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Lucia Joyce

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Nonostante la nascita della piccola Lucia il 26 luglio, l’estate del 1907 fu molto tormentata per la famiglia Joyce.
Non solo il loro unico sostentamento consisteva nel modesto stipendio di James alla Berlitz School, mancandogli richieste di lezioni private e di articoli giornalistici, ma si frammisero pure dei problemi di salute.
Afflitto da dolorose febbri reumatiche e da problemi oculistici, Joyce sarà ricoverato per un mese all’Ospedale municipale e a casa ne trascorrerà un altro di convalescenza. (nota 1)
Nora stentava a riprendersi dal parto e dopo essere stata dimessa dall’ospedale con un misero sussidio di 25 corone, sofferse una serie di febbri che la costrinsero a sospendere l’allattamento della bambina.

Sfrattati un’altra volta per morosità, i Joyce furono costretti a traslocare sistemandosi in due camere ammobiliate di una vecchia palazzina del Corso. (nota 2)
La loro vita divenne così sempre più difficile tra la miseria, gli abusi alcolici di James e i malumori di Nora, eppure nonostante tutto la coppia riusciva a rimanere unita se non altro per una forte quanto reciproca attrazione sessuale che allentava i continui litigi.
Superati i problemi di salute, Joyce sarà assunto alla Scuola di Commercio Revoltella migliorando notevolmente la situazione finanziaria della famiglia.

Giorgio e Lucia intanto crescevano tra l’interesse fluttuante del padre, concentrato sui suoi scritti e le svagatezze della madre. Iscritti alla scuola Parini, la frequentarono senza risultati eccelsi ma anche senza difficoltà, anzi, si integrarono benissimo imparando talmente bene il dialetto triestino da parlarlo fluidamente.
(Nella Foto Nora con Giorgio e Lucia nel 1918)nora_kids[1]Divenuta una bellissima adolescente, seppur affetta da un leggero strabismo, Lucia iniziò ad avere delle incomprensioni con la madre e dei comportamenti stravaganti. Se le liti, le instabilità della famiglia con i continui trasferimenti di domicilio erano delle concause per il senso di provvisorietà e insicurezza non potevano essere altrettanto imputabili per i disturbi nervosi emersi negli ultimi anni trascorsi a Trieste.

Dopo la definitiva partenza dei Joyce e il trasferimento a Parigi, Lucia troverà delle forme espressive nella danza, cui si dedicò dal 1923 al 1929 per poi frequentare una scuola di disegno, abbandonata per aver deciso di scrivere un romanzo.
lucia-joyce[1]A peggiorare ulteriormente le sue condizioni psichiche fu l’infatuazione per il giovane irlandese Samuel Beckett, allora insegnante alla École Normale Supérieure e collaboratore di James Joyce per la traduzione in francese delle pagine già scritte del Finnegans Wake.
Frequentando la loro casa, Samuel si era offerto di accompagnare Lucia in teatri e ristoranti ma oltre a non esserne innamorato, si accorse della sua instabilità ormai rasente la pazzia.
Quando nel 1930 decise di interrompere i loro rapporti, la ragazza scivolò verso un punto di non ritorno. (nota 3)
Fu anche avanzata l’ipotesi, mai confermata, che si fossero aggiunti dei problemi di salute conseguenti a un aborto, comunque fu accertato che dopo la brusca rottura con Beckett Lucia si abbandonerà a una serie di relazioni promiscue. (nota 4)
La sua situazione non migliorerà nemmeno dopo il breve fidanzamento con Alec Ponisovsky, anzi, da allora alternerà momenti di catatonia a lunghe, sconclusionate affabulazioni. (nota 5)

Tormentato dai sensi di colpa James tenterà l’impossibile per prendersi cura della figlia sia occupandosene in prima persona che girando l’Europa alla ricerca di specialisti e di soluzioni alternative al ricovero.
57a816c2125a0eba4a4c163a1612246b[1]Alla fine del 1936, dopo alcuni tentativi di suicidio, Lucia sarà internata coattivamente in una casa di cura fuori Parigi, dove il padre la raggiungerà ogni settimana.
“Schizofrenica, con elementi pitiatici, catatonica, nevrotica con ciclotimia, schizofrenica” saranno le diagnosi più frequenti dei molti medici che la visiteranno. (nota 6)

Scoppiata la guerra, mal ridotto in salute e profondamente depresso, alla fine del 1940 James sarà costretto a trasferirsi a Zurigo con Nora e il figlio Giorgio con l’intenzione di trasferirvi anche Lucia.
Il 9 gennaio 1941, a poche settimane dal suo arrivo, in preda ad atroci dolori sarà operato per la perforazione di un’ulcera duodenale. Nella notte del 12 le sue condizioni precipiteranno e alle 2.15 del giorno 13 passerà dal coma alla morte.

Lucia apprenderà la notizia da un giornale e solo dopo parecchio tempo dirà a un visitatore: «Cosa sta facendo sotto terra quell’imbecille? Quando si deciderà di andarsene? Ci sta guardando tutto il tempo» (nota 7), uno sbottare che spiega molto del suo sentirsi ancora perseguitata dalla figura paterna.
In balia di una madre e un fratello che si disinteresseranno di lei (nota 8), accudita solo da un paio di amiche, Lucia sarà trasferita al St. Andrew’s Hospital di Northampton (Inghilterra).
(Nella foto l’ospedale psichiatrico)Main_Building_without_cars_and_flagpole_800x530[1]Dopo la morte avvenuta a 75 anni il 12 dicembre 1982, sarà sepolta nel cimitero della città, lontana da tutti i Joyce.
dbImage[1]NOTE:

1. Nel testo JAMES JOYCE Gli anni di Bloom il professor John McCourt avanza l’ipotesi che lo scrittore potesse essere stato afflitto dalla sifilide, il cui esordio potrebbe risalire al maggio dello stesso anno e le cui conseguenze si sarebbero manifestate con altre ricadute nel corso della vita;

2. Al primo piano del palazzetto tra il Corso e via Santa Caterina; qui James Joyce scrisse l’episodio “I Morti” dell’ Ulisse;

3. Negli anni successivi Beckett manterrà comunque un rapporto epistolare anche se discontinuo con Lucia;

4. Dal testo di C.L. Shloss, Lucia Joyce. To Dance in the Wake;
5. Ivi
6. Ivi
7. Ivi

8. Nora Barnacle morirà a Zurigo nel 1951

FONTI:

John McCourt, JAMES JOYCE Gli anni di Bloom, A.Mondadori Ed., Milano, 2004
Per le note relative al testo cit. della Shloss:
http://www.humantrainer.com/articoli/danza-drammatica-padre-figlia.html

INCONTRI Svevo e Joyce

IMG_0660Come si è scritto nel precedente articolo, il 27 maggio 1955 il professor Stanislaus Joyce volle congedarsi dalla sua lunga carriera universitaria con la lettura di “The meeting of Svevo and Joyce,” un breve testo che ripercorreva l’incontro a Trieste dei due scrittori e l’intreccio delle vicende che li portarono alla loro straordinaria fama letteraria.
L’incontro di Ettore Schmitz (nota 1) e James Joyce avvenne alla Berlitz School tra gli anni 1906/07 e la loro immediata quanto reciproca intesa fu seguita da una serie di scambi letterari che nel tempo portarono a clamorosi sviluppi.
Se il ventiquattrenne James durante le noiosissime lezioni svolte a villa Veneziani amava leggere i racconti appena scritti di Gente di Dublino Ettore gli raccontava dell’assoluta indifferenza di critica e di pubblico dopo la pubblicazione nel 1892 del suo libro Una vita constatando che “Uscì nato morto dalla tipografia”.
Ma fu la lettura di Senilità, stampato nel 1898 ancora senza successo, a suscitare l’interesse di Joyce che si espresse con una battuta poi rimasta famosa: “Ma lo sa che Lei è uno scrittore negletto?
Schmitz si commosse fino alle lacrime quando il suo giovane insegnante, squattrinato ma sicuro di sé, dotato di eccellente memoria, recitò brani del romanzo in questione, per il quale più tardi, quando venne tradotto in inglese, egli stesso suggerì il titolo As a Man Grows Older” riferì Stanislaus nel corso della sua lezione, seguitando a raccontare, con un pizzico di umorismo, che Ettore si entusiasmò a tal punto da aver voluto accompagnare James fin sotto casa parlandogli per tutto il tempo delle sue sventure letterarie.

Gli entusiasmi di entrambi furono però sminuiti da alcuni intellettuali triestini come il saggista Giulio Caprin o il presidente della “Minerva” Nicolò Vidacovich che sentendo il nome di Italo Svevo si espressero con un inappellabile dissenso. “Semi-illetterati!” fu il commento di Joyce ritenendo che: “un critico debba avere egli stesso una scintilla di genio in sé per scoprire la scintilla del genio di un altro”.
Nonostante tutto Ettore Schmitz, o meglio il suo irrinunciabile pseudonimo Italo Svevo, dopo lunghi anni di inattività letteraria, riprese a scrivere e ancora ad autopubblicare nel 1923 presso la casa editrice Cappelli il romanzo La coscienza di Zeno. 
“Un grande finanziere e un grande industriale” lo definirono sarcasticamente i critici, “Un fiore nato tra i barili di vernice per le carene delle navi” fu invece il commento di Joyce che dopo aver letto il libro consigliò l’amico, del tutto demoralizzato, a spedirlo con la sua raccomandazione a certi critici francesi.
Va notato che per mio fratello la cosa d’importanza primaria era la soddisfazione dell’artista per la propria opera: il successo presso il pubblico era, invece, una faccenda del tutto secondaria” volle specificare Stanislaus.

Ma finalmente un noto critico francese, provvisto di “qualche scintilla di genio”, apprezzò l’ironica originalità del libro di Zeno e l’anno successivo informò Ettore Schmitz del successo riscontrato nei circoli parigini.
Ottenuti i permessi di pubblicazione e trascorsi i tempi per le traduzioni, alcuni brani di Senilità e de La coscienza di Zeno vennero pubblicati su alcune autorevoli riviste francesi con ottime recensioni.
Italo Svevo, scrittore assai amato da alcuni dei migliori “italianisants” stranieri e ignoto un patria, costituisce il “caso” più singolare che offre oggi la nostra repubblica libresca” scrisse lo scrittore-poeta Eugenio Montale su un articolo del gennaio 1926 apparso su “Il Quindicinale” contribuendo al riconoscimento dei testi sveviani anche in Italia. (note 2 e 3)

Nel ripercorrere le vicende tra i due scrittori il professor Stanislaus Joyce volle però ribadire che buona parte dei riconoscimenti fu dovuta al fratello James, fatto ammesso dallo stesso Svevo con una frase dolce e nello stesso tempo amara: “Joyce mi ha regala to un tramonto dorato”.
Per contro ammise che fu Svevo a fornire a Joyce delle informazioni sull’ebraismo poi usate per il personaggio di Leopoldo Bloom dell’ Ulisse che sarà pubblicato nel 1922 tra un’alternanza di critiche.

Svevo e Joyce Ultimo atto

A Ettore Schmitz rimase poco tempo per assaporare il suo successo: il 12 settembre 1928 ritornando da un periodo di cure termali a Bormio fu coinvolto in un incidente stradale presso Motta di Livenza rimanendo ferito in modo apparentemente non grave (nota 4). Sopravvenuta una grave insufficienza cardiaca morirà 67enne il giorno successivo lasciando incompiuto il suo quarto romanzo che sarebbe stato il seguito de La coscienza di Zeno.
(Nella foto la cappella dei Veneziani al Cimitero Sant’ Anna di Trieste)HPIM0585HPIM0586Dopo l’uscita nel 1922 dell’ Ulisse e nel 1927 delle Poesie da un soldo, con una stesura protratta per 16 anni, nel 1939 James Joyce pubblicherà Finnegans Wake che fu accolto da durissime critiche.
La sua vita era ormai allo sfascio: la salute psico-fisica peggiorava, la figlia Lucia languiva in un ospedale psichiatrico, il figlio Giorgio divenuto alcolista aveva distrutto il suo matrimonio con una ricca ereditiera americana e la guerra era ormai alle porte.
Trasferitosi con Nora a Zurigo nel dicembre 1940, il 9 gennaio 1941 fu ricoverato in ospedale e sottoposto a un’operazione per un ulcera perforata quando già era in atto una peritonite che lo porterà alla morte alle 2.15 del 13 gennaio.
Le sue ceneri si trovano al cimitero di Fluntern a Zurigo (nota 5)4720658236_2d68ee926e[1]

Note:

1. Aron Hector Schmitz nacque a Trieste il 19 dicembre 1861 da un padre ebreo di origine tedesca (il nonno Astolfo era giunto a Trieste come funzionario dell’ Impero asburgico) e da madre italiana. La conversione al cattolicesimo avvenne in occasione del matrimonio con Livia Veneziani nel 1896;

2. Già nel 1925 Montale pubblicando sulla rivista L’esame l’articolo “Omaggio a Italo Svevo” diede inizio alla popolarità dei suoi romanzi.
Il rapporto tra i 2 scrittori continuerà poi con una fitta corrispondenza proseguita fino agli ultimi anni di vita di Ettore Schmitz;

3. Dopo essere passato per i tavoli di vari altri editori il libro Senilità verrà pubblicato nel 1927 dall’editore Morreale;

4. Nell’incidente Svevo riportò una frattura al femore ma le complicazioni furono causate da un enfisema polmonare di cui soffriva da tempo;

5. Nel 1951 sarà sepolta la moglie Nora e nel 1951 il figlio Giorgio.

Fonti:

Stanislaus Joyce, JOYCE NEL GIARDINO DI SVEVO, MGS PRESS, Trieste, 1995
Il manoscritto di Stanislaus Joyce si trova alla Biblioteca Civica di Trieste;
Il testo venne pubblicato dall’Editore Del Bianco di Udine nel 1965.

Il professor Joyce

Menzionando il professor Joyce si penserebbe subito a James Joyce, che fu sicuramente un professore prima di essere riconosciuto come uno dei più grandi scrittori del Novecento, ma si vorrebbe qui ricordare il fratello, professor Stanislaus Joyce, insegnante per 33 anni di Lingua e Corrispondenza inglese all’Università di Trieste, città in cui visse per ben 50 anni e dove sono conservate le sue spoglie.da68c92ea7ff43498a22d472b67669ed (1)Stanislaus, secondogenito dopo James, nacque nel 1884 a Dublino dove passati i tempi di agiatezza, visse anni difficili assieme agli altri 10 fratelli e sorelle.
Il padre John, spendaccione e alcolista, perse tutte le proprietà ereditate e con il modesto lavoro da esattore delle tasse costrinse la numerosa famiglia a grandi ristrettezze, per di più peggiorate dopo la morte nel 1903 della moglie Mary Murray (nella foto)
0a69f23cf994a844bcef12afcc4da49644df7cf4[1]Nell’autunno del 1905 il giovane Stanislaus decise di raggiungere il fratello James a Trieste (nota 1) accettando un impiego come insegnante d’inglese alla Berlitz School (nota 2) dove in seguito divenne vice direttore.
(Nella foto il palazzetto sede della scuola)berlitz_school-trieste-turismoletterario[1]

Nonostante i problemi, le alterne vicende e gli anni di internamento, visse sempre a Trieste senza far più ritorno a Dublino.

Dal momento del suo arrivo in città fu costretto a dare gran parte dei suoi salari per sostenere il fratello con la sua compagna Nora Barnacle e i figli Giorgio e Lucia, che nasceranno rispettivamente nel 1905 e 1907, e per un certo periodo anche le sorelle Eileen ed Eva che James aveva invitato a Trieste senza lontanamente pensare al loro mantenimento.

Durante la Grande Guerra Stanislaus fu coinvolto dai movimenti politici e come cittadino di una nazione nemica dal 1915 al 1918 venne internato nel campo di Katzenau in Austria mentre James riuscì a rifugiarsi nella neutrale Zurigo.
(Nella foto il campo di concentramento austriaco)400px-KatzenauAustrianLager[1]Dopo il 1919 i 2 fratelli si riunirono per un breve quanto turbolento periodo in via Sanità (oggi via Diaz 2) dove viveva la sorella Eileen con il marito Frantisek Schaurek e i loro 2 figli.
Ma a Trieste erano ormai iniziati grandi cambiamenti e nel 1920 James decise di trasferirsi a Parigi permettendo al fratello di occupare il posto di professore d’inglese alla Scuola Superiore di Commercio di fondazione Revoltella (nota 3) che divenne poi sede universitaria e dove insegnò per 33 anni al Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere.
Nella foto la sede della Scuola Superiore di Commercio in via del Torrente (oggi via Carducci 12).Autocertificazione 2978

Nel 1928, ormai 45enne, Stanislaus si sposò con Nelly Lichtensteiger, una sua giovane ex studentessa figlia di un ricco commerciante triestino di origine austriaca; nonostante la differenza di età e di censo, il loro legame fu solido e felice.

Con l’avvento del fascismo avanzarono nuove difficoltà e sebbene si fosse sempre astenuto da esporre qualsiasi posizione politica (nota 4) nel 1936 evitò solo grazie a delle conoscenze di perdere il lavoro all’Università e di essere espulso dall’Italia.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale la situazione precipitò e Stanislaus fu internato a Firenze dove assieme alla moglie Nelly sopravvisse a condizioni atroci. Nonostante le durissime ristrettezze i coniugi Joyce non solo rimasero uniti ma ebbero anche una grande sorpresa: nel 1943, dopo bel 15 anni di matrimonio, nacque il loro unico figlio a cui fu dato il nome di James, come lo zio morto due anni prima.

Per quanto i rapporti con il fratello fossero stati spesso burrascosi, Stanislaus risentì molto la sua scomparsa e se da una parte si fosse lamentato di sentirsi “il fratello bistrattato di un genio”, dall’altra raccolse i suoi manoscritti, salvò carte, lettere e documenti, rilasciando interviste e conferenze, scrivendo articoli su ricordi e aneddoti contribuendo alla raccolta di un materiale biografico che altrimenti sarebbe andato perduto.
A sua volta James, divenuto ormai famoso, nell’ultima lettera inviata al fratello prima di morire, gli trasmise nomi e indirizzi di quanti avrebbero potuto aiutarlo, dimostrando così un’affettuosa riconoscenza per tutti gli aiuti ricevuti durante i loro difficili anni vissuti a Trieste.

Ritornato con la moglie e il figlio a Trieste, Stanislaus riprese l’insegnamento alla facoltà universitaria di Economia e Commercio assumendo contemporaneamente l’incarico di interprete ufficiale del Governo Militare Alleato.

Negli anni Cinquanta, troppo anziano per portare a termine un testo soddisfacente su James Joyce, instaurò un intenso rapporto con Richard Ellmann occupato nella stesura di una colossale biografia dello scrittore.
Come cittadino straniero non ricevette nessuna pensione (nota 5) e trovandosi a 70 anni in una precaria situazioni finanziaria, riordinò tutti gli scritti e documenti del fratello iniziando delle trattative di vendita.

Ufficialmente “pensionato” dall’ottobre 1954 per limiti di età, tenne la sua ultima lezione all’Università il 27 maggio 1955 sull’argomento “The Meeting of Svevo ad Joyce”.
Ricoverato in ospedale pochi giorni dopo, morì il 16 giugno 1955, proprio per il Bloomsday, il giorno entrato nella storia della letteratura in cui svolge la trama dell’ Ulysses. (nota 6)
Dopo l’orazione funebre di Pierpaolo Luzzatto Fegiz il professore Stanislaus Joyce sarà sepolto al Cimitero Evangelico Di Confessione Augustana Ed Elvetica (nota 7)
(Nella foto la tomba di famiglia nel Cimitero Evangelico di via Slavich, 2).IMG_1082Le trattative di tutti gli incartamenti di James Joyce raccolti nel corso degli anni, saranno svolte da Nelly Lichtensteiger, vedova di Stanislaus, che si assicurerà così una sicurezza finanziaria per sé e il piccolo James.

Note:
1. Da una lettera di James al fratello nel settembre del 1905: “Potresti trascorrere qui soltanto un inverno […] e Trieste potrebbe anche risultarti non sgradevole”;

2. La Berlitz School, fondata da Almidano Artifoni nel 1901, si trovava al primo piano del palazzo di via San Nicolò 32 ed era composta da quattro aule.
In seguito divenne la sede storica di Zinelli & Perizzi; oggi si trovano i magazzini Zara;

3. La scuola fu istituita nel 1876 per volontà testamentaria del barone Pasquale Revoltella;

4. Nelle lettere al fratello James confidò però le sue simpatie per la causa italiana;

5. Gli venne comunque elargita una buona liquidazione;

6. “Sulle sue labbra c’era quel sorrisetto ironico che aveva ogni volta che diceva qualcosa di divertente” scrisse la moglie Nelly ricordando gli ultimi momenti di vita;
Era un tipo alto, vestito all’inglese, col frontino del berretto abbassato sugli occhi, un po’ eccentrico, ma spiritoso” scrisse di lui l’allieva Ilse Matisek;

7. Nel 1990 sarà sepolta anche la moglie Nelly Lichtensteiger.
IMG_1083Fonti:

Stanislaus Joyce, Joyce nel giardino di Svevo, MGS PRESS, Trieste, 1995
(Da un articolo del professor John McCourt, autore del saggio “Gli anni di Bloom. James Joyce a Trieste 1904-1920“)

Altre notizie e foto delle abitazioni dei fratelli Joyce su:
http://www.museojoycetrieste.it/joyce-stanislaus/
www.turismoletterario.com

Cronache storiche di Trieste

Giacomo Casanova (Venezia 1725 – Dux 1798) giunto a Trieste il 15 novembre 1772 dopo una lunga e avventurosa permanenza in Polonia, pernottò una stanza nella Locanda Grande di Trieste.
Preso subito contatto con le cortigiane e i cicisbei del bel mondo cittadino, lo sfrontato cavaliere veneziano ricevette però il rifiuto alle sue avances da una bellissima giovane di nome Zanetta. Ormai 47enne, il Casanova dovette accontentarsi di una contadinella goriziana senza però rinunciare, da buon avventuriero, a ingraziarsi le autorità locali con ogni sorta di traffici e sotterfugi.
Nell’attesa della grazia da parte del Consiglio dei Dieci di Venezia dopo la sua avventurosa fuga dai Piombi, era costretto a scrivere indefessamente cercando di procurarsi del denaro con cui vivere. Ma la grazia non giunse affatto e nell’autunno del 1774 abbandonò Trieste continuando la sua odissea esistenziale fino alla morte.
(Rivista La Bora, Trieste, 1978)

 

Napoleone Bonaparte (Ajaccio 1769 – Isola di Sant’Elena 1821) ventottenne e già generale del Corpo d’armata fu di passaggio a Trieste il 29 e 30 aprile 1797.
Dallo storico balcone di palazzo Brigido (attualmente in via Pozzo del Mare, 1) affacciato su Piazza Grande (oggi dell’Unità) assistette a un’improvvisata parata militare in suo onore con un terribile mal di denti.
Già di pessimo umore si offese moltissimo quando ricevette in dono dalle autorità municipali un cavallo lipizzano poiché la larga e possente schiena della pregiata razza equina non gli avrebbe permesso una dignitosa monta a causa della sua altezza (1,55 m.) e delle sue gambe troppo corte. Durante la brevissima permanenza in città ebbe comunque modo di compiacersi osservando le fortificazioni costiere erette da Maria Teresa d’Austria.
(Halupca-Veronese, Trieste nascosta, Lint, 2009)

René de Chateaubriand (Saïnt-Malo 1768 – Parigi 1848) l’illustre precursore del romanticismo francese, giunse a Trieste a mezzanotte del 29 luglio 1806.

Alloggiato nella centrale Locanda Grande contattò il console Louis Maurice Séguier per trovare una nave diretta a Smirne.
Durante la sua breve permanenza Chateaubriand ebbe comunque modo di conoscere la borghesia triestina (fu ospite del Governatore austriaco e di Pietro Sartorio) e di visitare San Giusto omaggiando la tomba delle figlie di Luigi XV, rifugiate a Trieste nel 1799 dopo la fuga da Parigi.
Il letterato visconte partì all’alba del 2 agosto: il suo viaggio sarebbe durato un anno. (La Bora)

Stendhal, ovvero il grande romanziere Henry Beyle (Grenoble 1783 – Parigi 1842) arrivò a Trieste il 25 novembre 1830 con la nomina di console di Francia.

Pernottato l’albergo “Zum schwarzen Adler” (oggi in via San Spiridione 2), lo sconosciuto ospite fu però subito notato dalla polizia asburgica che con serrati pedinamenti rese alquanto sgradevole il suo soggiorno. A peggiorarlo contribuirono anche le sferzanti folate di bora, i mancanti successi amorosi con la cantante Carolna Ungher e madame Goeschen e inoltre le non apprezzate tradizioni culinarie servite a suo dire da camerieri “levantini”. Il soggiorno di Stendhal durerà comunque solo tre mesi e dopo aver ricevuto la nomina di ambasciatore partì per Civitavecchia il 24 dicembre 1830. Da qui, dopo un’altra cocente delusione, deciderà di tornarsene ai suoi quartieri parigini.
(Trieste nascosta, ibid.)

Eleonora Duse (Vigevano 1858 – Pittsburg 1924) appena diciottenne ma già animata dal furor sacro della recitazione, nel 1876 venne scritturata a Trieste come seconda attrice nella compagnia di Adolfo Drago.

Tutt’altro che avvenente e troppo enfatica per il gusto del tempo, la Duse raccolse un amaro fiasco per di più rafforzato dai rimbotti del regista e dei colleghi. Nel 1884, già affermata come attrice, ritornò a Trieste con un ingaggio per tutta la stagione di prosa ma continuò a essere contestata da una parte del pubblico per la sua recitazione e le sue pose ancora eccessive. Con apprezzabile autocritica la Duse seppe tuttavia correggere le sue impostazioni troppo marcate e in seguito riuscì a trasmettere grandi emozioni attraverso i personaggi dell’ Adriana Lecouvreur e de La Locandiera. Quando due anni dopo ritornò con la Compagnia della Città di Roma, esplose anche a Trieste il più sfrenato entusiasmo consacrando Eleonora Duse alla sua fama immortale.
(La Bora)

Giosuè Carducci (Valdicastello 1835 – Bologna 1907) organizzò un furtivo viaggio a Trieste assieme a Lina (Carolina Cristofori), sua musa ispiratrice e moglie di un funzionario statale di Rovigo nonché madre di 3 figli.

I due amanti giunsero il 7 luglio 1878 occupando in incognito una stanza dell’albergo “Buon Pastore” (attuale “Hotel Continentale” di via San Nicolò). Ma già il giorno dopo vennero scoperti da un cronista del giornale “L’Indipendente” e la notizia della loro presenza si sparse in un battibaleno. Accompagnati da Attilio Hortis e Giuseppe Caprin, la coppia visitò la città sempre applauditi da una folla festante e chiassosa che non li entusiasmò affatto. Dopo soli quattro giorni il Carducci senza dar a vedere la sua contrarietà partì fra i gioiosi arrivederci dei triestini, ma a Trieste non ritornò mai più.
Il grande poeta in occasione della sua visita a Miramare omaggerà però il fascino del suo bianco castello e la memoria del “puro, forte, bel Massimiliano” nella stupenda elegia delle Odi barbare “Miramar” (1878).
(Trieste nascosta, ibid.)

 

 

James Joyce (Dublino 1882 – Zurigo 1941) l’eccentrico scrittore irlandese arrivò a Trieste nel 1905 facendo immediatamente notare la sua presenza alla polizia. Appena sceso dal treno con la sua fedele Nora Barnacle, nel giardino della stazione centrale s’imbatté casualmente in una zuffa tra marinai inglesi e austriaci e pensando bene di aiutare i suoi compatrioti si buttò nel mucchio. Joyce trascorrerà così la sua prima notte a Trieste in galera mentre Nora attenderà pazientemente il suo ritorno seduta in una panchina.
(La Bora).

Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Val-mont 1926) L’inquieto e tormentato poeta boemo approdò a Trieste nel 1910 come ospite della principessa Marie Thurn und Taxis nel Castello di Duino.
Per quanto la memoria storica dei suoi lunghi soggiorni triestini vanti l’ispirazione delle sue Elegie duinesi alle suggestive atmosfere delle bianche falesie e al fascino dell’antico castello sul mare, Rilke non lo amò mai veramente apprezzandone piuttosto la ricca biblioteca e le frequentazioni dei suoi coltissimi salotti dove poteva incontrare il fior fiore dei letterati. In una lettera del marzo 1912 a Lou Salomé, sua ex-amante e divenuta poi una sincera e affettuosa amica, Rilke si lamentava infatti della desolazione che lo opprimeva e del pessimo clima della zona, incolpandolo (ma ironicamente compiacendosene) dello stato della sua salute. “Questa costante alternanza di bora e scirocco non fa bene ai miei nervi e perdo le forze nel subire ora l’una ora l’altra” scriveva nella lettera a Lou. E ancora: “È vero, Duino non mi ha mai fatto bene, quasi ci fosse qui troppa elettricità dello stesso segno che mi sovraccarica, proprio il contrario della sensazione che sento al mare”(1). Nella sua vita errabonda Rilke, ormai gravemente ammalato, troverà la sua pace nel clima mite e secco del Vallese (Svizzera), recluso nel suo castelletto-fortezza di Muzot.
Dopo però aver concluso la lunga e sofferta stesura delle Die Duineser Elegien e consapevole della sua imminente morte, pieno di riconoscenza per la dolce e romantica principessa Marie che tanto generosamente lo aveva ospitato e sostenuto, le donerà la proprietà del manoscritto (attualmente conservato nell’Archivio di Stato di Trieste) con una dedica che apparirà su tutte le edizioni dell’opera.
Fonte: R. M. Rilke e Lou Andreas Salomé, Epistolario 1897-1926, La Tartaruga edizioni, Milano, 1975

Bosco Pontini e via Bramante

Conosciuta per aver ospitato in una delle sue case l’illustre scrittore James Joyce (nota 1), la via Bramante vanta un’antichissima origine. Sulle sue tracce esisteva infatti una trafficata strada che dal portale della cinta muraria ancora, ancora oggi visibile dalla via San Giusto, s’incurvava verso l’attuale via Tiepolo per proseguire, attraverso murature difensive, verso l’Istria.
La relazione dei ritrovamenti archeologici sugli “Scavi del Bosco Pontini” (un tempo molto più vasto rispetto all’odierno giardino Basevi), illustrati da Pietro Sticotti nel 1908 (nota 2), rivelarono l’esistenza di un florido quartiere romano sotto le case limitrofe alla scala Joyce di via Bramante. Gli studi dell’architetto Cornelio Budinis stabilirono che lì si trovasse un’officina per la lavorazione del ferro divisa in due distinti locali: l’uno rivestito dal pavimento in mosaici bianchi e neri, l’altro in lastrico di pietra con un tetto sostenuto da 4 pilastri.
Accanto ai locali del fabbro ferraio c’erano quelli del pistorium, granaio d’approvvigionamento delle legioni romane, provvisto di un forno a volta e una finestrella per l’uscita dei fumi. Lo stanzone era dotato di macine a mano, conche per mondare il grano e un bancone per le vendite, manufatti che nel corso dei secoli si sono sorprendentemente salvati. Nella corte adiacente furono rinvenuti il pavimento di arenaria, frammenti della muratura bianca con una striscia decorativa dipinta in rosso e di lato le cantine scavate nella roccia per un’ottimale conservazione delle scorte. L’acqua era assicurata dai vicini due pozzi ciascuno con il canale di scolo diretto verso il mare.
Altri resti sparsi nella zona testimonierebbero l’esistenza di altre officine ma verso il III secolo l’operosità di questo antico borgo venne meno fino a ridursi in rovine usate poi come luoghi sepolcrali privi di nome.

Poco a poco l’area venne del tutto abbandonata e in tutte le zone limitrofe si sviluppò una consistente massa boschiva che lambiva la piana sottostante (corrispondente alla nostra Barriera) estendendosi fino all’attuale via del Bosco.
Nel Medioevo la famiglia patrizia del barone de Fin entrò in possesso di quei vasti e alberati terreni dove costruirono una ricca dimora aggiungendovi nel 1631 una cappella dedicata a Santa Maria Maddalena con un officiatura ecclesiastica protratta fino al 1770.
Passata per un certo periodo in proprietà di un certo Buhelin, fu poi acquistata dal negoziante di borsa Pontini con il cui nome venne identificata la zona boschiva sulle mappe catastali anche quando, nel 1825, passò al signor Pepeu.

Con il progressivi sviluppo della città il Comune decise di tracciare dei nuovi percorsi tra il colle e il rione di Barriera, collegati fino alla fine del Settecento con un tortuoso vicolo inerpicato attraverso l’attuale piazza Vico.
Agli inizi dell’Ottocento vennero così costruite le vie del Bosco e Madonnina (che allora si prolungava fino alla via Bramante) entrambe delimitate dal Bosco Pontini mentre la villa rimase confinata alla Scala Dublino, costruita per collegare il rione della Barriera con quello di San Vito. (Nota 3)

Nel 1839 la tenuta venne acquistata dal deputato triestino al Parlamento di Vienna cav. Giuseppe Basevi che ne affidò la ristrutturazione e l’ampliamento all’ingegner Eugenio Geiringer.
Trasformata in un castello di stampo medievale, nel 1898 l’edificio fu donato al Comune di Trieste.
Ceduto in locazione nel marzo 1898 al governo austro-ungarico l’importante struttura fu adibita a Osservatorio Zentralanstalt für Meteorologie und Geodynamik dotato di un sismografo di tipo Rebeur-Ehrlet e di un potente telescopio astronomico.
In seguito la villa-castello, collocata tra la via Tiepolo e Segantini, divenne sede dell’ Osservatorio Astronomico triestino.

Nel corso del Novecento la zona sotto il Castello di San Giusto ebbe un notevole sviluppo e nell’ultimo tratto di via Madonnina fu abbattuta una parte boschiva per costruire la via Bramante (dal nome dell’architetto Donato) le cui case vennero erette sulle antiche rovine romane sopradescritte.

Qui, al II° piano della casa al numero civico 4, dall’ottobre 1913 alla fine di maggio del 1915 abitò il celebre scrittore James Joyce con la moglie Nora Barnacle e i figli Giorgio e Lucia.

Al numero 10, proprio vicino allo storico cortile del fabbro ferraio, nella casa contrassegnata con il numero civico 10, sorse un’officina per la lavorazione artistica del ferro, divenuta poi famosa per aver costruito la statua alata che ancora oggi svetta sul Faro della Vittoria sul colle di Gretta. (nota 4)

Oggi l’area si estende su livelli diversi in continua pendenza; uno degli accessi al piccolo parco è situato a metà della scala Dublino. Attraverso una cancellata in ferro lavorato si accede ad uno dei viali dove si passeggia all’ ombra dei grandi alberi ed arbusti.
Di aspetto romantico e suggestivo, il giardino si presenta attualmente un po’ “dimenticato” nonostante rappresenti un polmone verde in questa zona di grande traffico.

NOTE:

(1) Una targa posta sulla casa di via Bramante n.4 ricorda che qui fu scritto il primo episodio del suo più famoso romanzo

(2) Pietro Sticotti (Dignano 1870 – Trieste 1953) dal 1898 ricoprì la carica di Direttore del Museo Civico dell’Antichità e la direzione dell’ “Archeografo triestino” fino al 1952;

(3) Negli archivi comunali è riportata la descrizione del parco: “Un magnifico portone a cancelli in ferro dorati” che immette “sotto le volte di antica pergola tra due campi….a un viale di pioppi fino alla casa”. La casa, a due piani, presenta al piano terra un’ampia sala che d’inverno funge da serra. Sono descritti i pergolati con colonne in pietra, un “boschetto opaco” con “annose querce”, noci, olmi e abeti, fiori profumati, “labirintici viali” e un cippo sepolcrale.

(4) Sul modello ideato da Giovanni Mayer, la Vittoria Alata (h. 7 metri) fu sbalzata in rame dall’abile artigiano Giacomo Sreboth che la completò pochi mesi prima della sua morte avvenuta nel gennaio del 1928.

FONTI:
Silvio Rutteri, TRIESTE Spunti dal suo passato, E. Borsatti Editore, Trieste, 1950;
Biblioteche Comune di Trieste.

Gossip storici a Trieste

Giacomo Casanova (Venezia 1725 – Dux 1798)

lobianco767Giunto a Trieste il 15 novembre 1772 pernottò una stanza nella Locanda Grande di Trieste. Preso subito contatto con le cortigiane e i cicisbei del bel mondo cittadino, lo sfrontato cavaliere veneziano ricevette però il rifiuto alle sue avances da una bellissima giovane di nome Zanetta. Già anziano e malato, il Casanova dovette accontentarsi di una contadinella goriziana senza però rinunciare, da buon avventuriero, a ingraziarsi le autorità locali con ogni sorta di traffici e sotterfugi. Nell’attesa della grazia da parte del Cosiglio dei Dieci di Venezia dopo la sua avventurosa fuga dai Piombi, scriveva indefessamente cercando di procurarsi del denaro con cui vivere.

Ottenuta la grazia arrivò nel novembre del 1774 riuscì a ritornare a Venezia ma dopo essere stato definitivamente esiliato nel 1783, continuò la sua odissea esistenziale fino alla morte, avvenuta nel castello di Dux in Polonia nel 1798.

(Da un articolo della rivista La Bora, Trieste, 1978 – Foto da Casanova a Trieste, Luglio Editore, Ts 2015)

 

Napoleone Bonaparte (Ajaccio 1769 – Isola di Sant’Elena 1821)

Napoleone[1]Ventottenne e già generale del Corpo d’armata fu di passaggio a Trieste il 29 e 30 aprile 1797. Dallo storico balcone di palazzo Brigido (attualmente in via Pozzo del Mare, 1) affacciato su Piazza Grande (oggi dell’Unità) assistette a un’improvvisata parata militare in suo onore con un terribile mal di denti. Già di pessimo umore si offese moltissimo quando ricevette in dono dalle autorità municipali un cavallo lipizzano poiché la larga e possente schiena della pregiata razza equina non gli avrebbe permesso una dignitosa monta a causa della sua altezza (1,55 m.) e delle sue gambe troppo corte. Durante la brevissima permanenza in città ebbe comunque modo di compiacersi osservando le fortificazioni costiere erette da Maria Teresa d’Austria.

(Tratto da: Halupca-Veronese, Trieste nascosta, Lint, Trieste,2009)

René de Chateaubriand (Saïnt-Malo 1768 – Parigi 1848)

François-René_de_Chateaubriand_by_Anne-Louis_Girodet_de_Roucy_Trioson[1]L’illustre precursore del romanticismo francese, giunse a Trieste a mezzanotte del 29 luglio 1806. Alloggiato nella centrale Locanda Grande contattò il console Louis Maurice Séguier per trovare una nave diretta a Smirne. Durante la sua breve permanenza Chateaubriand ebbe comunque modo di conoscere la borghesia triestina (fu ospite del Governatore austriaco e di Pietro Sartorio) e di visitare San Giusto omaggiando la tomba delle figlie di Luigi XV, rifugiate a Trieste nel 1799 dopo la fuga da Parigi. Il letterato visconte partì all’alba del 2 agosto: il suo viaggio sarebbe durato un anno.

(Da un articolo della rivista La Bora, 1978)

Stendhal, ovvero il grande romanziere Henry Beyle (Grenoble 1783 – Parigi 1842)

Stendhal_par_Ducis_en_1835[1] Giunse a Trieste il 25 novembre 1830 con la nomina di console di Francia. Pernottato l’albergo “Zum schwarzen Adler” di via San Spiridione 2, lo sconosciuto ospite fu però subito notato dalla polizia asburgica che con serrati pedinamenti rese alquanto sgradevole il suo soggiorno. A peggiorarlo contribuirono anche le sferzanti folate di bora, i mancanti successi amorosi con la cantante Carolna Ungher e madame Goeschen e inoltre le non apprezzate tradizioni culinarie servite a suo dire da camerieri “levantini”. Il soggiorno di Stendhal durerà comunque solo tre mesi e dopo aver ricevuto la nomina di ambasciatore partì per Civitavecchia il 24 dicembre 1830. Da qui, dopo un’altra cocente delusione, deciderà di tornarsene ai suoi quartieri parigini.

(Trieste nascosta, ibid. – Foto di un ritratto di Louis Ducis, 1835)

Eleonora Duse (Vigevano 1858 – Pittsburg 1924)

mostra_d3[1]Appena diciottenne ma già animata dal furor sacro della recitazione, Eleonora Duse venne scritturata nel 1876 come seconda attrice nella compagnia di Adolfo Drago. Tutt’altro che avvenente e troppo enfatica per il gusto del tempo, la Duse raccolse un amaro fiasco per di più rafforzato dai rimbotti del regista e dei colleghi. Nel 1884, già affermata come attrice, ritornò a Trieste con un ingaggio per tutta la stagione di prosa ma continuò a essere contestata da una parte del pubblico per la sua recitazione e le sue pose ancora eccessive. Con apprezzabile autocritica la Duse seppe tuttavia correggere le sue impostazioni troppo marcate e in seguito riuscì a trasmettere grandi emozioni attraverso i personaggi dell’Adriana Lecouvreur e de La Locandiera. Quando due anni dopo ritornò con la Compagnia della Città di Roma, esplose anche a Trieste il più sfrenato entusiasmo consacrando Eleonora Duse alla sua fama immortale.

(Da La Bora, ibid)

Giosuè Carducci (Valdicastello 1835 – Bologna 1907)

00208430[1]Il celebre poeta organizzò un furtivo viaggio a Trieste assieme alla sua musa ispiratrice Lina (Carolina Cristofori in Piva, madre di 3 figli e moglie di un funzionario statale di Rovigo). I due amanti giunsero il 7 luglio 1878 occupando in incognito una stanza dell’albergo “Buon Pastore” (attuale “Hotel Continentale” di via San Nicolò). Ma già il giorno dopo vennero scoperti da un cronista del giornale “L’Indipendente” e la notizia della loro presenza si sparse in un battibaleno. Accompagnati da Attilio Hortis e Giuseppe Caprin, la coppia visitò la città sempre applauditi da una folla festante e chiassosa che non li entusiasmò affatto. Dopo soli quattro giorni il Carducci senza dar a vedere la sua contrarietà partì fra i gioiosi arrivederci dei triestini, ma non ritornò mai più a Trieste.

Il grande poeta in occasione della sua visita a Miramare omaggerà però il fascino del suo bianco castello e la memoria del “puro, forte, bel Massimiliano” nella stupenda elegia delle Odi barbare “Miramar” (1878).

(Trieste nascosta, ibid.)

James Joyce (Dublino 1882 – Zurigo 1941)

crop-e1397934768850[1]L’eccentrico scrittore irlandese arrivò a Trieste nel 1905 facendo immediatamente notare la sua presenza alla polizia. Appena sceso dal treno con la sua fedele Nora Barnacle, nel giardino della stazione centrale s’imbatté casualmente in una zuffa tra marinai inglesi e austriaci e pensando bene di aiutare i suoi compatrioti si buttò nel mucchio. Joyce trascorrerà così la sua prima notte a Trieste in galera mentre Nora attenderà pazientemente il suo ritorno seduta in una panchina. (Da La Bora, ibid)

Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Val-mont 1926)

helmut-westhoff-portrait-of-rainer-maria-rilke-1901[1]L’inquieto e tormentato poeta boemo approdò a Trieste nel 1910 come ospite della principessa Marie Thurn und Taxis nel Castello di Duino. Per quanto la memoria storica dei suoi lunghi soggiorni triestini vanti l’ispirazione delle sue “Elegie duinesi” alle suggestive atmosfere delle bianche falesie e al fascino dell’antico castello sul mare, Rilke non lo amò mai veramente apprezzandone piuttosto la ricca biblioteca e le frequentazioni dei suoi coltissimi salotti dove poteva incontrare il fior fiore dei letterati. In una lettera del marzo 1912 a Lou Salomé, sua ex-amante e divenuta poi una sincera e affettuosa amica, Rilke si lamentava infatti della desolazione che lo opprimeva e del pessimo clima della zona, incolpandolo (ma ironicamente compiacendosene) dello stato della sua salute. “Questa costante alternanza di bora e scirocco non fa bene ai miei nervi e perdo le forze nel subire ora l’una ora l’altra” scriveva nella lettera a Lou. E ancora: “È vero, Duino non mi ha mai fatto bene, quasi ci fosse qui troppa elettricità dello stesso segno che mi sovraccarica, proprio il contrario della sensazione che sento al mare” (nota 1).

Nella sua vita errabonda Rilke, ormai gravemente ammalato, troverà la sua pace nel clima mite e secco del Vallese (Svizzera), recluso nel suo castelletto-fortezza di Muzot. Ma conclusa la sofferta stesura delle mitiche “Die Duineser Elegien” e consapevole della sua imminente morte, pieno di riconoscenza per la dolce e romantica principessa Marie che tanto generosamente lo aveva ospitato e sostenuto, le donerà la proprietà del manoscritto (attualmente conservato nell’Archivio di Stato di Trieste) con una dedica che apparirà su tutte le edizioni dell’opera.

lobianco266(1) Fonte Epistolario 1897-1926, La Tartaruga edizioni, Milano,2002