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Arturo Fittke

A volte però l’ars gratia artis non compensa le fatiche perseguite con tanta passione né appaga gli animi più inquieti provocando sensi di inadeguatezza e frustrazione.
Vorremmo qui ricordare la triste storia di un artista talmente umile e modesto da essere schernito e infine abbandonato nella disperazione della sua breve, infelice vita.

Arturo Fittke nacque a Trieste il 16 dicembre 1873 da genitori nativi di Bredow (a Nord-est dell’attuale Germania, ma all’epoca territorio polacco). Svogliato studente della Scuola Superiore del Commercio, seguì le lezioni di Eugenio Scomparini, insegnante di disegno alle Scuole Industriali (e dal 1907 curatore del Museo Revoltella) scegliendo poi di iscriversi all’Accademia di Monaco, fucina di tutti gli artisti alla ricerca di un’identità autonoma rispetto alle correnti di moda a Parigi.
Ma a soli 23 anni Arturo fu costretto ad abbandonare gli studi per l’improvvisa morte del padre. Costretto al sostentamento della madre e della cognata, abbandonata da un fratello irresponsabile, ritornò a Trieste accettando un misero impiego alle Poste.
Oppresso dall’odiato lavoro, Arturo riservò alla pittura tutte le sue solitarie domeniche che trascorreva in mezzo alla natura riprodotta con colori vividi e luminosi. sfumature di colore.
Il suo carattere timido e modesto, la sua estrema sensibilità, forse “borderline” già in giovane età, lo isolarono però sempre di più dalle intraprendenti vite dei più fortunati colleghi artisti.
Di anno in anno Fittke sprofondò così in una debolezza di nervi accentuata da una salute instabile e da un globale “mobbing” ante litteram che lo condusse a manie psicotiche e persecutorie.
Durante un viaggio di ritorno dall’Austria, nei pressi di Divaccia, dopo l’ultima, tragica notte insonne, il suo cervello implose ben prima del proiettile che lo perforò.
L’incapacità di risolvere i suoi problemi esistenziali, la progressiva perdita della vista e forse l’infausta diagnosi di un medico di Gratz, lo indussero a quel gesto estremo, forse da tempo meditato e solo in parte provocato dalla derisione delle due donne presenti nello scompartimento.(1)
Quando i pochi amici si ritrovarono ammutoliti davanti alla sua bara, solo allora qualcuno ripensò alla sua anima dolce e gentile e ai suoi dipinti pieni di poesia.
A due mesi dalla sua morte i colleghi allestirono un’esposizione dei suoi quadri nelle sale della “Permanente” (l’attuale Caffè degli Specchi in Piazza dell’Unità) e finalmente fu riconosciuto il suo talento.

(1) L’esistenza delle due donne che saltuariamente viaggiavano sulle linee ferroviarie frequentate da Fittke, è riportata in un articolo commemorativo di Livia Veneziani, che assieme al marito Italo Svevo, ospitò spesso l’artista nella loro villa.

Grazie al generoso lascito testamentario della prof.ssa Carlotta Rebecchi, figlia del dott. Giuseppe Piperata che collezionò i quadri di Fittke, 56 dipinti dei 220 eseguiti furono donati ai Civici Musei e nel 2007 collocati stabilmente al Museo Sartorio.

Chiunque si trovasse nelle due stanze a lui dedicate, avvertirà una grande emozione visiva e quasi tattile per le suggestioni che Arturo Fittke seppe imprimere nella sua pittura, anche quando si serviva di semplici cartoni ricoperti in biacca.

Alla prof.ssa Carlotta Rebecchi e alla Sig.ra Fulvia Costantinides, anima mecenate del Museo Sartorio, la nostra riconoscenza per la bellissima raccolta.

Fonte:

Renata da Nova, Arturo Fittke, CRT, 1979

Nella foto la lapide nel Cimitero evangelico donata dagli amici

Sulla triste storia di Arturo ho dedicato un lungo racconto di cui riporto alcuni passaggi (tratti dal libro Sonnenball).

Gli ultimi giorni di Arturo Fittke

Via dello Scoglio, aprile 1910

Dopo aver lavato le poche stoviglie della cena, Arturo le ripose sullo scolapiatti. Aprì un’anta della finestra e guardò se la luna fosse già apparsa sopra le colline di San Giovanni, ma dal bagliore intorno alle nubi più basse si intuiva che doveva ancora alzarsi dagli umidi vapori della valle.
Appoggiò i gomiti sul davanzale e guardò melanconico il viale deserto e privo di suoni. Pensò che sulle fronde degli alberi gli uccelli si fossero stretti negli umili nidi e riscaldandosi con il tepore delle piume, protetti dai pericoli della terra, si fossero abbandonati in sonni tranquilli. Da lassù forse il mondo non appariva loro così ostile.
Purché alla mia pupilla questa luce che pur guarda la tenebra si spenga e più non sappia questo vano tormento senza via né speranza…” (1)
Ripassando i versi del giovane poeta, Arturo avvertì una gran voglia di pace, di un lento abbandono verso un sonno profondo, una discesa verso un tempo non trascorso, dove il dolore non potesse lasciare la sua impronta e la sofferenza potesse sciogliere le sue fitte trame disperdendole negli spazi infiniti del cielo.
Tu mi sei cara mille volte, o morte! Verserai il sonno senza risveglio su quest’occhio che sa di non vedere, così che l’oscurità per me sia spenta…”(2)
Le nubi erano divenute dense ed estese e ogni debole raggio di luna scomparve nel buio della notte.
Osservò la misera cucina illuminata da una fioca lampada a petrolio, e sospirò tristemente.
Dietro la tenda a fiori la piccola dispensa era quasi vuota: il cesto di vimini conteneva tre patate grinzose, due carote rinsecchite e delle foglie di sedano ammosciate. Sullo scaffale erano accatastati i barattoli vuoti delle conserve di salsa e marmellata. In una scatola di latta piena d’acqua biancastra, un pezzo di margarina galleggiava tra le mosche affogate.
Sedutosi sulla seggiola di paglia, poggiò i gomiti sul tavolino e si prese la testa fra le mani. Come poteva essersi illuso di raffigurare le nebbie trafitte dai raggi solari, il riflesso del cielo sulle foglie luccicanti di bruma, i riverberi crudi del mezzogiorno o quelli morbidi del tramonto? I suoi dipinti erano solo macchie di colore, immagini deformi di una natura inanimata e come morta.
Quali inutili mete lo avevano indotto a scrutare valli sazie di sole e di pioggia? Quali distorte visioni erano impresse nei suoi cartoni intrisi di biacca? Quanti volti aveva dipinto fissando il loro immobile silenzio? Mai un sorriso nelle loro espressioni, mai un cenno d’amicizia, di complicità, di allegria.
Tenebre, luce… Ogni ombra fatta dal corpo ombroso minore del lume originale manderà le ombre derivative tinte dal colore della loro origine…” (*)
Gli scritti del Maestro impressi nel suo quaderno di appunti, scorrevano veloci nella sua mente come un rullo in movimento.
Ogni ombra fatta dai corpi si drizza colla linea del mezzo a un solo punto fatto per intersezione di linee luminose ne mezzo dello spazio“. (*)
Ombra maestra, lume incidente e riflesso… Ombra primitiva, ombra derivativa… Luce, tenebre. Pagine su pagine di ombre, linee apparenti, riflessi di luce. Ogni visione percepita dall’occhio poteva essere sezionata in mille possibili frammenti di lumi e ombre. Qualunque rifrazione sui profili dei corpi doveva essere corretta con delle sovrapposizioni di colore per creare i rilievi e dare profondità alle immagini dipinte.
Corpo, figura, colore… Che complessa struttura per rappresentare una sola infinitesimale parte del mondo e racchiuderla in un piccolo spazio quadrato.
Doveva rinunciare a dipingere una natura così mutevole, sottrarsi alle luci violente e accecanti della sfera solare che penetrava nei suoi occhi malati come un inesorabile globo infuocato.
Luce, tenebre… Ombre primitive, ombre derivative. Luci incidenti su corpi ombrosi… Tenebre riflesse su sofferenze infinite.
Arturo levò le mani dalla fronte accaldata e lasciò penzolare le braccia lungo il corpo, standosene immobile sulla sedia con il mento reclinato sul collo.
All’improvviso un vortice di immagini passò per la sua mente. Cumuli di nubi esplosero come masse in rilievo, si trasformavano in pennellate striscianti per poi svanire in lunghe falde sempre più evanescenti fino a lasciare uno sterminato cielo azzurro.
Ma ecco che delle polveri si sollevano dal suolo intorbidendo la trasparenza dell’aria. Un’ansia crescente gli strinse la gola e un getto di sudore gli imperlò la fronte. Percepiva le gocce scivolare sulla pelle, infilarsi nel colletto e scendere sul petto.
Un alito leggero gli rinfrescò le tempie. L’erba dei prati seguiva il flusso delle folate, le foglie si scompigliavano sui rami con un fruscio sempre più forte finché dei sibili si infiltrarono tra i rami piegandoli con le crescenti raffiche e in poco tempo la furia del vento gonfiò i nembi all’orizzonte che avanzavano saturi d’acqua.
Piccole stille uscirono dalle sue palpebre abbassate, scesero lente sulle gote scavate e caddero sulle ginocchia serrate in una tensione senza tregua. La tempesta annunciata scomparve dal quadro ormai avvolto dalle tenebre.
Un gran gelo pervase il suo corpo. Con immensa fatica si sforzò di muovere le braccia ancora pendenti e le gambe appesantite. Volgendo la testa vide che un raggio di luna rifletteva sul pavimento il telaio della finestra, formando una grande croce. Tremante di freddo, trovò la forza di alzarsi e chiudere l’imposta rimasta socchiusa.
Luce… Tenebre… Un’eterna sequenza senza alcun fine. Tenebre spazzate dalle luci del giorno, dall’implacabile sfera solare che dominava il mondo e accecava i suoi occhi malati.
Con le spalle protese, ingobbito sulla schiena scheletrica, si diresse verso il suo stanzino in punta dei piedi per non far scricchiolare le vecchie assi del corridoio. Da una porta socchiusa sentì il respiro tranquillo dell’anziana madre e il silenzio nella stanza dove dormivano la cognata e la bambina.
Troppo stremato e infreddolito per spogliarsi, si stese vestito sulla branda e si coprì con la coperta.
A volte quella condizione di provvisorietà lo induceva a un sonno rapido e profondo, così poteva riposare per qualche ora senza sogni né pensieri. Ma se la notte fosse stata lunga, allora immaginava di dipingere dei quadri perfetti. Poteva osservare i chiaroscuri delle foglie sovrapposte, il verde più intenso del lato superiore e quello più pallido del lato inferiore, scorgere le loro punte drizzarsi verso l’alto per trarre forza dalla luce del sole e nutrimento dagli umori del cielo. Quando il calore del sole avesse bruciato la loro linfa, si sarebbero flesse verso i rami più bassi, per cercare l’ombra e la frescura vicino a quelli più vecchi, già inclinati per cogliere gli umori della terra e la rugiada dell’erba. Immaginava che l’aria delle valli salisse liberamente aggregandosi in deboli nuvole ora dissolte dal calore del sole, ora condensate dal vento da loro stesse causato.
Era bello essere altrove. Seguire le luci e le ombre sul paesaggio che mutava di colore e densità, come in un quadro animato dove potersi abbandonare e trovare pace.
Ma l’angoscia di quella notte lo avvolgeva con le sue perfide spire e se avesse ceduto al sonno, gli incubi non gli avrebbero dato tregua fino ai chiarori dell’alba.
Il debole riverbero della mezzaluna impallidiva sulle crepe dei muri ingialliti dall’umidità fino a spegnersi del tutto, lasciando la stanza nella penombra diffusa dai lampioni del viale.
In preda a un’incontenibile agitazione, si alzò e appoggiando la coperta sulle spalle, si diresse a tentoni verso il tavolino. Acceso il paralume, rovistò fra la risma di cartoni appoggiati al muro scegliendone due di piccole dimensioni.
In un vaso vuoto versò della biacca di zinco, mezza lamina di colla di pesce e uno spruzzo di scagliola. Aggiungendo poche gocce d’acqua alla volta, miscelò il tutto fino ad ottenere un liquido opaco e sufficientemente denso che poi stese con il pennello piatto sulle superfici dei cartoni. La polvere di gesso avrebbe assorbito i colori mentre l’aggiunta della colla ne assicurava una maggiore trasparenza.
Sentendosi alla fine molto stanco, decise di rimettersi a letto.
Il tepore della coperta e lo sfinimento della sua mente lo accompagnarono dolcemente in un sonno profondo.

(1) – (2) Carlo Michelstaeder “Dialogo della salute e altri dialoghi“, Adelphi, Milano, 1988)

(*) L. da Vinci “Trattato della pittura

[…]

Seduto accanto al tavolino della sua stanza, Arturo fissava la finestra con sguardo assente.

Era notte, una notte come altre tante notti, senza luci né suoni. Una rotazione di 180 gradi in quarantatremiladuecento secondi se fosse stata una notte di equinozio, ma mancavano esattamente sessanta giorni al solstizio estivo e l’angolo di luce sarebbe stato inferiore di 60 gradi nella rotazione delle 24 ore del giorno, cioè quattordicimilaquattrocento secondi di più oscurità. Ma anche nelle brevi notti del solstizio estivo, il tempo sarebbe trascorso troppo lento, nell’attesa di quel sonno che gli sfuggiva o sfiorava appena i suoi occhi.
Osservò il grosso libro delle Sacre Scritture appoggiato sul tavolo e attirandolo a sé, lo aprì sulla pagina segnata dal nastro rosso.
Che vantaggio ha l’uomo di tutta la sua fatica e dell’affanno del suo cuore onde si travagliò sotto il sole?
Son pieni di dolore e di cruccio tutti i suoi dì e neppure la notte non riposa col cuore”
Con l’indice della mano destra si asciugò l’occhio inumidito.
Breve e molesto è il tempo della nostra vita … e non c’è rimedio quando per uno è giunta la fine“.
“Quando per uno è giunta la fine…” ripeté a bassa voce. Sollevò lo sguardo verso la finestra e fissò la croce fra i quattro rettangoli delle lastre. Una luce azzurra filtrò obliquamente sfumandosi sul grigio della parete. “Il passar di un’ombra è la nostra vita…”
Millequattrocentoquaranta ore al solstizio d’estate. “Non c’è rimedio quando per uno è giunta la fine” pensò sospirando.
Appoggiando il libro sulle ginocchia, Arturo passò più volte l’indice sulla riga sottolineata con la matita rossa:
Saremo poi come non fossimo mai stati“. Saremo poi…, mormorò sottovoce. Lasciando il dito sul foglio, continuò a pensare a quelle parole con gli occhi chiusi.
Le fioche luci della stanza filtravano appena sotto le palpebre e fluttuavano nell’oscurità come piccole stelle.
Se saremo come non fossimo mai stati non potrà esserci che il Nulla, l’Eterno Nulla, anche se quel “Saremo poi” lascerebbe presupporre un futuro a quello che saremo dopo la fine… Un noi diverso da quello che eravamo prima, un noi sconosciuto, che forse non sarebbe nemmeno esistito.
Con il respiro divenuto affannoso, aperse le labbra contratte per cercare un po’ d’aria.
Ridestandosi dopo un tempo indefinito, riprese la lettura, sulla riga ancora segnata dall’indice:
Si ridurrà in cenere nostro corpo, lo spirito si dissiperà come aria leggera.”
Ecco, non saremo che cenere… Piccole, insignificanti scaglie di cenere, talmente impalpabili da disperdersi nell’aria, mescolate con altre inerti particelle di cenere, sofferenze dissolte e tramutate assieme alla decomposizione del corpo.
Passerà la nostra vita come una nube … e si scioglierà come nebbia spinta dai raggi del sole.”
Un brivido lo attraversò lungo il dorso e un sussulto fece tremare la sua mano. Una nube di cenere …una nube impregnata da tutto il nostro dolore. Ma i raggi del sole l’avrebbero perforata trasformandola in tanti piccoli cristalli che avrebbero riflesso la loro luce e le polveri di immonda materia, priva di anima e compassione, sarebbero svanite nel riverbero della loro purezza.
Sotto le dita appoggiate a palmo sul libro, Arturo avvertì che la pagina si era inumidita dalle sue lacrime.
Milletrecentonovantadue ore al solstizio d’estate. Non c’era rimedio quando per uno era giunta la fine.

(Versi da Lettere di SanPaolo)

[…]

Scompartimento della linea ferroviaria Gratz – Divaccia. 24 aprile 1910

Uno sghignazzo sovrapposto ai rumori del treno in corsa, lo fece trasalire. Nella panca di fianco alla sua, una donna parlottava con la sua vicina che ascoltandola, emetteva dei risolini intervallati da sghignazzi più sonori. A tratti però si fermava e lo guardava con faccia ilare come se il suo parlare fosse esilarante anche per lei, seppure non quanto lo fosse per l’amica.
Arturo non si era accorto della loro presenza. Forse stava sonnecchiando quando erano salite, o avevano parlato sottovoce. Ma ora qualche imperscrutabile motivo da lui indotto, aveva destato il loro sollazzo. Assalito da un’incontenibile angoscia, chiuse con un colpo secco il suo libro appoggiandolo rovesciato sul sedile. Ciò sembrò divertire le due sciocche comari che esplosero in un’ilarità senza ritegno.
L’enorme peso della sua sofferenza repressa stava per esplodere davanti gli sguardi di quelle miserabili donnine che non smettevano di osservarlo. Le loro bocche volgari si aprivano a dismisura lasciando intravedere le lunghe lingue sprezzanti ma ancora troppo corte per soffocare quelle ugole malvagie.
Ma presto il loro urlo avrebbe strozzato quelle gole avvezze alla maldicenza, la sconvolgente visione riuscirà a violentare i loro occhi indiscreti turbando per sempre le loro anime ingenerose. L’orrore di quel che vedranno non sarà mai cancellato dalle loro povere vite, inconsapevoli provocatrici del suo coraggio disperato.
Annichilito da quanto ormai stava per accadere, Arturo non si alzò.
Chinandosi appena, prese la valigia di legno e l’appoggiò sulle ginocchia, roteando l’apertura verso il finestrino. La mano tremante strinse la canna d’acciaio. Era rigida e fredda.
Guardò la lastra del finestrino e vide riflessi i suoi occhi infossati sotto le tempie madide e bianche.
Un assoluto silenzio avvolse per un attimo lo scompartimento prima dell’esplosione.

Gabriella Amstici

 

 

Concerto al Castello

Vestito di tutto punto e al meglio della sua eleganza, Rainer prese il quaderno con i recenti versi pensando di leggerli dopo il concerto, seppur proponendoli come bozza. Ne era sufficientemente soddisfatto e ritenne che potessero essere una presentazione di sé in deferenza all’ospitalità che gli era stata offerta.
All’ingresso del Salone trovò Marie, che allegra ed elegantissima, lo prese per mano e lo condusse verso i salotti laterali.
– Venga Rainer, Le presento mio marito, il principe Taxis, mio figlio Alexander, sua moglie Marie e…. – guardandosi attorno però, inaspettatamente scomparve.
– Ohh signor Ilke, che piacere! Mia moglie mi ha parlato molto di Voi. Ho saputo che amate la caccia! – disse il principe stringendogli vigorosamente la mano. – Siete arrivato proprio al momento giusto! Mi ero proprio stancato di prendere solo dei fagiani, sono così insulsi… Ora sui monti dell’Ermada stanno pascolando dei piccoli caprioli: loro sì che hanno una carne tenera e saporita! Questo è mio figlio Alexander, bel ragazzo vero? Un vero principe! E questa è mia nuora Marie… Non è deliziosa?
– Onorato… – disse Rilke spaesato, chinando la testa.
– Piacere mio, caro dottor Rilke – rispose il giovane Alexander. – Non sapevo Vi piacesse la caccia. Di solito i letterati la detestano quanto chi ama la musica, vero cara?
– I miei figli non potrebbero neppure pensare di…
– Vogliate scusarmi. – proferì il principe Taxis – Continueremo dopo. Lietissimo signor Ilke… – e si diresse verso una coppia che stava entrando, già accolta dalle attenzioni di Marie.
– Dunque, dottor Rilke… – continuò Alexander – Voi parlate perfettamente il francese, giusto? Mi chiedevo se Vi occupate anche di traduzioni… Conoscete Mallarmé? Lo conoscerete senz’altro, che domanda! Sapete, il mio francese è piuttosto buono e a leggerlo solitamente lo comprendo, ma Mallarmé è davvero ostico, non Vi pare? Pensando di tradurre una parola non si comprende bene il verso, e anche quando ci si riesce, sfugge il senso.
– Straordinario l’incontro della poesia con lo studio del verso! – rispose Rainer prontamente.
– Il fatto è che quando si termina il poema non si è capito quasi nulla.
– Potrebbe darsi fosse necessaria una rilettura.
– O potrebbe darsi non ci fosse molto da capire, perché vedete, carissimo Rilke, una composizione può essere musicale… Per scrivere ci sono gli scrittori, per meditare ci sono i filosofi…
– Il poema racchiude tutto ciò, Sua Altezza, in una sintesi che estrinseca la materia con il sovrasensibile, il reale con la “res sensibilis”, che congiunge la nostra anima con quella di tutte le cose intorno a noi.
– Interessante quanto mi dite. Insomma questo Mallarmé ha scritto una lirica, L’après-midi d’un faune, che io ammetto di non avere forse capito, ma quando Claude Debussy la musicò, ecco, la suggestione sonora prese la forma di quel bosco popolato da gnomi, folletti e incantevoli fate che danzavano accompagnate da soavi flauti…
– Voi pensate dunque che la visione sia stata di Debussy anziché di Mallarmè che gliel’ha ispirata? Non potrebbe invece essere un’immagine Vostra?
– Oh magnifico! Effettivamente sono delle forme d’arte e questo modo d’interpretarle è davvero geniale! È un nuovo linguaggio, un felice incontro poetico!
Io amo moltissimo la musica, ma trovo così difficili gli spartiti musicali e così dure le corde del violino… Mi esercito da anni, ma non sono mai riuscito a dominare del tutto quello strumento, vero cara? – e osservò la moglie che lo guardava adorante.
– La mia paziente consorte non solo sopporta le mie esercitazioni, ma mi incoraggia pure! Allora pensate di tradurre questo astruso Mallarmè?
– Per la verità sono già occupato nelle astrusità mie per riuscire a occuparmi di quelle degli altri! Ma Vi prometto che se trovo qualche buona traduzione già stampata, Ve la spedirò senz’altro.
Degli applausi interruppero la conversazione. I musicisti stavano entrando nel salone e occupati i loro posti, iniziarono ad accordare gli strumenti.
– Avete ricevuto il programma, dottor Rilke? – chiese Alexander. – Purtroppo il nostro quartetto manca del signor Janesich, momentaneamente indisposto, così si è pensato di eseguire un trio, il Klaviertrios di Schubert. Peccato però, avrei desiderato ascoltare il Quartetto in la minore di Beethoven, proprio l’ultimo. Difficilissimo pezzo musicale, già di rottura con gli schemi classici, quasi antesignano della musica di fine secolo, grandiosamente creata dai Russi e…
– Alexander, per favore! – sussurrò la moglie strattonandogli delicatamente il braccio.
– Certo cara. Lietissimo di averVi conosciuto dottor Rilke! Avremo molto da discutere fra poesia, musica, arte…
– Con vero piacere, Sua Altezza.
Cercando inutilmente un posto defilato e vicino alla porta d’ingresso, Rainer fu alfine costretto a sedersi nella prima fila, accanto alla principessa e a suo marito, già in assetto composto, immobile e come assente. Sbirciando il programma che Marie gli passò con un gran sorriso e vedendo che erano previsti solamente due pezzi, pensò che per fortuna i concerti privati erano piuttosto brevi, considerato che venivano seguiti dai ricevimenti.
Ma fin dalle prime battute del concerto, fu investito dalla esplosione di una musica così sonora da risultare quasi assordante per il suo udito ipersensibile e gli accordi polifonici erano talmente vigorosi da farlo ricredere sulla fama romantica di Schubert.
Osservò il leggero movimento dei tendaggi e pensò che le folate di bora dovevano aver provocato un certo eccitamento all’estro interpretativo. Oppure il frastuono era causato dalla particolare risonanza del salone, non troppo adatto per una musica che di solito si ascoltava nei teatri, mentre nelle sale private venivano giustamente eseguite musiche da Camera.
La risonanza del violoncello era talmente penetrante da sentirla rimbombare nei timpani e propagarsi nei polmoni, che nella ricerca di ossigeno, costringevano il povero muscolo cardiaco a un surplus contrattile. Il suo volto sembrò rinsecchirsi dal calore che si concentrava nelle meningi degli emisferi cerebrali, ormai del tutto starati.
Come la cavernosa voce del violoncello si fermava, partiva quella acuta del violino, per poi sovrapporsi entrambe ma seguendo ognuna il suo motivo, per di più inframmezzato dalle note del pianoforte che seguiva ora l’uno ora l’altro, oppure, peggio ancora, li sovrastava entrambi con un eccesso di toni forti. Ormai avvolto dal panico, avvertì che il suo sommovimento sensoriale stava debordando dall’arduo controllo psicofisico fino a degenerare in uno stato extracorporeo.
Dopo un indefinito tempo di tale supplizio, un pietoso tappo occluse le sue personali quanto silenti trombe d’Eustachio, ma la sensazione che ne derivò si rivelò peggiore del male che l’aveva causata. Quell’improvvisa afasia uditiva aumentò la pressione endocranica a un livello ormai prossimo allo scoppio.
Il risultato fu un senso d’irrealtà talmente terrificante che gli sembrò di essere stato colpito da una paralisi fulminea. In un abisso di terrore vedeva i musicisti agitare su e giù gli archi dei loro strumenti e il pianista picchiare furioso i tasti del piano da destra a sinistra, nella mostruosa eco di suoni deformi. Alle sue spalle percepiva la folla umana che ascoltava estasiata quell’orrore sonoro mentre lui ne era compresso come fosse in mezzo alla forza centripeta di una voragine.
Incollato alla sedia, si sforzò di aumentare la profondità del respiro, ma il diaframma bloccato dall’angoscia, lo costrinse a respirare con la bocca aperta, sperando che si paralizzasse anche il labbro superiore per evitare almeno il suo imbarazzante tic nervoso.
Dopo un indicibile tempo di tale sofferenza, i boati cessarono e il suono degli applausi lo riportò a una percezione acustica più normale.
– Che splendido brano musicale! – sentì dire distintamente. Girando con fatica il collo irrigidito, incontrò lo sguardo radioso di Marie che applaudiva con entusiasmo.
“E che fortuna non fosse stato di un quartetto… Essendo un trio, era mancato il quarto elemento per la dipartita finale” pensò ancora stravolto.
– Siete accaldato, Rainer! So che non è abituato al particolare sonoro di una sala! Ma hanno suonato divinamente, vero? Che affiatamento!!
Rilke abbozzò un sorriso e si sforzò di applaudire, incapace di proferire parola.
Le congratulazioni ai musicisti e i commenti fra gli invitati gli diedero comunque una certa tregua. Ancora immobile, cercava di riprendere l’assetto mentale, o più precisamente, di sbloccare il plesso solare collegandolo al centro cerebrale. I rumori della sala sarebbero stati accettabili se l’insieme vociferante non fosse stato quasi più fastidioso di quel persistente tappo acustico, ma ciò che ora lo preoccupava era il potersi ritrovare vis-à-vis con il principe Taxis e i suoi poveri caprioli… Ma che diamine, sarebbe bastato spiegare il malinteso, non doveva mica scusarsi. Piuttosto sarebbe stato più impegnativo l’incontro con il principe Alexander, così edotto in cultura musicale.
Comunque nessuno sembrava curarsi di lui e alzandosi lentamente, constatò di aver superato il malessere causato da quei fragori, pur necessitando di aria fresca.
Osservò le tende e si accorse che avevano ripreso il loro consueto aplomb, dunque presunse che la bora si fosse calmata, ma non poteva certo sparire dietro a esse per uscirsene come un ladro. Doveva piuttosto trovare un pretesto per defilarsi con una certa eleganza.
Vedendo gli ospiti impegnati a parlare fra loro e Annette che andava e veniva con i vassoi dello champagne, decise di affiancarla e seguirla; così semplicemente uscì, senza essere richiamato.
Percorso il corridoio, scese al primo piano e dopo aver attraversato il salotto rosso, aprì la porta finestra della terrazza.
Il tumulto ventoso della mattina era del tutto svanito, salvo qualche breve folata che si disperdeva verso un cielo limpido e stellato. Nel golfo ancora agitato, le onde si frangevano sulla scogliera, rincorrendosi verso i profili delle coste.
Si trovava davvero in una strana parte di mondo, in altre terre di Leidland con le loro antiche leggende, la memoria di anime tormentate che qui avevano vissuto, amato, sofferto. I suoi lidi emanavano odori di bosco ma le loro brume potevano essere foriere di raffiche furiose; i flutti del mare spargevano profumi di salsedine ma poi montavano in schiume rabbiose.
Qui si percepiva il respiro della terra, sia che fosse flagellata dai venti o accarezzata dalle brezze.
Levò lo sguardo verso le mura di quel castello così pulsante di vita, avvolto dal suono dei violini e dal coro degli uccelli.
Ripensò alla piccola fortezza di Muzot, alle sue valli smosse dalle leggere arie di collina, ai suoi silenzi sotto cieli infiniti, alle sue storie di vita e di morte.
“ Le sofferenze mi seguiranno ovunque io andrò. In tutte le terre di Leidland ritroverò i miei tormenti…” pensò con infinita malinconia.
Ridestandosi dal suo stupore, ormai pervaso da una grande pace, s’incamminò verso le finestre illuminate.

(Da “Le Terre di Leidland” inedito di Gabriella Amstici)

“BEETHOVEN”: un quadro copiatissimo

Questo famoso quadro intitolato “Beethoven” troneggia da più di un secolo in una Sala del Museo Revoltella di Trieste.
L’immagine dello scenografico dipinto (ben 4,20 metri per un’altezza di 2,02) non solo cattura gli sguardi per la sua suggestiva atmosfera ma racconta anche una tormentata quanto romantica storia iniziata alla fine dell’Ottocento in una vecchia soffitta di Montmartre. L’artistica mano che ha immortalato l’imponente tela appartiene all’artista toscano Lionello Balestrieri, nato in un’umile famiglia della dolce Valle dell’Oro a Cetona (Siena) nel lontano 1872. Dopo aver frequentato l’Accademia di Napoli gestita dal pittore Domenico Morelli ed essersi consacrato alle arti figurative, con l’entusiasmo della sua giovane età si trasferì a Parigi aspirando a raggiungere la fama o quantomeno a sbarcare il lunario. Come molti altri ragazzi di belle speranze ma di alterne fortune che pullulavano nei quartieri di Montmartre e Pigalle, Lionello visse e lavorò tra delusioni e difficoltà economiche dividendo i sogni e i miseri pasti con degli amici impegnati in varie specialità artistiche. Tra loro si unì il violinista Giuseppe Vannicola (Montegiorgio 1876 – Capri 1915), scapestrato rampollo di una benestante famiglia ascolana, dotato di notevole talento ma affetto da smodate manie esecutive. Costui era stato suggestionato dal singolare caso scaturito dall’estro del violinista inglese G. A. Bridgetower (1779-1860) che osò interpretare una sonata di Beethoven con un tale virtuosismo da indurre il maestro a inserire le sue variazioni nello spartito dell’opera. Con l’abile uso del violino il Bridgetower vi impresse infatti degli scatti rudi e selvaggi animati da un possente quanto spettacolare virtuosismo da trasformare di fatto l’originale testo beethoveniano (1). Così il creativo Vannicola amava eseguire arie famose apportandovi inedite performances secondo l’estro del momento. Le bizzarre esecuzioni che sottoponeva all’ascolto degli amici di sventura, sfinivano però l’esigua quanto annoiata platea suscitando i loro vivaci rimbrotti, scaturiti anche da abbondanti libagioni di laudano e del terribile assenzio.
“La musica è il grido terribile e supplicante che si leva dai luoghi profondi dell’abisso. La scala è il simbolo della sua ascensione, una scala infinibile che non ha inizio né fine” scrisse l’eccentrico violinista in una delle sue enfatiche pubblicazioni dove alternava l’esaltazione della musica tra l’amor sacro e l’amor profano. Dopo un’improvvisa quanto breve crisi mistica vissuta nell’Abbazia di Montecassino, il poliedrico artista s’innamorò perdutamente della ricca e aristocratica russa Olga de Lichnizki, iniziando un periodo di furore bibliofilo che non lo portò a una particolare fama ma che lenì la disperazione per essere stato costretto ad abbandonare il suo amato strumento per le conseguenze di una tremenda e progressiva artrite deformante.
“Spesso deliziava le pause delle nostre notti consacrate allo spiritismo con delle inebrianti cavate del suo magistrale violino”  lo ricordò il futurista Marinetti all’epoca in cui fiorivano le Riviste artistiche e letterarie.
Ma né la musica né la scrittura riuscirono a placare i tormenti esistenziali del Vannicola, esasperati dalla malattia e dallo smodato uso di sostanze alcoliche che lo condussero alla miseria e poi a un’improvvisa, tragica morte avvenuta in una spiaggia di Capri il 10 agosto 1915.

Durante gli anni di stenti vissuti nelle soffitte di Montmartre, il Balestrieri ideò di dipingere un grande quadro che rappresentasse quelle serate animate dall’amico Vannicola al cospetto dei suoi compagni di sventura. Dopo un estenuante lavoro il risultato finale fu talmente soddisfacente da destare immediatamente l’interesse dei mercanti d’arte e soprattutto di un astuto editore tedesco che con grande tempismo acquistò i diritti di riproduzione dell’opera. Il giovane e ingenuo Balestrieri, pagato con una cifra piuttosto modesta, non comprese subito il danno che gli sarebbe derivato né tantomeno immaginò di vincere il primo premio della prestigiosa Esposizione Internazionale al Salon di Parigi nell’anno 1900. Nonostante il “Beethoven” fosse stato stroncato da alcune poco benevole critiche della “Gazzette des Beaux Arts” e di qualche collega invidioso, l’opera pittorica fu molto apprezzata per la sua magica scena musicale che infatti fu copiatissima.
Stupito dall’inaspettata fortuna il Balestrieri osò sperare che il quadro fosse acquistato dal Governo Italiano quantomeno nell’esposizione alla IV Biennale di Venezia dell’anno successivo. Fatto che non avvenne ma che permise l’acquisto da parte dell’importante Galleria d’Arte del Museo Revoltella di Trieste dove ancora oggi si trova e suscitando dopo più di un secolo le stesse emozioni di allora.
Dopo il clamoroso successo conquistato a Parigi, il Balestrieri ritornò in Italia dove continuò a lavorare indefessamente su bozzetti, studi, disegni per collezionisti e scenografi ottenendo anche la presidenza della Società degli Artisti Italiani. Oltre ai quadri che espose in tutta Europa e perfino a Buenos Aires, in riscatto di tutte le scadenti copie del suo “Beethoven” si dedicò anche allo studio dell’incisione (metodo che permetteva appunto una facile riproduzione) e abbinando pennelli e bulino acquisì la capacità di eseguire lavori in punta secca, acquaforte e acquatinta. Così, dopo una lunga quanto infruttuosa corrispondenza con il curatorio del Museo Revoltella per impedire ulteriori copie del suo famosissimo quadro, Lionello Balestrieri divenne paradossalmente il riproduttore di sé stesso, riducendo i tempi d’esecuzione e aumentando i suoi guadagni.
Nel 1958 concluse la sua una lunga vita di lavoro e di soddisfazioni nella nativa Valle dell’Oro a Cetona.

Nel quadro “Beethoven” sopra riportato si riconosce in primo piano lo stesso Lionello Balestrieri corrucciato e indifferente all’abbraccio della ragazza con lo sguardo perduto. Sul lato destro è raffigurato il violinista Giuseppe Vannicola accompagnato al piano da un uomo di spalle che sta suonando per l’uditorio di amici. Sullo sfondo si nota una copia in gesso della maschera mortuaria di Beethoven.

(1) La Sonata per pianoforte e violino op. 47 di Ludwig van Beethoven, forse per una ripicca verso il musicista inglese che sfidò il suo genio, fu poi curiosamente intitolata “Sonata Kreutzer” dal nome del violinista francese che riportò le variazioi interpretative del Bridgeower nella pubblicazione dello spartito (1805).

Fonti:

Lionello Balestrieri, Edizioni Pananti, Firenze, 2000

Grande storia della musica, Fabbri Editori, Milano 1978

Giuseppe Vannicola, Il veleno, Sellerio Ed.,Palermo, 1981

PARIGI – gennaio 1910” (Da Le terre di Leidland, Gabriella Amstici, Trieste, 2010)

“Consumato un frugale pasto al bistrot Nicot di via Raspail, Rainer decise di raggiungere a piedi la stazione di Varenne in direzione Pigalle. Trovandosi in mezzo al caotico via-vai cittadino e intirizzito dalle umide e fredde correnti del Nord, quasi si pentì d’essersi allontanato dalla pace del suo studio, ma ormai la passeggiata era stata decisa e conveniva quindi predisporsi a un pomeriggio piacevole.
Dopo il percorso sull’affollato metrò, scese alla stazione d’Anvers per risalire verso piazza Saint-Pierre. Alzando lo sguardo vide la collina sotto Montmartre, già prossima alle fioriture primaverili che si annunciavano con minuscole gemme sugli alberi e sottili fili d’erba fra la terra ancora arida.
Gruppi di giovani e di turisti si avviavano con passi spediti verso la cattedrale del Sacro Cuore, che si stagliava imponente e bianca nell’indaco del cielo.
Fermatosi per riprendere fiato dopo le prime salite, Rilke si appoggiò su uno dei terrazzi: Parigi si stendeva come uno smisurato, immobile plastico sotto un velo di nebbia acceso dalle luci giallastre della città e dai riverberi grigioverdi dei tetti. La sua mente era ora libera da ogni affanno mentre sentiva di dover salire fin lassù per uno strano richiamo interiore. Poi sarebbe stato forse colto dall’immensità del Nulla, come spesso gli accadeva quando si trovava appena più in alto della consueta dimensione rasoterra, tuttavia voleva procedere. “Weiter oben!” dunque. Aveva trascorso mezza vita nell’andare sempre avanti, pur senza aver avuto mai un vero punto di partenza e meno che mai di arrivo.
Riprendendo a risalire le scalinate a forma di due ottagoni, proprio sotto il Belvedere di rue Lamark, avvertì degli intensi odori di legni bruciati mischiati a quello dell’affumicatura di carni grasse.
Superate le ultime terrazze, l’altera cattedrale era ormai davanti a lui. Stregato da quell’atmosfera, seguì la scia di gente che si avviava verso il cuore di Montmartre con vo-ci e risate sguaiate, del resto intonate alle loro appariscenti sciatterie. Giovani fanciulle dai volti involgariti da trucchi marcati e approssimativi, si guardavano intorno con maliziosi sorrisi rivolti ai numerosi uomini che si aggiravano solitari, e strusciando fra le loro sudicie gonne, scostavano e riavvolgevano i pesanti scialli di lane stinte, lasciando intravedere le generose scollature.
Rilke, osservando la folla che voleva distogliere l’attenzione verso quelle miserie la cui povertà veniva invece quasi esibita, si diresse verso la piazzetta du Tertre, dove fu investito da un mare di colori che si sprigionava dalle tele appoggiate su traballanti treppiedi o sugli schienali di vecchie sedie.
Alcuni artisti disegnavano con una certa abilità i volti di compiacenti ragazze che cercavano più che altro di attirare i clienti, altri richiamavano l’attenzione sui quadri in vendita.
Già pensando di allontanarsi da quella disordinata confusione, Rainer fu attratto da un dipinto di notevoli dimensioni montato su un cavalletto di buona fattura. La luce del cielo si rifrangeva sulla tela ad olio che già emanava una propria luminosità da un’invisibile lampada, e sembrava dar vita alle diverse anime dei personaggi raffigurati. Osservando la scena nel suo insieme, si aveva la sensazione che in quella stanza fosse accaduto un avvenimento tragico o che fosse atteso il suo epilogo.
In primo piano un bellissimo giovane, dai lineamenti affilati e uno sguardo severo, quasi indurito, era seduto su un grande sofà, del tutto indifferente alla tristezza di una ragazza bionda che gli si stringeva al braccio. Un uomo a loro vicino, appoggiava la testa fra le mani in un gesto di apparente disperazione o forse di concentrato ascolto della musica che lì si stava suonando a mezzo della mano protesa sui tasti di un piano e di un violino impugnato da una figura maschile. Sulla parete in penombra, fra lo spartito musicale e la sagoma di un altro personaggio seduto su uno sgabello, si notava il calco mortuario del volto di Beethoven.
Con un improvviso balzo, una donna con le mani sui fianchi, si portò davanti al quadro.
– È un Balestrieri, monsieur! – annunciò ad alta voce. Rilke, sorpreso da quell’inaspettata presenza, sobbalzò appena. – Il più bel quadro del secolo! – Rainer si soffermò su quel viso che rivelava una giovinezza precocemente sfiorita. Alcuni ciuffi della massa di capelli scoloriti, ricadevano in disordine sui grandi occhi chiari, deturpati dal trucco sfatto.
– Vi interessa acquistarlo, monsieur? – chiese la giovane, dischiudendo in un sorriso le labbra imbellettate.
– Che peccato signorina, che peccato io non abbia una casa degna di accoglierlo… Non abito neppure a Parigi del resto, ma il quadro è davvero bello…
– E’ una copia, monsieur! – Un uomo alto e grosso si affiancò alla ragazza, che si spostò appena con un moto di fastidio. – E non è certo sua! – aggiunse osservandola dall’alto. – Vattene Claudine!! Mi fai scappare tutti i clienti! — La ragazza alzò gli occchi verso l’uomo e aprì la bocca come per voler dire qualcosa, ma poi voltò le spalle e scomparve tra la folla.
– Beh, per la verità stavo osservando questo quadro, non necessariamente con intendi-menti d’acquisto, ma con queste maniere qui i clienti scapperanno davvero! – interloquì Rilke osservando l’uomo.
– Oh mi perdoni, monsieur! Ma ogni volta che mi allontano di pochi metri, quella donnina si fionda davanti a questo quadro come fosse suo per il solo fatto di essere stata ritratta. E’ insopportabile, ha come un’ossessione, me la ritrovo sempre intorno… Vi dicevo, monsieur, che questa è certamente una copia, ma come potete vedere da Voi, è di ottimo livello! – e spostandosi di poco, indicò con la mano la scena che Rilke aveva osservato.
– Il quadro originale è stato eseguito ormai dieci anni fa dal grande Lionello Balestrieri, vincitore di un primo premio al Salon di Parigi. Se non s’arricchì con questo quadro! Cinquemila franchi, monsieur, cinquemila! E poi la fama, gli articoli sui giornali… Il nostro caro Lionello ebbe ben motivo di montarsi la testa e così puff… Da un giorno all’altro praticamente scomparve, portandosi via tele e colori, fregandosene di tutti i suoi amici con cui aveva diviso il pane e i sogni di gloria… Adesso fa l’artista ricco a Montparnasse, ri-producendo il suo fortunato quadro in decine di copie che continua a farsi pagare profu-matamente. Per la verità, monsieur, questo è la copia di una copia, ma costa la metà della metà, pur essendo fatto da un artista bravo quanto lui! – L’uomo si spostò e con un breve inchino allargò le braccia verso il quadro – E quest’artista è qui in carne ed ossa davanti a Voi. Ramòn Balancieur, per servirVi. Balancieur è un nome d’arte sa, un po’a te e un po’ a me… – e voltandosi levò le braccia sopra le spalle e le agitò ripetutamente nell’aria per sollecitare un applauso da parte della folla. Ci fu invece un gran silenzio e Rilke s’accorse che dei volti si erano girati verso di lui aspettando le sue mosse. Lisciandosi il baffo con lieve imbarazzo, contrariato da tutti quegli sguardi che lo serravano a cerchio davanti a quel quadro inquietante, decise di svignarsela da quella massa di mentecatti dove regnava non il nobile spirito di geniali artisti, sia pur squattrinati, ma le ripicche e le gelosie verso chi potesse guadagnare qualche franco in più degli altri.
– Convengo le capacità dei Vostri prolifici estri artistici, ma per oggi non avevo previsto nessun acquisto. Caso mai, in futuro… –
– Balancieur, monsieur, non dimenticate questo nome. Vi farei un buon prezzo per questo capolavoro qui e per ogni altra riproduzione che soddisfi il Vostro raffinato gusto! Sempre qui per servirVi, monsieur! – e si girò per cercare l’approvazione dei colleghi, che invece avevano già distolto la loro attenzione.
– Buona fortuna a tutti! – esclamò Rilke alzando brevemente la mano in segno di saluto collettivo, e dando un’ ultima occhiata al quadro, si allontanò di qualche passo.
– È un falso! È un falso! – senti dire da una voce forte e rauca. Girandosi di scatto si ritrovò vis-à-vis con un grosso pappagallo verde e giallo che ciondolava ritmicamente sulle zampe ancorate da una catenella all’asse del cavalletto. Tra un coro di risate, si fece varco in mezzo alla folla che si era formata intorno e abbassando la falda del cappello, con un gesto più di stizza che di saluto, si diresse verso il lato della piazza, deciso a recarsi in un bistrot per bere qualcosa di caldo. Il cicalio delle voci sfumò nell’aria, mentre il vocione del pappagallo continuava a ripetere:
– È un falso!… È un falso!…”

Gabriella Amstici

 

 

Elegie rilkiane

Concluso il Libro d’ ore, liriche sospese tra le tensioni dello spirito e quelle dei sensi, intensamente vissute con Lou Salomé, il poeta Rainer Maria Rilke cerca nuove espressioni letterarie. Le vicende del pellegrino errante dei Quaderni di Malte Laurids Brigge testimoniano l’inizio di un percorso retrospettivo ma segnano anche una successiva “desertificazione interiore” che arresta la sua creatività.
In seguito all’incontro a Parigi con la principessa Marie von Thurn und Taxis nel dicembre 1909 e alla corrispondenza tra loro intercorsa, il 20 aprile 1910 Rilke raggiunge il castello di Duino, sulle ultime falesie della costiera triestina.
“So di aver pensato che ci doveva essere da qualche parte un castello e dovunque esso fosse, sarebbe stato proprio quello che io allora avevo cercato” rispose compiaciuto all’invito.

lobianco768Alloggiato nella stanza d’angolo tra la cappella e la sala affacciata sulla balconata sospesa sul mare, il poeta rimane immediatamente affascinato dall’atmosfera dell’antico maniero che dalla bianca scogliera domina il golfo tra le lagune venete e le vicine terre d’Istria.
Quando l’anno successivo la principessa Marie lo ospiterà per tutto l’inverno, riaffioreranno in Rilke quelle emozioni che sembravano perdute e si ritroverà immerso nelle memorie del leggendario castello aldilà dei confini del Leidland, dove la vita e la morte si compenetrano nelle segrete trame dell’esistenza.
La sofferta stesura delle Elegie duinesi si protrarrà per oltre dieci anni affiancata da varie profusioni letterarie ed epistolari a testimonianza della sua esistenza errabonda e inquieta, vissuta nella costante ricerca di quel “nessun dove” forse trovato nella silenziosa fortezza svizzera di Muzot.

Nella foto tratta dal libro Dottor Serafico, Editoriale Lloyd e LINT, Trieste, 1999 la principessa Marie Thurn und Taxis e Rainer Maria Rilke all’epoca del loro incontro.

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“Castello di Duino – aprile 1910″

“Rilke si risvegliò prendendo lentamente coscienza di dove fosse.
Sentendosi ottimamente riposato da quello che doveva essere stato un buon sonno, si alzò, raggiunse la finestra, e scostando il lembo di una tenda, vide i primi chiarori dell’alba. Chiudendo il bavero della vestaglia sul petto, aprì di poco l’anta, curioso di scorgere il panorama e prendere contatto con il paesaggio. Investito dall’aria odorosa di mare e dall’emozione di quelle felici visioni, decise di sfidare i gelidi albori e afferrare il respiro del giorno nascente.
Si vestì frettolosamente e indossato il cappotto, scese in silenzio cercando l’uscita verso la terrazza intravista al piano sottostante.
Appena giunse nel ballatoio del primo piano, fu fermato dalla voce di un uomo che risaliva la scalinata dal pianoterra.
– Buongiorno dottor Rilke! Avete bisogno di qualcosa?
– Scusate il disturbo, volevo prendere una boccata d’aria. Per la verità non sono abituato ad alzarmi così presto, ma neppure a vedere un’aurora come questa! Pensavo di raggiungere la terrazza ecco, ma non sembra cosa facile in un castello.
– Lo è invece, non hanno catene le porte verso il mare. Del resto chi volete che entri? Da qui si può solo uscire. Seguitemi, prego, siete ben coperto? Fa ancora freddo a quest’ora: le lagune portano un’aria umida e pungente.
Precedendo Rilke di qualche passo, attraversò il salone, e scostato il tendaggio, aprì un’anta della portafinestra.
– Desiderate che aspetti o magari potete chiudere Voi? Come vedete è molto semplice. Io dovrei scendere dai cavalli.
– Grazie mille, signor Carlo, scusatemi ancora.
Quando l’uomo si allontanò, Rainer uscì sulla grande balconata e si trovò sotto la volta indaco del cielo. Verso ponente, risplendeva ancora la luce rossastra di Marte, mentre la falce di luna impallidiva dietro le colline dell’Istria.
Accostatosi alla balaustra, scorse lo strapiombo della scogliera ancora nell’ombra. Decine di gabbiani si alzavano in volo per poi ricadere planando sulle onde che si rincorrevano verso le coste.
Un sibilo di vento proveniente dalle lagune attirò il suo sguardo verso una rocca avvolta da una folta vegetazione. Da un covo pietroso si levò all’improvviso il corpo di uno sparviero che, come spinto da una forza innaturale, eseguì una volata ad arco per poi precipitare in picchiata vicino a lui. Per un attimo Rainer ne incrociò il terribile occhio rosso e d’istinto indietreggiò impaurito, ma l’uccello, con un rapido battito d’ali, si rialzò virando, e scomparve tra i boschi alle spalle del castello.
Verso occidente, aldilà del promontorio roccioso da cui era apparso il rapace, le isole lagunari si allungavano come una barriera naturale del golfo, mentre dietro a esse, la distesa pianeggiante si perdeva fino ai monti alpini ancora innevati, che nella foschia del mattino, sembravano irreali e come sospesi fra il cielo e la terra.
“Profili di vette, creste di tutto il Creato, rosse d’aurora….”(1)
Levando lo sguardo verso un assembramento di rondini di mare, ascoltò i loro striduli canti e il rumore ritmico delle onde. L’eco dei suoni si perdeva verso la scogliera e la lontana città bianca.
Ogni cellula del suo corpo era protesa a cibarsi di una nuova linfa che sentiva scorrere.
“ Getta le tue braccia al vento! Agli spazi che respiriamo….” (2)
Assorto e perduto, sentì offuscarsi quella visione sotto l’umido degli occhi.

Rientrato nella sua stanza si sedette al tavolo, dove trovò già predisposto il necessario per scrivere.
Dopo una decina di pagine, s’avvide del giorno ormai fatto.
Non avrebbe voluto interrompere quel flusso di sensazioni che sgorgavano più veloci di quanto la sua penna scorresse sul foglio, ma non intendeva ritardare la colazione con la principessa Marie, dopo la sua deludente presenza della sera prima.
A malincuore posò la penna e ripose gli scritti nella cartella verde.”

1 – 2 “Elegie duinesi
(tratto da “Le terre di Leidland” inedito di Gabriella Amstici)