resta, anche al secondo colpo d’occhio, piena di segreti. E’ una città ricca di fascino, di stimoli, ma non invadente. Chi vuole, deve scoprirla da sé.
Per chi si appresta dunque a conoscerla, Trieste appare assai più grande di quel che il numero dei suoi abitanti lascia supporre. Le ampie strade a quattro corsie, i numerosi e bellissimi palazzi, la grandiosa piazza dell’Unità, la vastità del vecchio e nuovo porto, gli invitanti e affascinanti caffè, le rinomate imprese: ci sono moltissime cose che testimoniano della grandezza, della grandiosità triestina.
[…] Si dice che a Trieste si mischiano le culture. A dire il vero non so se si mischiano veramente. Ho più l’impressione che convivano pacificamente, l’una accanto all’altra. A darne testimonianza sono le quattro religioni con i loro imponenti luoghi di culto, così come le minoranze nazionali e culturali. Ci sono città che respingono o emarginano lo straniero. Trieste è una città che li accoglie.
[…] Quello che mi affascina di questa città è il coesistere, fianco a fianco del porto e delle scienze, del commercio e della letteratura, delle religioni e delle lingue. Una coabitazione particolarmente intrigante è quella della città moderna e pulsante con il Porto Vecchio, che ricorda una città dei morti.
(Karl-Heinz Feisenmeier, giornalista del Badische Zeiung, ospite a Trieste)

“Trieste ha una forte vocazione turistica, destinata a consolidarsi. Infatti siamo in grado di attirare un numero crescente di visitatori grazie alla validità della nostra offerta culturale, congressuale e ambientale. In quest’ultimo caso mi riferisco sia al mare sia al Carso.
L’entrata nell’Unione Europea mette la città al centro della scena, ne fa il punto di riferimento di un’area molto ampia. Con ricadute positive in termini di export, esportazione di know how e delocalizzazione delle attività produttive.
Certo, tutto dipenderà anche da alcune scelte strategiche, a partire dalla riconversione del Porto Vecchio e dalla prosecuzione dell’alta velocità fino Lubiana e Budapest.”
(Riccardo Illy, Tuttoturismo, Ed. Domus, marzo 2005)

“L’obiettivo è quello di realizzare una gigantesca promenade che occupi tutte le rive fino al Porto Vecchio compreso. A fine 2006 cambierà il modo di vivere dei triestini, con l’apertura di un tunnel di 4 chilometri che collegherà il cuore della città all’autostrada. Inoltre stiamo rivoluzionando la circolazione sulle rive.”
(Roberto di Piazza, Tuttoturismo, Ed. Domus, marzo 2005)

“Trieste è una città tranquilla e civile, dove vengono in buona parte osservati valori come l’onestà e il rispetto delle leggi. Però i triestini hanno un difetto: amano trastullarsi con il passato. Rimpiangono il grande porto che fu, l’epoca in cui arrivavano i transatlantici. E non hanno capito che, nel frattempo, la loro città è diventata una grande capitale della scienza. L’industria più importante qui è proprio questa: insieme all’università dà lavoro a 5 mila persone.”
(Margherita Hack, Tuttoturismo, Ed. Domus, marzo 2005)

Il sentiero Rilke

 

Foto Mario Amstici

Fino agli anni Settanta del secolo scorso il sentiero che si snodava sul ciglione carsico raggiungendo il castello dei Torre e Tasso era definito Passeggiata Duinese ed era meta di pochi coraggiosi escursionisti.
Con l’installazione del campeggio Marepineta nel 1973 e il conseguente aumento di gitanti sorsero i problemi di viabilità e sicurezza per le zone più esposte ma solo nel 1985 l’Amministrazione Provinciale di Trieste deliberò la ristrutturazione di tutto il sentiero allargando i margini e dotandoli di adeguate protezioni.
Nell’aprile 1987 la bella passeggiata venne inaugurata con il nome di Sentiero Rilke in omaggio al poeta boemo che visse lunghi mesi al castello dedicando le sue mitiche Elegie duinesi alla principessa Marie Thurn und Taxis.
La panoramica promenade inizia dalla palazzina dell’Azienda di Soggiorno e Turismo di Sistiana, posta sullo svincolo che della statale 14 conduce alla baia, e costeggiando le falesie per 1700 metri termina in un fitto bosco con la recinzione che delimita il parco del Castello.
Superata la zona adibita a campeggio e una curvatura ad angolo retto, si presenta un esteso campo solcato coperto da piccole macchie vegetative che in autunno si trasformano in un quadro carsico di grande bellezza: gli intensi rossi del sommacco tra il candore delle pietre carsiche e il mare come sfondo.
Dopo una piccola salita serpeggiante ora tra le rocce ora all’ombra di una pineta, si raggiunge una piazzola delimitata da un muretto dove al tempo della seconda guerra mondiale fu costruito un basamento in calcestruzzo per alloggiarvi un cannone antiaereo in difesa dei sommergibili stazionati negli anfratti della sottostante baia di Sistiana.
Da questa sommità il panorama è davvero incantevole: aguzzi pinnacoli e sottili lame si alternano fra i torrioni di pietra e cespugli di vegetazione mediterranea che sparsi su quegli erti pendii rocciosi sembrerebbero privi di terra eppure vi sono abbarbicati crescendo con incredibile forza e freschezza nonostante gli spruzzi salati del mare.
Percorrendo il Sentiero Rilke potranno essere osservati tutti i tipi di carsismo epigeo, dalle grize alle morfologie a banchi e a blocchi che sono le forme più evidenti dei solcati carsici lentamente erosi e flessurati dall’azione delle piogge. Tra scannellature di corrosione e fori di dissoluzione le cosiddette “rupi a mare” sono la caratteristica più visibile su questo particolare tratto di costa molto suggestivo qualora fosse scorso proprio dal mare.
Percorso un breve tratto a margine della pineta e superati i gradini di dislivello, tra le pareti di roccia appare un belvedere naturale dove se ci si abbandonasse allo spirito del Creato sembrerebbe di essere proprio sospesi fra cielo e mare. Eppure quanti conflitti in questa piccola parte di mondo che sembra non essersi accordata sulla sua natura: il dolce clima mediterraneo che circonda Duino è dominato ora dai gelidi venti continentali ora dalle correnti sciroccali del sud in alternanza con quelle umide provenienti da ovest. E così anche la vegetazione ha dovuto sottostare alle diversità atmosferiche sviluppando una flora essenzialmente mediterranea con quella di origine balcanico-illirica con caratteristiche tipiche del centro-Europa e perfino di natura alpina, il tutto su un territorio di dimensioni modeste.
Superato anche il terzo belvedere e scendendo appena verso il sentiero si giunge al culmine della falesia carsica che si presenta come un lungo solcato a strapiombo sul mare: da qui e dalla vedetta successiva si può ammirare uno scenario di grande emozione.
Proseguendo tra i massi e le rocce ci si troverà davanti un bivio: un tratto di circa 250 metri attraversa una folta pineta fino all’uscita sulla statale 14, un altro ci conduce sul ciglio delle ultime falesie. Dal promontorio più sporgente, attraverso i rami di pino si scorge finalmente il castello con uno dei torrioni e la torre romana svettante sopra il complesso degli edifici.
Percorso l’ultimo tratto tra la fitta macchia costituita da lecci, pini neri, arbusti di sommacco e viburno, si giunge all’ultima piazzola del sentiero Rilke da dove si potranno scorgere le lagune di Grado. Dopo qualche decina di metri un largo viottolo addentrato nella pineta giungerà nuovamente sulla statale 14, proprio al bivio con la provinciale per Duino mentre la bella passeggiata sul costone sarà interrotta dal reticolato che delimita il parco del castello.

Chissà se il poeta Rainer Maria Rilke si fosse davvero  ispirato alle storie di vita e di morte che aleggiano su questa dimora millenaria… O se il castello di Duino fosse  stato uno dei tanti “nessun dove” che cercò per tutta la sua esistenza tormentata.
Lo spirito del tempo si crea vasti sili di forza, informi, come l’incalzante tensione ch’esso d’ogni cosa desume” scrisse nella VII Elegia. Ma forse il suo sentire lo si trova più negli ultimi versi scritti negli ultimi mesi della sua vita: “Lui da solo s’interna su per i monti del dolore originario. E dall’atona sorte non risuona nemmeno il suo passo”. ( X Elegia)

(Fonte: Dante Cannarella, Il sentiero Rilke, Ed. Svevo, Trieste, 1989)

Rilke e la Passeggiata Duinese

Foto Mario Amstici

“Mentre al castello fervevano i preparativi del concerto, Rainer si apprestò a uscire per una passeggiata nei dintorni.
Non sarebbe certo ridisceso dalla parte dell’antica rocca, protetta dall’arrogante sparviero e abitata da inquieti spiriti che giravano in tondo. Avrebbe invece scelto il sentiero sul lato opposto della scogliera, per quanto era prudente percorrerlo solo per un breve tratto.
Seguendo le indicazioni di Carlo, sforzando il gancio del portone in fondo al cortile, si trovò in un antro con il selciato di terra battuta.
Sulla sinistra, in un corridoio stretto e maleodorante, scorse delle porte provviste di grossi chiavistelli e piccole aperture quadrate con le ante semichiuse. Nella poca luce che filtrava, osservò le tele di ragno che pendevano come macabri sipari di quelle celle, ultime dimore di chissà quanti filibustieri.
“ Bell’ingresso davvero per una passeggiata all’aria aperta.” pensò rabbrividendo.
Per fortuna l’uscita sul grande terrazzo era abbastanza vicina, ma il colpo d’occhio che gli presentò, fu distolto dalla spiacevole convinzione che quel passaggio sotterraneo arrivasse direttamente al mare, o peggio ancora, all’interno della terra.
Il sentiero sopra le falesie non era troppo agevole per un cammino rilassante ed era necessario prestare più attenzione a dove si mettessero i piedi che alla vista, peraltro magnifica.
L’aria umida che saliva dal golfo era trattenuta da una leggera corrente che proveniva dall’altopiano. Era singolare vedere cespugli di ginepro, fiori di genziana e myosotis, vegetazione che si sarebbe aspettato di trovare nei boschi della Svizzera o della Baviera e non certo sulle coste dell’Adriatico.
Avvicinandosi a una piazzola di sassaie, si ritrovò sopra uno strapiombo di rocce curiosamente scannellate. Un senso di vertigine lo fece ritrarre di qualche passo, ma la brusca mossa gli provocò uno stiramento alla caviglia, costringendolo a sedersi su una pietra a ridosso di uno scoglio verticale.
Come pensò di estrarre il suo taccuino per segnarsi degli appunti, fu investito da un improvviso sibilo e una trafittura d’aria fredda. Allibito si guardò intorno, ma si vide circondato da massi bucherellati e apparentemente inerti, eppure qualcuno tra loro sembrava proprio respirare dalle profondità della terra. Il fischio si attenuò appena ma poi prese ancora più vigore, divenendo quasi uno spaventoso grido spinto da una forte pressione.
Scordandosi del dolore alla caviglia e più che mai del libretto delle note, si alzò di scatto, deciso a ritornare indietro in gran fretta, ma azzoppato com’era, il sentiero sembrava più lungo e scomodo di quanto gli fosse apparso all’andata.
Un’improvvisa folata di vento lo fece sbandare ancora, provocandogli un brivido di freddo e di paura.
Ma in quale parte di mondo si trovava? In queste strane terre convivevano due nature diverse e contrapposte: acque marine protette dalle colline, ma sferzate dai gelidi venti del nord, acque dolci nascoste da rocce e sassaie, ma percosse dai furiosi tumulti della terra.
Tra gli alberi ormai sbattuti dalle raffiche, scorse da lontano il castello e sebbene fosse consapevole di allungare il percorso, s’inoltrò nel bosco, sperando di giungere nei pressi dell’ingresso.”

(Da “Le terre di Leidland“, inedito di Gabriella Amstici)