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Il distretto di Moccò

Inoltrandosi per la vecchia strada provinciale e superata la Foiba di Basovizza. si raggiunge il piazzale dove si trova la piccola chiesa di San Lorenzo che pur risalendo alla metà del Quattrocento conserva intatte le sue antiche mura di pietra carsica e l’originario campanile a vela.
Superato il fantastico belvedere a 377 metri s.l.m. e le ultime case del borgo che si snodano sull’estremo margine della Val Rosandra, ci sono i due rami dell’antica strada carsica: a nord si scende verso Bagnoli e a sud verso le frazioni del paese di Sant’Antonio in bosco o Boršt, dall’antico nome tedesco di Forst (selva).
Sulla sinistra si apre una spianata il cui breve sentiero porta su un costone a strapiombo con una vedetta con il più spettacolare panorama di tutta la vallata.
Da qui si spazia a nord tra le bianche sassaie del cañon, le acque del Rosandra, i boschi dello Stena e a sud tra le ultime borgate di Trieste, il mare e le verdi colline dell’Istria.
E ci si sente come sospesi: saranno i soffi d’aria fresca, gli odori della terra inaridita dal sole, il profumo del timo e dei ginepri. O sarà forse la percezione delle molte anime di questo Carso così selvaggio, tormentato, conteso.
Su queste terre sono passati pellegrini verso paesi lontani, carovane di mercanti e brigate di predatori, spietati cavalieri al servizio di vescovi e patriarchi, ricchi signorotti assetati di potere e castellani troppo pavidi per difendere i propri territori.
Questa vallata ha sopportato assedi di fuoco e sanguinose battaglie, ha dovuto assistere alla distruzione di case, boschi e campi, è stata tormentata da pestilenze, carestie e terremoti eppure è ancora qui, tra questi monti sferzati dai venti o riscaldati dal sole.
Osservando le brulle pendici del monte Carso e laggiù le foreste di Ocisla vengono in mente le indimenticabili pagine di Slataper che lì visse la sua più intensa e solitaria estate.Alzando lo sguardo verso nord-est si scorge il promontorio dove un tempo lontano sorgeva un torvo castello a difesa di tutta questa splendida valle.
Così ci è venuta la voglia di ripercorrere la sua lunga storia.

Il castello di Muchou
Sebbene la prima notizia certa della sua esistenza risalga al 1233, da un documento pubblico del 1166 risulterebbe che il patriarca di Aquileia avesse acquisito il possesso di una struttura fortificata consegnandola ai fratelli Noppo ed Enrico “de Muchon”, vassalli ministeriali di Wernado, vescovo di Trieste e Capodistria.
L’origine del toponimo potrebbe quindi derivare dal nome di questi fratelli delegati alla custodia del castello e dei villaggi d’intorno: a valle quello piuttosto esteso di Sant’Odorico (nota 1) e verso sud gli abitati di Log (nota 2) anticamente chiamato Gas o Gias (nota 3), di Boršt (Sant’Antonio in Bosco) (nota 4) e della silva Cereti in seguito scomparsa. (nota 5).
Si riporta qui un particolare del documento del 1233 con la prima citazione del castello “in castro de Muchou”.
La valle compresa nel bacino idrografico del torrente Rosandra e conosciuta come de Zaullis sub Bagnolo, era allora percorsa dal pasum Longere, l’importante via di comunicazione che scendendo dal Carso si dirigeva verso Capodistria.
In seguito alle mire espansionistiche del Comune istriano e alle sue azioni armate, il castro de Muchou venne seriamente danneggiato e ricostruito a spese del patriarca di Aquileia.
Dopo essere affidato in custodia al Comune di Trieste nel 1281, iniziò una serie di contenziosi con il vescovado cittadino che vantava il controllo sulle contrade sottostanti nonostante mancassero le linee confinarie. La causa delle diatribe verteva essenzialmente sugli interessi economici legati al passaggio dei mercanti con le provvigioni di grano, farina, olio, vino e soprattutto sale, forniture che peraltro interessavano anche Capodistria e quindi il patriarcato di Venezia.
Nel 1338, dopo vari arbitrati fu stabilito che la contrada di Zaule appartenesse al distretto di Trieste mentre l’interno della valle al feudo vescovile.
Vent’anni dopo però il Comune decise di chiudere l’importante via di comunicazione con l’Istria provocando la reazione dei veneziani che tra il 1368 e 1369 assediarono la città.
Dopo un’estrema difesa il castello di Muchou, oggetto di una trattativa con il doge in persona, fu di fatto venduto e occupato da una guarnigione veneta fino all’atto di dedizione di Trieste all’Austria del 1382 quando si avvicendarono i capitani dell’Impero.
In seguito a ulteriori battaglie con Venezia e alle trattative di pace del 1463, il castello venne nuovamente annesso al dominio dei veneziani fino alla resa nel 1508 e il ritorno dei delegati imperiali.

Ma su quella strategica fortezza continuarono le ostilità perpetuate da guarnigioni venete con sfibranti assedi, razzie sulle coltivazioni agricole e vinicole, danneggiamenti alle vicine saline e blocchi delle vie di transito penalizzando sempre di più la non florida economia di Trieste.

Un’epidemia di peste esplosa nel corso del 1510 e le violente scosse di terremoto del 1511 indebolirono ulteriormente tutto il distretto di Mocho, segnando il suo destino.
L’esercito imperiale costituito da boemi e croati guidati da Cristoforo Frangipani raggiunse la valle di Zaule con l’intento di espugnare i baluardi a difesa del confine veneto. Asserragliato dentro le mura della fortezza l’ultimo castellano Girolamo Contarini, incapace di resistere all’assedio di un contingente dotato di bombarde a distanza, riuscì a fuggire a Trieste grazie al capitano Nicolò Rauber.
Dopo l’11 ottobre 1511 fu compiuta la totale distruzione del castello e delle altre strutture fortificate sparse sul ciglione carsico.
Considerando le proprietà e i diritti vantati dal Vescovado in quella particolare zona non sorprenderebbe la volontà del potente Pietro Bonomo di consiliare l’eliminazione dello strategico fortilizio – ufficialmente per evitare le continue incursioni venete – come non sembrerebbe del tutto disinteressata la compartecipazione di Rauber che per i servizi resi all’Impero ottenne la custodia del castello di San Servolo. (nota 6)
Comunque da allora i transiti commerciali vennero convogliati sui confini dello stato veneto anziché dirottati sulla direttiva di Longera, controllata da Trieste, e solo dopo il 1690 la stazione doganale, rinominata Fünfemberg (nota 7) venne riportata nel distretto di Moccò.
Questo insolito toponimo fu ancora riportato sulle carte del 1700, sulle prime piante catastali del 1800 e sulle Cronache di Ireneo della Croce.

Successivamente sull’area della dogana venne costruito un grande edificio rettangolare nominato “castello nuovo” inizialmente adibito a scopi amministrativi, in seguito acquistato dai conti Petazzi per poi essere trasformato verso la fine dell’Ottocento in un albergo-trattoria.
Divenuto abitazione privata nel 1945 fu completamente distrutto da un incendio e oggi non ne restano neppure le fondamenta.

Dell’antico castello di Mouchou rimangono oggi solo dei piccoli tratti di mura sul lato nord-ovest, ma essendo ricoperti dalla vegetazione, sono visibili solo in inverno.
La sua più antica raffigurazione è una litografia del 1698 riportato sulla Historia Antica e Moderna di Ireneo della Croce dove appare la lunga muratura della facciata, la torre quadrata e la porta d’ingresso sul lato a valle.

Sulla base di questo schizzo Pietro Kandler tracciò poi un disegno inserendolo nella sua copia personale della Storia del Consiglio dei Patrizi di Trieste.
Questa immagine fu ripresa a sua volta da Alberto Rieger che nel 1863 realizzò la nota incisione e per quanto fosse alquanto fantastica, anche per l’improbabile circondario alpestre, venne inserita nella Storia cronografica di Trieste di Scussa e ritenuta ancora oggi plausibile.
L’ultima rappresentazione con i resti del castello è stata dipinta in un acquerello di Antonio Tribel nel 1883 dove si notano la struttura quadrata, la doppia muratura e la scalinata sul lato a valle con il ponte levatoio.
Nella zona gli abitanti del posto hanno trovato diversi materiali ferrosi, punte di freccia e di balestra, ferri di cavallo e frammenti di ceramiche databili al XVI secolo.
Secondo l’interessante saggio di Fulvio Colombo ancora oggi sui pendii sotto il costone sarebbero visibili dei conci di arenaria distinguibili dal contrasto con le bianche rocce calcaree.

NOTE:
(1) Da documenti del 1298-99
(2) In sloveno bosco o boschetto
(3) Dal longobardo gahagi con significato di luogo recintato
(4) Dal tedesco Forst, bosco
(5) Menzionata negli statuti del 1322 e poi disboscata nel 1337 per far posto a terreni agricoli
(6) vedi articolo Il castello di San Servolo  (pubblicato il 21 novembre 2012)                           …          ..
(7) Forse dal nome dei signori della casata Vichumberg

FONTI:

Fulvio Colombo, Moccò – Castello e distretto, Estratto da “Archeografo Triestino” Biblioteca Civica A. Hortis;

Carlo Chersi, Itinerari del carso triestino, Tip. Nazionale, Trieste, 1962;

Dante Cannarella, Guida del carso triestino, Ed. Svevo, Trieste, 1975.

I Templari a Grignano

Dietro il promontorio roccioso su cui venne edificato il Castello di Miramare, le falde degradanti verso la fine del golfo di Trieste e immerse nella rigogliosa macchia mediterranea, in tempi remotissimi vennero abitate dai romani che occuparono queste terre dopo la cacciata degli Istri nel 178 a.c. e la fondazione di Aquileia nel 181 a.c.
In questa amena località, il cui nome di Griniano o Grignana si ritiene derivato dallo straricco possessore terriero Agrinius, l’archeologo Pietro Kandler (Trieste 1804 – 1872) effettuò diversi scavi portando alla luce pavimenti a mosaico, monete, lapidi e altri reperti che testimoniavano la presenza di ville e abitazioni risalenti alla lunghissima epoca dell’Impero Romano. Ancora oggi nella baia resiste l’antico porticciolo, contenuto nell’attuale, costituito da un bacino rettangolare delimitato da una diga larga 5 metri formata da 3 segmenti perpendicolari lunghi 60, 40 e 29 metri.
Sulle colline di quella riviera “di antica e prospera condizione”, crescevano le rinomate vigne del vino Pucino, l’apprezzato nettare che assicurò una lunga vita all’imperatrice Livia, moglie di Ottaviano Augusto.
L’approvigionamento dell’acqua era assicurato da un torrentello che scendeva sul declivio oltre l’insenatura del piccolo porto e fu proprio qui che secoli dopo sorse una chiesetta con un modesto convento di monaci. Purtroppo fu perduta ogni attestazione sulle loro origini e le ricerche dello storico carmelitano Ireneo della Croce (Trieste 1625 – Venezia 1713) riuscirono solo a identificare la proprietà del fondo colonico nel corso del I° secolo d.c. alla famiglia Barbi, una delle più note della Tergeste romana le cui stele mortuarie vennero in seguito usate come portale della cattedrale di San Giusto.

Il caso volle però che il nostro storico Luigi de Jenner (Trieste 1803 – 1868) (1) fosse ospitato tra il 1818 e il 1823 nella stessa stanza del Convento dove, un secolo e mezzo prima, alloggiò l’Imperatore Leopoldo I (2), la cui visita, avvenuta il 25 settembre 1660, fu raffigurata in uno dei cinque quadri del pittore piranese Cesare Dell’Acqua, commissionati dall’arciduca Massimiliano d’Asburgo per rievocare la storia dei luoghi dove venne costruito il castello di Miramare.
Sullo sfondo del quadro si notano la chiesa di Santa Maria e il Convento della Beata Vergine di Grignano, allora occupati dai Frati Minoriti

Esperto bibliotecario-archivista e grande appassionato di storia, il de Jenner si mise dunque alla ricerca di documentazioni sull’antico cenobio ritenendo che fosse stato sede dei Cavalieri del Tempio prima della loro soppressione avvenuta nel 1308. Tutte le avventurose storie di quel leggendario Ordine erano state però raccolte nelle Biblioteche vaticane e segregate fino al 1887 quando gli archivi vennero parzialmente aperti. Furono così trovate testimonianze sui pellegrinaggi che precedettero la prima Crociata tra cui quelli con più di tremila uomini avvenuti intorno al 1054 e quelli del 1064 capitanati dall’arcivescovo Sigfrido di Magonza con un seguito di 7000 pellegrini in parte a cavallo.
Ma se si sono rinvenute diverse notizie sui possessi dei Templari lungo la Dalmazia, non altrettanto è stato repertato sui centri dell’Istria e di Trieste. Nel suo Cartolare il Kandler inserì tuttavia una carta segnando il presunto transito dei Cavalieri attraverso i fiumi Torre e Isonzo e i centri di Ruda, Gradisca, Gorizia, Carniola, Duino, Trieste passando poi per la confluenza tra la val Rosandra e Ospo verso la litoranea di Muggia, l’attraversamento del Quieto e del canal di Leme per raggiungere Pola, il Quarnero e proseguire verso la Dalmazia e la Grecia.
Dal XIII secolo sulla via che univa il Carso con il Capodistriano, venne edificato un ospizio e una chiesetta dedicata a San Clemente e che fu sicuramente sede dei Templari e, dopo la loro soppressione, degli Ospitalieri. Abbandonata intorno al 1530, cadde in rovina e nel luogo vennero edificate delle casette.
Fu dedotto che altre sedi dei Templari dovessero esistere tra Vipacco e Adelsberg (Postumia) feudo del Patriarca di Aquileia, mentre tra quelle più vicine a noi esisteva esistette nell’antichissima chiesa del villaggio carsico di Corneliano (oggi Corgnale) che secondo il Kandler risaliva ai primi anni del XII secolo mentre la grande torre cilindrica (tuttora esistente) dovrebbe risalire alla fine del Quattrocento.

Tornando al passaggio dei Templari all’ospizio dei Benedettini a Grignano, oltre alla carta del Kandler esiste una testimonianza di un certo fratello Berallus de Grignano riportata sugli atti del processo all’Ordine cavalleresco svoltosi tra i mesi di maggio e giugno del 1310 da cui fu dedotta la sua permanenza nel cenobio.
Un altro frammento di storia è iscritto su una pietra oggi immurata nell’antica scuola parrocchiale del villaggio di Santa Croce sul piazzale della chiesa. Qui, dopo un’incisione mai decifrata, c’è la scritta “Hoc opus magister Geogyius fecit” con accanto un rosone, entrambi attribuiti all’epoca dei Templari. La data MCCCC89 fu evidentemente aggiunta dopo l’appostamento di questa misteriosa pietra che si ritenne fosse appartenuta alla chiesa di Santa Maria di Grignano dove visse e lavorò un muratore benedettino di nome Geogyius.

Un altro prezioso reperto dell’epoca fu scoperto nel 1910 dal prof. Alberto Puschi, Direttore del Civico Museo di Storia e Arte: su una casa attigua alla chiesa di Santa Croce fu immurato un bassorilievo in pietra calcarea raffigurante una madonna con il bambino la cui datazione venne attribuita ora al X secolo, ora posticipata al XII o XIII secolo ma proveniente quasi sicuramente dalla Chiesa di Grignano e dedicata a quella “dolce Madre di Dio” nel cui nome i cavalieri di Cristo pronunciavano i loro voti.
Il bassorilievo è oggi visibile nel piazzale delle Milizie del castello di San Giusto sulle mura della Casa del Capitano.

Dell’antico Convento che lo ospitò per cinque anni, il prezioso e paziente archivista Luigi de Jenner riuscì a ricostruirne la storia attraverso i documenti trovati negli archivi del monastero dei Ss. Martiri di Trieste.
Sotto il disegno di Luigi de Jenner

Fu così scoperto che nel 1338 il Convento apparteneva sicuramente all’ordine dei Benedettini e che dopo il 1349 fosse stata fondata la Confraternita di Santa Maria di Grignano collegata e mantenuta dalla Chiesa dei SS. Martiri di Trieste e da alcune ricche famiglie di Prosecco e Santa Croce.
Santa Maria di Grignano, considerata in quell’epoca come un Santuario, era venerata dal popolo e collocata com’era quasi in un eremo lontano dai centri abitati, divenne meta di continui pellegrinaggi.
Ma la vita dei monaci fu sempre molto tormentata. Dopo l’irruzione dei Turchi nel 1471 e alle violente pestilenze esplose a più riprese, i Benedettini poco a poco si estinsero e secondo le ricerche sia del Kandler che del de Jenner il convento di Grignano passò ai Minori di San Francesco.
Nella prima metà del Cinquecento la chiesa ebbe ancora delle traversie, come il terremoto del 26 marzo 1511e le frequenti incursioni dei Veneziani che devastavano i fiorenti pastini rubando intere piantagioni di uva e di olive.
Dopo alterni periodi di carestia di altre pestilenze e grandi disagi, nel 1626 il vescovo di Trieste Rinaldo Scarlicchio donò la chiesa e il convento ai Frati Minoriti con il permesso di ricevere donazioni per il loro sostentamento e per la ristrutturazione degli edifici.
Nella seconda metà del Seicento il convento venne ulteriormente ingrandito e con l’acquisto di terreni adibiti in orti e vigne godette di un periodo di relativo benessere.
Nel secolo successivo con le difficoltà di manutenzione e approvvigionamento la vita dei frati divenne nuovamente grama fino alla soppressione del convento emanata il 25 novembre 1784 dall’imperatore Giuseppe II.
Libri, archivi e mobili furono venduti o dispersi, gli arredi sacri vennero portati nella parrocchia di Opicina, le statue di San Bonaventura e San Girolamo a quella di Contovello, le campane e la miracolosa Madonna protettrice dei pescatori alla chiesetta di Cattinara (3).
L’anno successivo la chiesa e il Convento vennero messi a pubblico incanto diventando proprietà privata.
Adibita a fienile e con il tetto sfondato, nel 1883 l’antica chiesa di Santa Maria venne rasa al suolo mentre il convento subì diversi riadattamenti per divenire, e rimanere anche per il futuro, una dimora privata.
L’immagine sotto riportata  è stata disegnata nel 1844 da Leopoldo Zanetti, incisa su litografia del Kier e riportata sulle Memorie di Francesco dell’Ongaro.

Note:
(1) Luigi de jenner, nobile di Seebegg e Beerburg, nato a Trieste nel 1803, è il più sconosciuto dei nostri storici seppure uno dei più preziosi. Schivo e modesto, ricoprì un modesto impiego di “cancellista edile civico” che però gli permise di raccogliere un enorme quantità di documenti storici. A parte qualche articolo su “L’Istria” non pubblicò nulla e quando dimenticato da tutti morì nel 1868, fu sepolto senza un riga di necrologio in una fossa comune. Fu Carlo Gregorutti a recuperare tutti i suoi preziosissimi manoscritti che vennero poi conservati nell’Archivio Diplomatico presso la Biblioteca Hortis.

(2) La statua bronzea dell’imperatore Leopoldo I forgiata da Carlo Trabucco nel 1672 è tuttora presente su una colonna di piazza della Borsa

(3) Esposta in un’edicola accanto alla chiesa, la preziosa Madonna venne poi rubata

Fonti:
– Da un articolo di Aristide Buffalini “Santa Maria di Grignano e i Templari” pubblicato nel 1978 dai Civici Musei di Storia e Arte di Trieste;
– Da “Il santuario e il convento di Grignano” di Sergio degli Ivanisevich pubblicato nel 2009 da Ignazio Vok..

La scoperta dell’abisso di Trebiciano

Dopo il nubifragio del novembre 1840 e l’individuazione delle acque sotto la dolina ubicata fra Orlek e Trebiciano, l’ing. Anton Frederik Lindner assoldò dei minatori per allargare il pertugio da cui era fuoriuscito il più potente e sibilante getto d’aria e cercare il misterioso fiume che scorreva  sotto il carso.

La disostruzione dei passaggi e la scoperta di una successione di pozzi sempre più profondi fu arditissima e non priva di imprevisti.  Procedendo con inaudite difficoltà fra mine e vigorosi colpi di mazza su cunicoli ad assetto verticale, i lavoranti avvistarono sabbie, detriti vegetali e perfino la pala di un mulino incastrata fra le rocce. A 220 metri di profondità giunsero sulla sommità di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi. Dopo altre fessure da forzare e ulteriori scavi in una “finestra” in parete che attraeva le fiamme delle fiaccole, finalmente venne raggiunta una strettoia dove i frammenti di roccia si sentivano cadere a grande profondità. Allargato l’ultimo passaggio, il 6 aprile 1841 a cinque mesi dall’inizio dei lavori, i minatori scesero nel dodicesimo pozzo affacciato a una grandiosa caverna dove furono avvertiti i mormorii di un’ immensa massa d’acqua.

Fu così provata l’esistenza di un fiume che scorreva negli abissi carsici così come Lindner aveva sempre sostenuto.

Con la scoperta della grotta di Trebiciano l’esplorazione speleologica fa il suo ingresso nel mondo scientifico.

Il decano delle vita culturale di Trieste Domenico Rossetti si dedicò con approfonditi studi sul problema del rifornimento idrico per Trieste ma il consistente testo monografico non riuscì a essere pubblicato per l’improvvisa morte dell’illustre nobile il 20 novembre 1820.                           Pietro Kandler riprese le relazioni del Rossetti,concluse con l’asserimento che le acque scoperte sotto l’abisso di Trebiciano potessero veramente derivare dal Reka-Timavo proponendo altre spedizioni per seguirne il lungo corso.

Con  l’allargamento dei passaggi più angusti, la costruzione di impalcature e robuste scale di discesa si giunse purtroppo alla conclusione che quel fiume sotterraneo scoperto con tanto entusiasmo era talmente profondo da rendere troppo elevati i costi degli allacciamenti idrici. Fu infatti calcolato che il precipizio aveva una profondità complessiva di 322,318 metri, con il livello medio dell’acqua a 19 metri sul livello del mare. Inoltre le innumerevoli ricerche di Lindner effettuate in condizioni estreme e senza neppure ottenere il riconoscimento dell’autorità comunale, minarono la sua salute e lo condussero alla morte per tubercolosi a soli 40 anni il 19 settembre1841.

L’abisso di Trebiciano rimase così in stato di abbandono fino al 1849 lasciando insoluto il problema di un adeguato approvvigionamento idrico per Trieste.

Fonte: Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, LIND, Trieste, 2004