Archivio mensile:luglio 2014

Madonna del Mare, un tempio e la sua storia

All’esterno dell’antica porta Cavana tra la metà del Duecento e i primi anni del Trecento si svilupparono importanti insediamenti di nuovi ordini religiosi con chiese, conventi, ospedali e cimiteri.
Gli edifici sorgevano tra un susseguirsi di chiostri, orti, frutteti, vigne e giardini circondati da alte mura di cinta, per lo più distribuiti attorno all’asse viario di via del Bastione che nell’800 sarà denominato come Contrada o Via di Cavana.

In questa stampa del 1775 si notano le varie strutture accanto le mura della città e gli edifici più discostati dove nel Settecento sorsero la Cereria Nicolentini (contrassegnata con il n. 8) (nota 1), la fabbrica di maioliche Balletti (al n. 9) e lo Zuccherificio della Compagnia di Assicurazione, Commercio e Sconto (al n. 10).

Nel particolare del disegno settecentesco di Francesco Orlandi si possono notare le collocazioni dell’ospedale San Giusto e la chiesa di San Bernardino (al n.4) (nota 2), le chiese dei SS. Martiri e di Santa Lucia (n.6), la chiesa di San Francesco con il convento dei Minoriti (n.3) (nota 3), la Chiesa di Sant’Apollinare e il convento dei cappuccini (n.2), l’ospedale dell’Annunziata con relativa cappella (n.5) e la Cappella di San Francesco di Pola (n.7).
Ci soffermeremo in particolare con l’edificio contrassegnato con il numero 1 in quanto abbiamo ancora oggi le testimonianze della sua esistenza, menzionata sulle vecchie mappe come Chiesa della Madonna del Mare.
Nell’ufficio Parrocchiale di Santa Maria Maggiore sono conservati però dei documenti dove viene nominato il tempio Beatae Virginis Mariae dictae de Mari con i nomi dei defunti sepolti nel vicino cimitero e le notizie delle sue antichissime origini.
La chiesa, sorta fuori dalla cinta muraria, era allora frequentata particolarmente dagli agricoltori e il suo vicino cimitero serviva per le loro sepolture e anche di quelli delle contrade più lontane, da Guardiella a San Pelagio.

Dopo la distruzione del tempio avvenuta durante la guerra del 1368 con i Veneti, il vescovo Angelo Canopeo ottenne i permessi per procedere alla sua ricostruzione e ricevere la pubblica questua.

Nella notte del 2 gennaio 1655 l’edificio fu completamente fu distrutto da un violento incendio e furono salvati dalle fiamme solamente alcuni frammenti di un mosaico che riportava il nome di un certo Rufino con le lettere DXC, che presumibilmente si riferivano alle dimensioni della pavimentazione da lui stesso commissionata.
Dopo soli 3 anni venne edificata una nuova chiesa che fu consacrata il 3 giugno del 1658 dal vescovo Antonio de Marenzi.
Famiglie nobili come i Marchesetti, gli Stella, i Capuano avevano le loro tombe proprio in quel tempio dedicato alla Madonna del Mare, la cui effigie era dipinta sull’altare maggiore. La struttura era costituita da un’unica navata affiancata da due altari: quello di destra dedicato a San Valentino, quello di sinistra a Sant’Apollinare.
Il reddito proveniva dai ricavi delle saline, delle vigne e dai contributi annuali della Confraternita degli agricoltori, dei facchini e dei marinai.

Con le trasformazioni amministrative e sociali avvenute tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, si persero progressivamente sia le saline che i vigneti, fino allora primarie fonti di guadagno, e dopo le riforme ecclesiastiche volute nel 1784 da Giuseppe II, figlio di Maria Teresa d’Austria, la Confraternita venne sciolta e la Chiesa fu ceduta al negoziante Bernardo Curti, che la demolì per far posto a una casa di abitazione.
Da allora la Madonna del Mare venne identificata con la via su cui era esistito il vecchio tempio.

Il 23 novembre 1963, durante uno scavo di una conduttura davanti l’Istituto Magistrale “G. Carducci” al numero 11 di quella strada, vennero alla luce dei frammenti di un mosaico con la scritta Bonosus defensor Sanctae Ecclesiae Tergestinae. Intervenuta la Sopraintendenza e deciso di continuare gli scavi, si scoprì una grande pavimentazione a mosaico su due livelli: la parte più antica apparteneva a una basilica a navata unica lunga 30 metri e larga 11, priva di abside e risalente al V° secolo, la seconda presentava una pianta a croce con l’erezione di due corpi laterali al presbiterio.
La parte più interessante fu la scoperta dei due strati di mosaici sovrapposti a 5 cm l’uno dall’altro: quelli più antichi, a motivi geometrici, consistevano in tessere grigie e bianche, quelli sullo strato superiore si presentavano ricchi di policromia con motivi geometrici e fitomorfi ricchi di decorazioni a serpentello, trecce, ottagoni e dischi.
Vennero anche rinvenute una serie di iscrizioni databili tra la fine del sec. IV e l’inizio del VI, che costituiscono i primi documenti della più antica comunità cristiana tramandandoci una ventina di nomi appartenenti a personalità rilevanti della Chiesa locale tra il V e il VI secolo, detta Sancta Ecclesia Tergestina. (nota 4)

(Altre foto dei preziosi mosaici sono visibili sulla relativa pagina dell’Atlante Beni Culturali – le visite al sotterraneo devono essere concordate con la Sopraintendenza di Belle Arti)

Da studi svolti negli anni Settanta alcuni storici ritennero che in questo tempio si fossero conservate le spoglie di San Giusto quando venne restituito dal mare, e di alcuni martiri decapitati (nota 5) ma non sarebbero state trovate delle notizie certe se non la verifica di un maggiore numero di sepolture rispetto ad altre, probabilmente dovuto alla particolare ampiezza di questa chiesa.

Conclusi nel 1967 i lavori di scavo (nota 6) venne ricavato un portale di accesso all’antica basilica esistita proprio sotto l’edificio ottocentesco sulla via che porta il nome di quella Madonna del Mare che qui visse la sua lunga storia.

NOTE:

1. Creata nel 1759 da Giorgio Nicolentini, passò poi alla consorte Rosa, originaria di Graz, e successivamente al suo primogenito

2. Che furono poi retti con l’ospedale dell’Annunziata dai “Buoni fratelli della Misericordia”

3. Più tardi dedicata a Sant’Antonio

4. Iscrizioni: nomi di un altro “difensore della chiesa tergestina” Cantius, dei “difensori della chiesa d’Aquileia” Crysogonus con sua madre Eufemia e Maximus, “presbitero” Costantinos, del probabile costruttore della basilica Apronianus, di un altro “presbitero” Ianuaruis, di un “primicerio” (titolo onorifico del tardi impero) Barsaina, di un “diacono” Augustinus, di due coniugi Iohannis et Domnicauna cum filiis suis, che, come altri benefattori, Iustinianus e Crescentia, si fecero carico delle spese per la collocazione di varie centinaia di piedi quadrati di decorazioni

5. Giuseppe Cuscito, “San Giusto e le origini cristiane a Trieste”, in “Archeografo Triestino” 1969-70 pagg. 3-36.

6. I reperti paleocristiani sono stati restaurati nel 1975 dal mosaicista Giuseppe Sambuco.

FONTI:

Silvio Rutteri, Trieste, spunti dal suo passato, Borsatti Editore, Trieste, 1950
Fabio Zubini, Cittavecchia, Edizioni Svevo, Trieste, 2006
Laura Ruaro Loseri, Comunità Religiose di Trieste: contributi di conoscenza, Istituto per l’enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, a cura dei Civici Musei di Storia e Arte, Trieste, 1978

 

Bosco Pontini e via Bramante

Conosciuta per aver ospitato in una delle sue case l’illustre scrittore James Joyce (nota 1), la via Bramante vanta un’antichissima origine. Sulle sue tracce esisteva infatti una trafficata strada che dal portale della cinta muraria ancora, ancora oggi visibile dalla via San Giusto, s’incurvava verso l’attuale via Tiepolo per proseguire, attraverso murature difensive, verso l’Istria.
La relazione dei ritrovamenti archeologici sugli “Scavi del Bosco Pontini” (un tempo molto più vasto rispetto all’odierno giardino Basevi), illustrati da Pietro Sticotti nel 1908 (nota 2), rivelarono l’esistenza di un florido quartiere romano sotto le case limitrofe alla scala Joyce di via Bramante. Gli studi dell’architetto Cornelio Budinis stabilirono che lì si trovasse un’officina per la lavorazione del ferro divisa in due distinti locali: l’uno rivestito dal pavimento in mosaici bianchi e neri, l’altro in lastrico di pietra con un tetto sostenuto da 4 pilastri.
Accanto ai locali del fabbro ferraio c’erano quelli del pistorium, granaio d’approvvigionamento delle legioni romane, provvisto di un forno a volta e una finestrella per l’uscita dei fumi. Lo stanzone era dotato di macine a mano, conche per mondare il grano e un bancone per le vendite, manufatti che nel corso dei secoli si sono sorprendentemente salvati. Nella corte adiacente furono rinvenuti il pavimento di arenaria, frammenti della muratura bianca con una striscia decorativa dipinta in rosso e di lato le cantine scavate nella roccia per un’ottimale conservazione delle scorte. L’acqua era assicurata dai vicini due pozzi ciascuno con il canale di scolo diretto verso il mare.
Altri resti sparsi nella zona testimonierebbero l’esistenza di altre officine ma verso il III secolo l’operosità di questo antico borgo venne meno fino a ridursi in rovine usate poi come luoghi sepolcrali privi di nome.

Poco a poco l’area venne del tutto abbandonata e in tutte le zone limitrofe si sviluppò una consistente massa boschiva che lambiva la piana sottostante (corrispondente alla nostra Barriera) estendendosi fino all’attuale via del Bosco.
Nel Medioevo la famiglia patrizia del barone de Fin entrò in possesso di quei vasti e alberati terreni dove costruirono una ricca dimora aggiungendovi nel 1631 una cappella dedicata a Santa Maria Maddalena con un officiatura ecclesiastica protratta fino al 1770.
Passata per un certo periodo in proprietà di un certo Buhelin, fu poi acquistata dal negoziante di borsa Pontini con il cui nome venne identificata la zona boschiva sulle mappe catastali anche quando, nel 1825, passò al signor Pepeu.

Con il progressivi sviluppo della città il Comune decise di tracciare dei nuovi percorsi tra il colle e il rione di Barriera, collegati fino alla fine del Settecento con un tortuoso vicolo inerpicato attraverso l’attuale piazza Vico.
Agli inizi dell’Ottocento vennero così costruite le vie del Bosco e Madonnina (che allora si prolungava fino alla via Bramante) entrambe delimitate dal Bosco Pontini mentre la villa rimase confinata alla Scala Dublino, costruita per collegare il rione della Barriera con quello di San Vito. (Nota 3)

Nel 1839 la tenuta venne acquistata dal deputato triestino al Parlamento di Vienna cav. Giuseppe Basevi che ne affidò la ristrutturazione e l’ampliamento all’ingegner Eugenio Geiringer.
Trasformata in un castello di stampo medievale, nel 1898 l’edificio fu donato al Comune di Trieste.
Ceduto in locazione nel marzo 1898 al governo austro-ungarico l’importante struttura fu adibita a Osservatorio Zentralanstalt für Meteorologie und Geodynamik dotato di un sismografo di tipo Rebeur-Ehrlet e di un potente telescopio astronomico.
In seguito la villa-castello, collocata tra la via Tiepolo e Segantini, divenne sede dell’ Osservatorio Astronomico triestino.

Nel corso del Novecento la zona sotto il Castello di San Giusto ebbe un notevole sviluppo e nell’ultimo tratto di via Madonnina fu abbattuta una parte boschiva per costruire la via Bramante (dal nome dell’architetto Donato) le cui case vennero erette sulle antiche rovine romane sopradescritte.

Qui, al II° piano della casa al numero civico 4, dall’ottobre 1913 alla fine di maggio del 1915 abitò il celebre scrittore James Joyce con la moglie Nora Barnacle e i figli Giorgio e Lucia.

Al numero 10, proprio vicino allo storico cortile del fabbro ferraio, nella casa contrassegnata con il numero civico 10, sorse un’officina per la lavorazione artistica del ferro, divenuta poi famosa per aver costruito la statua alata che ancora oggi svetta sul Faro della Vittoria sul colle di Gretta. (nota 4)

Oggi l’area si estende su livelli diversi in continua pendenza; uno degli accessi al piccolo parco è situato a metà della scala Dublino. Attraverso una cancellata in ferro lavorato si accede ad uno dei viali dove si passeggia all’ ombra dei grandi alberi ed arbusti.
Di aspetto romantico e suggestivo, il giardino si presenta attualmente un po’ “dimenticato” nonostante rappresenti un polmone verde in questa zona di grande traffico.

NOTE:

(1) Una targa posta sulla casa di via Bramante n.4 ricorda che qui fu scritto il primo episodio del suo più famoso romanzo

(2) Pietro Sticotti (Dignano 1870 – Trieste 1953) dal 1898 ricoprì la carica di Direttore del Museo Civico dell’Antichità e la direzione dell’ “Archeografo triestino” fino al 1952;

(3) Negli archivi comunali è riportata la descrizione del parco: “Un magnifico portone a cancelli in ferro dorati” che immette “sotto le volte di antica pergola tra due campi….a un viale di pioppi fino alla casa”. La casa, a due piani, presenta al piano terra un’ampia sala che d’inverno funge da serra. Sono descritti i pergolati con colonne in pietra, un “boschetto opaco” con “annose querce”, noci, olmi e abeti, fiori profumati, “labirintici viali” e un cippo sepolcrale.

(4) Sul modello ideato da Giovanni Mayer, la Vittoria Alata (h. 7 metri) fu sbalzata in rame dall’abile artigiano Giacomo Sreboth che la completò pochi mesi prima della sua morte avvenuta nel gennaio del 1928.

FONTI:
Silvio Rutteri, TRIESTE Spunti dal suo passato, E. Borsatti Editore, Trieste, 1950;
Biblioteche Comune di Trieste.