La mancanza d’acqua che periodicamente si verificava a Trieste nel 19esimo secolo, nell’estate del 1828, dopo più di un anno di siccità continua, divenne gravissima.
Le fontane pubbliche furono razionate e a parte il modesto approvvigionamento dalle sorgenti di Zaule, l’acqua doveva essere attinta dall’Isonzo e portata in città con le botti. Un’apposita Commissione iniziò a esaminare le polle esistenti sul del territorio progettando la costruzione di un acquedotto ma alla fine dell’anno il controllore di cassa del Comune si defilò con tutti i denari provocando una disastrosa sospensione dei lavori programmati, scavi compresi.
I provvedimenti più urgenti ed eseguiti con mezzi limitati e provvisori ebbero degli effetti molto scarsi e quando si verificò l’estenuante siccità del 1834 che si protrasse fino all’autunno del 1835, il rifornimento idrico della città divenne improrogabile.
Fu interpellato allora l’apprezzato perito di Milano ing. Anastasio Calvi che dopo diversi sopralluoghi, studi e misurazioni, ritenne fattibile riattivare gli antichi acquedotti della val Rosandra (costruiti in epoca romana nelle zone di Dolina) e allacciarli a nuove tubature, senza però escludere la possibilità di creare dei condotti alimentati dal Reka (com’era chiamato il Timavo) prima del suo inabissamento nella voragine di San Canziano.
Considerata la distanza dalla città e gli altissimi costi di entrambi i progetti, l’ingegnere minerario Anton Friedrich Lindner iniziò una sistematica perlustrazione delle colline sovrastanti Trieste ascoltando anche i paesani in merito ai forti sibili da tempo avvertiti in determinate zone e sicuramente provocati dalla rimonta di acque nascoste nelle profondità carsiche.
Nell’aprile 1839 Lindner presentò al Governo del Litorale le mappe del presunto corso di un torrente sotterraneo con la proposta di intercettarlo con i necessari scavi per poi convogliarne le acque in una serie di gallerie. Gli amministratori pubblici però non intesero vincolarsi in questioni dai risvolti giuridici poco chiari circa la proprietà delle acque stesse e prima del ritrovamento effettivo del misterioso fiume.
Durante gli improvvisi diluvi che si verificarono all’inizio di novembre del 1840 il fenomeno delle violentissime correnti d’aria sprigionate dalle fessure in una dolina fra Orlek e Trebiciano dimostrarono senza più dubbi la presenza di un torrente in piena. L’ing Frederick Lindner assoldò allora dei minatori per allargare il pertugio da cui era fuoriuscito il più potente e sibilante getto d’aria e cercare il misterioso fiume che scorreva sotto il carso.
La disostruzione dei passaggi e la scoperta di una successione di pozzi sempre più profondi fu arditissima e non priva di imprevisti.
Procedendo con inaudite difficoltà fra mine e vigorosi colpi di mazza su cunicoli ad assetto verticale, i lavoranti avvistarono sabbie, detriti vegetali e perfino la pala di un mulino incastrata fra le rocce. A 220 metri di profondità giunsero sulla sommità di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi. Dopo altre fessure da forzare e ulteriori scavi in una “finestra” in parete che attraeva le fiamme delle fiaccole, finalmente venne raggiunta una strettoia dove i frammenti di roccia si sentivano cadere a grande profondità.
Allargato l’ultimo passaggio, il 6 aprile 1841 a cinque mesi dall’inizio dei lavori, i minatori scesero nel dodicesimo pozzo affacciato a una grandiosa caverna dove furono avvertiti i mormorii di un’ immensa massa d’acqua.
Fu così provata l’esistenza di un fiume che scorreva negli abissi carsici proprio come Lindner aveva sempre sostenuto.
Con l’allargamento dei passaggi più angusti, la costruzione di impalcature e robuste scale di discesa si giunse però alla conclusione che quel fiume sotterraneo scoperto con tanto entusiasmo era talmente profondo da rendere troppo elevati i costi degli allacciamenti idrici. Fu infatti calcolato che il precipizio aveva una profondità complessiva di 322,318 metri, con il livello medio dell’acqua a 19 metri sul livello del mare. Inoltre le innumerevoli ricerche di Lindner effettuate in condizioni estreme e senza neppure ottenere il riconoscimento dell’autorità comunale, minarono la sua salute e lo condussero alla morte per tubercolosi a soli 40 anni il 19 settembre1841.
L’abisso di Trebiciano rimase così in stato di abbandono fino al 1849, anno in cui fu ottenuta la reggenza municipale di Trieste.
Sotto la direzione di un “Comitato alle Pubbliche costruzioni e Lavori idraulici” l’ispettore dei civici pompieri Giuseppe Sigon con una serie di progressive esplorazioni nella grotta di Trebiciano riuscì a raggiungere il sifone di entrata del canyon sotterraneo e a valutare in ben 758.000 metri cubi la sua portata nelle 24 ore e a 410.000 mq/h. durante i periodi di massima siccità, quantità dieci volte superiore a quella giudicata necessaria per l’acquedotto di Trieste. Per l’enorme volume delle acque si dedusse che altri fiumi potessero ingrossare quello di Trebiciano che con altre ramificazioni confluisse poi allo sbocco di San Giovanni di Duino.
Mentre in Comune venivano esaminati i lavori di scavo per costruire gallerie e tubature, un nuovo fatto ribaltò ancora i progetti. Per rifornire i treni a vapore della futura Ferrovia Meridionale, fu costruito in breve tempo un acquedotto che convogliava le non molto abbondanti sorgenti costiere di Aurisina mentre una conduttura parallela avrebbe portato l’eccedenza d’acqua in città. Ma in una Trieste in continuo sviluppo l’erogazione così ottenuta, peraltro con altissimi costi, divenne ben presto del tutto insufficiente. Le risorgive avevano inoltre dei flussi incostanti e spesso commisti ad acqua salmastra e con l’ennesima siccità verificatasi nel 1868, si prosciugarono del tutto.
Intanto però molti studiosi continuavano i progetti estrattivi dal fiume sotto le grotte di Trebiciano.
Nel 1895 l’ingegnere svizzero Polley, ritenendo fattibile l’approvvigionamento idrico di quel torrente sotterraneo, decise di acquistare la grotta di Trebiciano affidando al giovane Eugenio Boegan dei nuovi rilievi. Dopo anni di misurazioni e studi, appena nel 1910 l’ing. Polley presentò i progetti per azzardatissime gallerie con pendenze dello 0,5 per mille dotate di pompe elettriche azionate da turbine per intercettare le acque a 85 metri di quota. Propose poi di allungare le gallerie per intercettare anche le acque delle grotte di San Canziano e perfino la costruzione di un’elettrovia per il trasporto di merci e persone. Tutte le elaboratissime proposte del Polley terminarono nel 1912 con la cessione della grotta di Trebiciano al Comune di Trieste.
Nell’anno successivo, dopo alcuni riadattamenti e le periodiche misurazioni delle acque, si riuscì a provare con un colorante di cloruro di litio, che le acque del Reka inabissate a San Canziano continuavano il loro segreto percorso fino a congiungersi con quelle sotto la caverna di Trebiciano.
Durante le operazioni belliche della prima guerra mondiale le briglie di contenimento alle risorgive del Timavo furono distrutte per impedire di incrementare la portata dell’acquedotto di Aurisina, danneggiato anch’esso dalle artiglierie italiane e le misurazioni nella grotta di Trebiciano divennero saltuarie.
Nel 1927 fu escogitato un nuovo tentativo di marcatura delle acque del Reka-Timavo-risorgive del Timavo: un certo numero di anguille (con diverse incisioni) furono immesse nel corso esterno del fiume nella pianura di Vreme, altre nella voragine di San Canziano e un terzo gruppo nel torrente inabissato a Trebiciano. La prima anguilla giunse alle risorgive di San Giovanni di Duino dopo 40 giorni, alcune delle restanti entro un anno.
Fu così finalmente raggiunta la certezza che le zampillanti acque provenienti dal Monte Nevoso dopo un tranquillo percorso in valle, la loro scomparsa e il tortuoso tragitto nelle profondità delle terre carsiche, sgorgavano proprio nelle risorgive di San Giovanni di Duino per poi sfociare nell’Adriatico.
Ma ancora nel 1953 e 1977 si tentava di carpire il segreto del sifone di entrata dell’arcano Timavo nelle vicine grotte di Trebiciano: l’immenso bacino di tutti i vasi comunicanti possiede delle dinamiche ancora sconosciute dominate da forze che sfuggono ai più sofisticati studi idrologici e idrodinamici.
Fonte: Mario Galli, “La ricerca del Timavo sotterraneo“, Edizioni del Museo Civico di Storia naturale, 2000, Trieste