Il Forte San Vito

Nel Trecento, a ovest di San Giusto, sulla sommità del colle allora nominato Calvula (1) veniva menzionata una cappella dedicata a San Vito martire e che risultò essere ancora esistente nel 1540 in un atto di compravendita per un vicino orto a Chiarvola.

Nel corso del Cinquecento, quando incombeva il pericolo degli assalti veneziani, fu ritenuto urgente provvedere al controllo del mare e alla protezione del porto sottostante ma i relativi progetti subirono alterne vicende e fasi di stallo.
Già nel 1570 il capitano imperiale Romer presentò un rapporto sulle scarse difese del castello di San Giusto, peraltro ancora incompleto, causate dall’eccessiva lunghezza delle mura e dalle troppe feritoie che le indebolivano ulteriormente e nel 1594 il commissario Pietro di Strassoldo presentò un sistema di nuove fortificazioni a difesa della Casa del Capitano.

Solamente dopo il 1616 per decisione dell’ingegnere Pietro de Pomis da Lodi venne deciso di costruire una nuova fortezza sulla sommità del colle di Chiarvola, che in seguito fu nominato di San Vito come l’antica cappella. (2)
Il nuovo edificio chiamato Sanza (3) fu portato a termine nel 1627 per opera del barone Petazzi, ma in seguito vennero proposti ulteriori ampliamenti delle strutture difensive previste anche per il castello di San Giusto.

Tra progetti, contestazioni e mancanza di fondi si arrivò al secolo XVIII e al pericolo delle incursioni dei francesi. In difesa del porto il Lazzaretto San Carlo e il castello di San Giusto vennero dotati di artiglierie, mentre nel Forte San Vito furono eseguiti dei lavori strutturali sotto l’incarico dell’ambasciatore Giovanni Luca Pallavicini.
Quando nel corso del violento temporale avvenuto il 9 luglio 1690 un fulmine provocò l’esplosione della santabarbara al castello di San Giusto (4), fu deciso di usare la Sanza come polveriera.

Nel 1733 sul colle San Vito vennero sacrificati tutti i vigneti e spianati i terreni per erigere una struttura poligonale dotata di cannoni e circondata da profondi fossati.

Alla fine del Settecento, con le armate francesi alle porte di Trieste, quando divenne urgente realizzare una via di collegamento diretto del Forte con il molo di Santa Teresa e Riva Grumula e consentire il trasporto delle munizioni venne realizzata la ripidissima Salita Promontorio.

Ma i veri giorni di fuoco avvennero nel 1813 quando, occupata dalle truppe francesi, la Sanza fu assalita dagli austriaci, appoggiati dalla flotta e dai marines inglesi che si posizionarono davanti con 12 cannoni.
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Dopo una serie di bombardamenti che causarono parecchi danni agli edifici circostanti e dopo un’accanita resistenza, le truppe francesi asserragliate nel castello di San Giusto sventolarono bandiera bianca concludendo così le loro mire conquistatrici.

Nel 1833 fu ultimato l’ultimo potenziamento del forte San Vito con la costruzione di una bassa torre tronco-conica in pietra arenaria dotata di feritoie cannoniera quadrate, un ponte levatoio e una tettoia di coppi.
Nella foto (Biblioteca Civica) un disegno della fortezza nel 1831-1833img036Il Forte San Vito ripreso dall’Orto Lapidario a San Giusto img037
Dopo l’allestimento del cantiere navale San Rocco nel 1858, i sistemi difensivi si spostarono sulle colline intorno a Muggia dove nel 1864 fu costruito il Forte Olmi che divenne un punto strategico di difesa del porto. (5)

La Sanza perse così la sua funzione e nel 1882 venne abolita la servitù militare e il divieto di costruire case; nel 1888 fu del tutto abbandonato e due anni dopo vennero smantellate tutte le difese. (6)
Nella foto (CMSA) i lavori di demolizioneimg039
Per qualche decennio il colle San Vito rimase divenne così desolatamente spoglio fino all’inizio del Novecento quando sui terreni rispianati iniziò a crescere la vegetazione assumendo via via l’aspetto di una campagna, in seguito nominata come Campo Vettor Carpaccio.

Nel 1973 nel corso dell’ampliamento del serbatoio d’acqua lì collocato (7) vennero alla luce le mura e un pozzo dell’antica fortezza entusiasmando Diego de Henriquez (1909-1974) che per decenni aveva custodito in quell’area i mezzi pesanti della sua preziosa collezione del Museo di guerra per la pace.
Nella foto (della collezione Alfieri Seri) Diego de Henriquez che si oppone agli scavi del 197316422254_1849432308604750_4404187497691720511_o (1)

Il pozzo rinvenuto16422801_1849432168604764_5992162982785986849_o

Tra i lavori di sterro, la presenza della Sopraintendenza e la strenua resistenza del nostro nobile collezionista volarono reciproche invettive fintanto che tutte le raccolte di Henriquez furono portate nel suo deposito a Banne assieme a tutto quanto rinvenuto nel pozzo.

Ai nostri giorni in tutta la zona di San Vito sono stati costruite ville, palazzine e condominii ma se si presta attenzione in via San Vito esiste ancora una parte delle antiche mura della fortezza con i cordoli di pietra e sulla via Carpaccio, dietro la struttura dell’ACEGAS, si trova una grande spianata con i serbatoi interrati dell’acqua.
Foto delle mura ancora esistenti in via San Vito  svito

Foto serbatoio ACEGA in via Carpaccio  10917817_10152997445668166_7180277976813206575_n

Foto aerea della spianata dietro il serbatoiovia carpaccio

Note:
1. Dopo il 1400 i nomi si trasformarono in Carvule e Ciarvole; nel Cinquecento in Chiarvola e Giarvolle (da Triestestoria)
2. Sembrerebbe che la cappella San Vito fosse stata distrutta dai veneziani (triestestoria)
3. Dal tedesco Schanze = Forte.
4. Diverse fonti storiche riferiscono si fosse trattato proprio di un fulmine, fatto credibile se i barili fossero stati all’aperto nonostante la presenza dei sotterranei.
5. Fu abbandonato già prima della prima guerra mondiale, riutilizzato per esercitazioni militari negli anni Trenta e utilizzato come postazione antiaerea nella seconda guerra mondiale quando al suo interno fu costruita una casamatta.  
Foto sastrieste.it Cavita6 - Copia6. Nel 1896 esistevano ancora i ruderi del Forte San Vito come riportato da Scipio Slataper dove nel testo Carso Il mio Carso è menzionata “la mularia che faceva la guerra a sassate in Sanza, un’antica fortezza diroccata accanto alla nostra campagna”.
7. Costruito ancora nel 1933 in seguito all’avvio del nuovo acquedotto Randaccio

Fonti:
Alfieri Seri e Sergio degli Ivanissevich, San Vito, già Chiarbola Inferiore, Ed. Italo Svevo, Trieste, 2009 – Triestestoria.altervista – Tesi di Laurea di Studi storici dal Medioevo all’età contemporanea di Paolo Nagliati (2012-13)  

I secoli della peste

Trieste, le terre interne e lungo tutto il Litorale adriatico, come del resto anche l’Italia e l’intera Europa, fin dalla metà del Trecento furono colpite da violentissime epidemie di peste.
La terribile malattia venne diffusa soprattutto dai porti dove avveniva un continuo transito di commercianti, soldati, marinai, pellegrini e merci provenienti dall’Oriente dove la peste era diffusa dal rattus rattus, una varietà di ratto infettato dalla pulce Zenopsilla Cheopis che si attaccava anche all’uomo.
Le navi con casi di contagio a bordo venivano isolate per un certo periodo ma le epidemie si diffondevano ugualmente terrorizzando la popolazione che le ritenevano una punizione delle loro colpe.
Il morbo si manifestava con la comparsa di bubboni seguiti da febbri altissime e un decorso di 5/6 giorni ma nel 70/80% dei casi sopraggiungeva il delirio e la morte.
I cadaveri si accumulavano su strade e piazze mentre le pulci sui corpi ancora caldi si spostavano sui viventi infettandoli.

Foto tratta da un quadro di Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro, 1609/1612 – 1675)Peste 2 Micco Spadaro
Molti fuggivano dalle città abbandonando ogni avere pur di aver salva la vita e per quanti rimanevano nelle città si allestirono altari e cappelle, vennero organizzati riti religiosi, novene e processioni per pregare, espiare e ottenere il perdono dei propri peccati. Furono costruite anche delle chiese dedicate ai Santi Rocco e Sebastiano che alla fine del Duecento, dopo essere stati colpiti e prodigiosamente guariti dalla peste, si dedicarono alla cura degli ammalati.

I pochi medici di allora non disponevano di efficaci rimedi per debellare i contagi e fin dal Medioevo il solo mezzo per contrastare le varie epidemie che decimavano le popolazioni fu l’aceto le cui diverse proprietà furono descritte nel testo trecentesco De agri cultura di Pietro de’ Crescenzi.

Durante le visite agli ammalati i medici indossavano una specie di toga lunga e incerata, una maschera dotata di occhiali e di un lungo becco contenente delle spezie per contrastare i contagi.
medici 2Nacquero così le “Corporazioni dei fabbricanti d’aceto” di cui la maggiore fu quella dei “Vignaioli Acetai” sorta presso la chiesa di Santa Maria dell’Orto a Roma.
Sulle proprietà di questo preparato nel 1560 fu scritto il testo La singolar dottrina di Domenico Romoli, detto il Panonto, e nel 1611 il Tesoro della sanità di Castor Durante, stampato a Venezia.

Ancora nel Settecento come antidoto delle malattie endemiche veniva usato l’aceto concentrato con l’aggiunta di canfora e succhi di cedro e acetosella, e nel corso dell’Ottocento di un distillato dell’acetato di rame.

L’Impero asburgico sentì la necessità di isolare chi provenisse da paesi di possibile contagio obbligandoli a trascorrere un periodo di isolamento in spazi organizzati e protetti da mura chiamati Lazzaretti. (nota1)
Purtroppo però durante le epidemie non solo si riempivano a dismisura di ammalati che con altissima probabilità morivano nel giro di pochi giorni ma favorivano pure i contagi per le loro precarie condizioni igieniche.

A Trieste vennero costruiti 2 Lazzaretti: il primo tra il 1720 e il 1731 nell’area di Campo Marzio nominato “San Carlo” (nota 2) il secondo tra il 1765 e il 1769 nella zona di Roiano e intitolato “Santa Teresa” in onore dell’Imperatrice. (nota 3)

Il Lazzaretto San Carlo in una nota stampa di Rieger img445

Il Lazzaretto Santa Teresa in una cromolitografia dei primi decenni dell’Ottocentoimg441

Negli anni 1835, 1849 e 1855 Trieste fu duramente colpita anche dalle epidemie di colera provocando a ogni ondata dai 3.000 ai 4.500 casi e la morte del 40% degli infettati.

Nella foto (dal Museo Scaramangà) il portale d’ingresso del Lazzaretto Vecchio come si presentava nel 1840img446

Tra il 1867 e il 1869 sulla costa tra Punta Grossa e Punta Sottile venne allestito il terzo Lazzaretto detto “San Bartolomeo” , rimasto attivo fino alla prima guerra mondiale (nota 4)Lazzaretto san bartolomeo

Nella foto l’iscrizione sul portale d’ingresso che si trovava nel Lazzaretto di Santa Teresaimg454

Gli ultimi devastanti contagi di colera si manifestarono nel 1885 quando era già stato attivato l’Ospedale per malattie infettive S. Maria Maddalena, con padiglioni per colerosi dotati di appositi sistemi igienici di smaltimento dei liquami e dove nel 1886 si registrò il ricovero dell’ultima persona contagiata.

Solo alla fine del XIX secolo lo scienziato Louis Pasteur (1822 – 1895) dimostrò la natura biologica della fermentazione acetica indicando nel Mycoderma aceti l’agente del processo di tale formazione arrivando a identificare i microrganismi.

Con il miglioramento delle condizioni socio-economiche e igienico-sanitarie di gran parte della popolazione le tremende epidemie del passato furono progressivamente debellate e alla fine del XIX secolo scomparvero dallo scenario europeo.

L’ingresso del Lazzaretto Vecchio in una foto di Pietro Opigliaimage

Note:

  1. Sull’origine del nome “Lazzaretto” ci sono due ipotesi: la prima potrebbe riferirsi al Lazzaro, il lebbroso della parabola evangelica, la seconda al primo Lazzaretto sorto a Venezia il cui titolo di Santa Maria di Nazareth sarebbe stato foneticamente distorto con il nome di “lazzaretto”.
  2. Il “Lazzaretto San Carlo”, così nominato in onore di Carlo VI d’Asburgo (Vienna 1685-1740) aveva all’interno un’area medica, una chiesa dedicata a san Carlo Borromeo e un cimitero. In seguito venne chiamato “Lazzaretto vecchio” e trasformato in un arsenale di artiglieria. Nel grande edificio limitrofo nel 1904 venne allestito il “Museo del Mare”, ancora esistente nell’attuale via di Campo Marzio assieme ad alcune strutture. Il portale e l’edificio retrostante vennero demoliti nel 1950/51 dagli angloamericani.
  3. Nel Lazzaretto “Santa Teresa” esistevano 2 edifici per la quarantena, un ospedale, la cappella, 4 magazzini, 2 stalle e un cimitero. Dopo la costruzione della Ferrovia Meridionale il Lazzaretto verrà parzialmente interrato e nel 1880 definitivamente chiuso.
  4. Il nuovo Lazzaretto, che disponeva del collegamento ferroviario con la città e di un forno crematorio interno, rimase attivo fino al 1918. Attualmente è di proprietà del demanio militare.

Fonte: Renato Zanolli, Guida insolita di Trieste e della Venezia Giulia, Newton & Compton Editori, Roma, 2005
Alcune notizie sono state tratte da Wikipedia e dalla relazione “Un Lazzaretto dell’Ottocento nell’alto Adriatico” di Euro Ponte

Il cotto in crosta di pane

Il prosciutto cotto nella crosta di pane è una tradizione triestina ma le tracce della sua origine risalgono nientemeno che ai tempi dell’Impero Romano quando Marcus Gavius Apicius, un celebre gastronomo vissuto tra il I° secolo a.C. e il I° d.C., scrisse un gran numero di Praecepta culinarum (1) dell’epoca. 51QSxpIBwsL._SX331_BO1,204,203,200_

Nel settimo libro del testo risalente al V secolo d.C. “De arte coquinaria(2) (o “De re coquinaria“) appare una ricetta per la preparazione del prosciutto ottenuta con la della coscia di maiale lessata con alloro e fichi e passata con una “lardellatura” di miele successivamente cotta e poi avvolta in una “crosta” preparata con farina e olio. Le fette così ottenute venivano accompagnate con il vino cotto. img363

Le stravaganti e raffinate ricette di Apicio continuarono fino al Medioevo anche se via via vennero modificate secondo le evoluzioni storiche delle varie regioni.

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Anche la preparazione del prosciutto ebbe delle varianti: dopo la cottura s’iniziò a ricoprirlo con la pasta di pane al posto di farina e olio e poi a sottoporlo ad affumicatura ottenendo degli affettati dal gusto dolce e delicato.

In seguito la carne venne disossata, cotta in apposite caldaie, avvolta nell’impasto di pane e infornata per un minimo di 8 ore (secondo l’”Accademia della cucina italiana” era necessaria i ora di cottura per ogni chilo).
Con questo procedimento i profumi e i sapori restavano imprigionati nella crosta di pane che quando veniva tolta diffondeva un golosissimo profumo.

In passato l’usanza di questo particolare procedimento fu adottato in Boemia che serviva come antipasto le fette ancora calde accompagnate da radici di rafano grattuggiate e senape.
Ben presto Trieste né importò la tradizione assieme ai wurstel e ad altri salumi .
I fratelli Masè furono i primi nel lontano 1870 ad avviare in città una produzione artigianale del prosciutto cotto raggiungendo un tale livello di qualità da divenire un prodotto tipico servito nei buffet e quindi nelle salumerie.
Per prolungarne la freschezza fu adottato l’uso di un’iniezione manuale di salamoia in vena, procedendo a una cottura molto lenta e una leggera affumicatura con truciolo di faggio.
La coscia veniva poi avvolta nella pasta di pane e sottoposta a una cottura a 200 C° per circa due ore.
Le fette di prosciutto così ottenute acquistavano così un bel colore rosato e un sapore delicatamente affumicato. Cotto mase

Servito con un’affettatura rigorosamente a mano, non sorprende che il cotto in crosta di pane sia ancora richiestissimo, un vero brand tipicamente triestino, non vi pare?

1. Ricette gastronomiche
2. Arte culinaria

Fonti: accademiaitalianacucina.it – cibo.360.it – Wikipedia

Il Prosecco alla triestina

Nei primi decenni dell’Ottocento illustri personaggi sfuggiti dalla rivoluzione francese e alla successiva disfatta di Napoleone si stabilirono a Trieste per trascorrervi i loro dorati esili.
Abituati ad alti tenori di vita amavano banchettare con bottiglie di pregiato Champagne che dalle campagne francesi veniva trasportato sulle navi provenienti da Marsiglia. Non sorprende quindi che alcuni zelanti locandieri triestini tentassero di mantenere più possibile le caratteristiche frizzanti dei vini ottenuti dalle uve bianche coltivate nelle terre del Carso.
Se a pensar male si potrebbe supporre che versandolo nelle bottiglie di vero “Champagner Flaschen” si favoriva la suggestione del prodotto certo è che i tappi venivano poi sigillati con del fil di ferro, evidentemente per salvaguardare quella certa “frizzosità” del vino nostrano, seppure aiutata con qualche energico scuotimento.
Non solo, ma la fresca bevanda veniva spesso servita con un piatto di burro e prosciutto rendendo un semplice pasto talmente gustoso da essere citato nelle guide francesi del primo Ottocento.

Nella foto (ibtimes.com) una rarissima bottiglia di vero Champagne recuperata da una nave ottocentesca diretta a San Pietroburgo e affondata nel mar Baltico, venduta poi in Cina a cifre stratosferiche20228226_1497010637031505_1242652634744103513_n

Questa usanza fu anche riportata in un articolo (nota 1) del bibliotecario bavarese Joachim Heirich Jäck che giunto in città nel settembre del 1821 e fermatosi in un Osteria ai piedi del Boschetto (nota 2) si rifocillò proprio con burro, prosciutto e un bicchiere di frizzante Prosecco (scritto proprio così) riportandone evidentemente un piacevole ricordo.
!cid_A1A5B7FC00CB4E1781B3722720260186@COMPHP3132f1df0f554a65b7af9a4ee47b8501Le prime notizie sulla viticoltura carsica furono scritte nel 1844 da un certo Matija Vertovz che nel testo in sloveno Vinoreja asseriva che già molti anni prima un francese avesse acquistato ben “100 mastelli di Prosekar”.
img343Il Vertovz descrisse con precisione come venissero vendemmiate le bianche uve carsiche e gli speciali trattamenti riservati per ottenere una fermentazione leggera che mantenesse il gusto dolce della bevanda, conservata poi nei tini collocati in luoghi freschi.
Il Prosecco così ottenuto veniva venduto a prezzi piuttosto alti e doveva essere gustato prima dell’arrivo della stagione estiva per evitare alterazioni.

Nel 1858 nella Grande illustrazione del Lombardo-veneto di Cesare Cantù fu riportato che Trieste spediva a Venezia delle “regalie di olio e ribolla, cioè vino bianco spumante che oggi dicesi Prosecco”.

Nel 1873 l’esperto viticoltore di Prosecco Ivan Nabergoj riportò maggiori dettagli sul ciclo per la produzione delle diverse tipologie del vino: Prosecco spumante e Prosecco bianco triestino, quelle del Prosecco fine e del Prosecco comune, in seguito elencati nel testo “L’Amico dei Campi” stampato nel 1888. img344

Nello stesso anno alla “Fiera dei vini” svoltasi a Trieste, furono presentati i vari tipi di Prosecco con riscontri non sempre entusiasmanti mentre il Prosecco bianco di Marino Luxa ottenne una medaglia di bronzo sebbene si trattasse di una produzione d’élite come venne già riportato sul Vošnjak, Umno Kletarstvo pubblicato nel 1873 da Josip Vošnjak (in traduzione):

Un vino ancora migliore si può produrre dall’uva bianca di Prosecco se questa si asciuga (sulla pianta) sino a Natale e quindi viene raccolto tagliando acino per acino (non strappandoli perché il picciolo che rimane da un piacevole aroma del vino, questo viene pressato quindi senza raspo e immediatamente travasato nella botte e sigillato, in modo tale da restare per un anno e un giorno in una fredda cantina e solo allora imbottigliato.
Questo è un tale nettare che supera il Tokayer ungherese.
Da noi purtroppo in questo modo lo produce solo qualche benestante per proprio uso personale perché costa molto tempo, cosa che i nostri viticoltori non possono sopportare, ma speriamo che col tempo questa cosa volga al meglio”.

Questo veniva scritto nel lontano 1873 e incredibilmente nel 2017 si sta ancora discutendo sulla produzione del Prosecco DOC, il delizioso vino frizzante ottenuto dalle particolarissime vigne del Carso triestino.

Note:
1. Riportato nel “Reise nach Wien” 
2. È stato riportato il nome di “Osteria del querceto” ma si potrebbe dedurre trattarsi di quella “Al Boschetto” (nell’attuale via Pindemonte) a quei tempi molto frequentata

Fonte: Fulvio Colombo, Prosecco, Patrimonio del Nordest, luglioeditore, Trieste, 2014

Alla conquista delle Terre di Francesco Giuseppe

Nel precedente articolo si sono ripercorse brevemente le avventure di Eduard von Orel e Carl Weyprecht quando sulle navi “Kaiserin Elisabeth” e “Dandolo” affiancarono la “Novara” nell’ultimo viaggio di Massimiliano d’Asburgo verso Trieste.
Qui vogliamo ripercorrere un’altra impresa dei due ufficiali che affronteranno le drammatiche insidie dei ghiacci per raggiungere le Terre di Francesco Giuseppe nel desertico arcipelago all’estremo Nord dell’Europa.

Carta di Francesco Giuseppe

 

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L’ideatore della spedizione fu proprio Carl Weyprecht (nota 1) che dopo un’ingente raccolta di fondi, nel 1871 commissionò al cantiere di Bremerhaven la costruzione di una nave progettata con particolari tecnologie che permettessero di resistere alle pressioni dei ghiacci.
In onore dell’ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff, comandante della prestigiosa k.u.k. Kriegsmarin (Imperiale e Regia Marina austro-ungarica) e acclamato vincitore della battaglia di Lissa, deceduto quell’anno a Vienna, la nave destinata all’impresa nei mari polari fu battezzata Admiral Teghetthoff.

Nella foto la nave polare Admiral Tegetthoff ancorata a Bremerhaven img221
Il vascello a 3 alberi con una stazza di 220 tonnellate, venne costruito con legno di quercia, mentre le fiancate e la prua (con rinforzi interni di ferro) con un legno africano di grande resistenza.
Dotato di un motore ausiliario da 95 cavalli di potenza, realizzato nello Stabilimento Tecnico Triestino e da caldaie provenienti dalle officine Holt, era provvisto di un’elica a pale che per essere protetta dagli urti del ghiaccio venne sistemata in un vano formato dal prolungamento in ferro della chiglia.

Completata nell’agosto del 1871, l’ Admiral Tegetthoff salpò nel giugno dell’anno successivo al comando di Weyprecht e un equipaggio di 24 uomini di diverse mansioni scelti tra la Dalmazia, l’Istria, Fiume e Trieste (nota 2), più 8 cani da slitta (a cui si aggiunse un nono nato a bordo) e 2 gatti per la guardia delle dispense. (nota 3)

Nella foto i partecipanti alla spedizione: img275

 

Dopo la traversata nei mari del Nord, con l’arrivo dell’inverno la Tegetthoff , circondata da masse di ghiaccio tra temperatura di 50 gradi sottozero, fu costretta a navigare zigzagando nell’ oscurità della notte polare.

Nella foto un disegno di Eduard von Orel img227
Sopraggiunta l’estate la nave rimase incagliata in una banchisa ghiacciata dove rimase fino all’arrivo del secondo tragico inverno in cui alcuni uomini si ammalarono e altri diedero segni di squilibrio mentale.

Nella foto: i tentativi di liberare la nave nell’estate del 1873 img280
img226Julius Payer, il comandante designato alle esplorazioni su terra e deciso a raggiungere ad ogni costo la Franz Josef Land, organizzò una spedizione con slitte, cani e alcuni volontari percorrendo 400 chilometri tra ghiacci, crepacci, dirupi in una continua sfida con la morte.
Alla fine, contro ogni previsione, il gruppo riuscì a raggiungere il punto più estremo a 82° latitudine nord piantando la bandiera austro-ungarica come conquista della Franz Josef Land  così battezzata in onore dell’ Imperatore.
Dopo ulteriori atroci 800 chilometri sulla via del ritorno, Prayer e compagni raggiunsero il relitto della nave che era ancora bloccato tra i ghiacci.

Neppure con l’arrivo della bella stagione l’ Admiral Tegetthoff riuscì a liberarsi dallo stallo e verificando che le scorte di cibo erano insufficienti per trascorrere un ulteriore inverno, il comandante Carl Weyprecht diede ordine di abbandonare la nave.

Nel disegno di Obermüllner i preparativi per la partenza – Sotto l’abbandono della banchisa (Orel)

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Così i sopravvissuti caricando i pochi viveri nelle scialuppe di salvataggio trainate su slitte improvvisate con i tre cani superstiti (nota 4) diedero l’addio alla nave e nel maggio del 1874 iniziarono una marcia forzata di 1.000 miglia verso Sud.
Gli scritti con gli appunti scientifici e i diari di Weyprecht furono conservati ma tutti i campioni vegetali e minerali raccolti durante la lunga spedizione vennero abbandonati per il loro eccessivo peso.

L’estenuante viaggio durò per quasi tre mesi, fino a quando il 25 agosto 1874, in vista della costa siberiana, tutta la ciurma fu presa a bordo dalla goletta peschereccio russa Nikolaj in prossimità dell‘isola di Novaja Zemlja.

Mentre a nord si consumava la tragedia, in Europa nessuno ritenne di avviare delle ricerche ritenendo che la spedizione fosse fallita con la morte di tutti gli uomini.

Grandi furono quindi gli entusiasmi per la vittoriosa conquista e la salvezza dell’equipaggio (con la perdita di un solo uomo) e dalla Norvegia ad Amburgo, da Vienna a Trieste si svolsero grandi festeggiamenti e premiazioni.
Weyprecht e Payer vennero insigniti con la Croce di Cavaliere dell’ Ordine di Leopoldo, Orell con il titolo nobiliare della Corona Ferrea, e i marinai della nave, definiti “eroi”, vennero premiati con medaglie e offerte di impieghi pubblici.
Sarebbe da aggiungere che se nell’avventura dei mari artici fu preservata la loro pelle, non altrettanto fu la loro salute, minata da malattie polmonari e metaboliche. (nota 5)
Se l’ufficiale di vascello Eduard Orell raggiunse i 51 anni, il comandante Carl Weyprecht non superò i 43, minato dalla tubercolosi come conseguenza delle durissime e gelide stagioni vissute nella Admiral Tegetthoff.

Comunque da allora iniziò una vera e propria “febbre del Polo” che avrebbe portato ad altre spericolate spedizioni polari e dopo soli 8 anni la costruzione di ben 14 campi base tra Artide e Antartide.

Note:

1. Nato a Darmstadt nel 1838, Carl Wayprecht visse molti anni a Trieste; morì a Michelstadt nel 1881.

2. Nativo di Trieste risulta solamente il marinaio Antonio Scarpa.

3. Soddisfatto dai comportamenti stoici dell’equipaggio di dalmati, istriani che lo affiancarono nell’avventurosa impresa in Messico, Weyprecht li ritenne preparati anche per affrontare le insidie dei ghiacci e più affidabili dei nordici che considerava troppo “saccenti” e troppo dediti all’alcool.

4. I due cani che dopo aver affrontato la spedizione a terra erano allo stremo delle forze, vennero uccisi.

5. Nei durissimi mesi dell’incagliamento tra i ghiacci il macchinista Otto Krisch, conterraneo di Orell, già malato di scorbuto, morirà di tubercolosi tra atroci dolori e deliri. 
Nella foto la sepoltura in un disegno di Obermüllner:img282

Nelle successive spedizioni nelle Terre di Francesco Giuseppe avvenute nel 1879, 1880 e dal 1894 al 1897 furono contate bel 121 isole comprese nell’arcipelago. In seguito diverranno un punto di partenza per il Polo Nord, raggiunto dal Duca degli Abruzzi con la “Stella Polare” tra il 1899 e il 1900.

L’Admiral Teghettoff rimase per sempre tra i ghiacci lì dove fu abbandonata dall’equipaggio di Wayprecht.

Notizie tratte dal libro di Enrico Mazzoli, Dall’Adriatico ai ghiacci, Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli Go), 2003 – consultazioni su kuk-kriegsmarine.it

L’avventurosa vita di Eduard von Orel

A volte accade di essere colpiti da un’immagine fotografica e indotti a mettersi sulle sue tracce cercando notizie.
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Così è accaduto per questa foto d’epoca che dopo una serie di ricerche mi ha portato a scoprire la sorprendente vita del personaggio qui ripreso con la sua famiglia davanti una villa del parco di Miramare nella lontana estate del 1886.
L’uomo dell’istantanea è Eduard von Orel che nei suoi 51 anni di vita vivrà delle incredibili vicende tra mari oceanici e artici, tra onori di gloria e sfide di morte, tra grandi ricchezze e infide malattie.
Nato in Moravia nel 1841 entrò giovanissimo nella Marina austro-ungarica aspirando a diventarne ufficiale.
La sua prima importante missione iniziò il 26 ottobre 1966 quando come cadetto salpò sul piroscafo a ruota “Kaiserin Elisabeth” che assieme alla corvetta “Dandolo” dovevano raggiungere Vera Cruz in attesa degli ordini di Massimiliano d’Asburgo ormai giunto alla fine del suo impero messicano.

Nella foto il piroscafo “Kaiserin Elisabeth” img240

La corvetta “Dandolo” img241
Nella lunga traversata dell’oceano Atlantico Orel stringerà amicizia con Carl Weyprecht, un ufficiale della Marina austro-ungarica reduce dalla vittoriosa battaglia di Lissa, con cui in seguito affronterà un’incredibile missione nei mari artici.

Nella foto Eduard von Orel img238

Carl Weyprecht img239

Raggiunto il porto di Vera Cruz alla fine di dicembre del 1866, Orell e Weyprecht, dopo un rocambolesco viaggio verso Puebla affrontando gli attacchi dei guerriglieri messicani, si incontreranno con l’imperatore Massimiliano e i suoi ufficiali per una spartana quanto tristissima cena di fine anno.
Nei primi giorni di gennaio del 1867 tutte le truppe francesi all’ordine di Napoleone III° erano già in partenza per l’Europa mentre quelle austriache si avviarono verso il porto di Vera Cruz attendendo sulle navi l’arrivo dell’imperatore in fuga.
Ma la storia ebbe un altro corso: tra lo stupore di tutti Massimiliano decise di rimanere in Messico e di affrontare le spietate guarnigioni di ribelli. Quando però gli uomini dell’Armata Nazionale disertarono, accerchiato da ogni parte, il 15 maggio si rinchiuderà a Queretaro con un gruppo di fedeli. Dopo una strenua difesa durata 72 giorni, sarà costretto ad arrendersi affrontando l’incarcerazione, un sommario processo e il compimento del suo tragico destino conclusosi con la fucilazione avvenuta il 19 giugno 1867.

Ricevuta la tragica notizia e gli ordini di Francesco Giuseppe, gli equipaggi della “Elisabeth” e della “Dandolo” con il prezioso carico di bagagli, rimasero in attesa dell’arrivo della nave “Novara” comandata dall’ammiraglio Wilhelm Tegetthoff incaricato di recuperare la salma di Massimiliano. Le trattative si rivelarono però irte di ostacoli e si protrassero per tutta l’estate.

Nella foto la “Novara” img245

Gli equipaggi furono così costretti a un’estenuante attesa in balia di temperature torride e di malattie tropicali quali tifo, febbre gialla, scorbuto e malaria.
Solo il 28 novembre 1867 la “Elisabeth”, la “Dandolo”, le fregate “Adria”, “Radetzky”, “Schwarzenberg”, la cannoniera “Velebit” assieme alla “Novara” con la cassa mortuaria di Max, partirono da Vera Cruz per raggiungere il porto di Trieste il 15 gennaio 1868.

Nella foto l’arrivo a Trieste delle navi con il feretro di Massimiliano img244
Ottenuto il grado di tenente di vascello, Eduard Orel intraprenderà in seguito una straordinaria e drammatica spedizione che al comando del capitano Carl Weyprecht, porterà la Marina austro-ungarica alla conquista delle Terre di Francesco Giuseppe tra i ghiacci del mare artico. (nota 1)
Negli estenuanti 27 mesi di navigazione e di soste forzate tra i mari artici, Eduard Orell, come altri compagni di viaggio, si ammalerà di scorbuto le cui conseguenze lo costringeranno a mettersi a riposo dopo 2 anni dal suo rientro a Trieste.
Ricevuto dall’imperatore Francesco Giuseppe il titolo nobiliare della Corona Ferrea, gli verrà offerto il posto di amministratore dell’isola di Lacroma e del castello di Miramare nonché la residenza in una villa del parco dove vivrà con la seconda moglie e i 3 figli. (nota 2)
Qui, nel febbraio del 1892, a soli 51 anni Orel morirà di polmonite.

In riconoscimento delle sue eroiche imprese gli saranno tributate delle esequie onorarie alla presenza delle massime autorità civili e militari, del 97° reggimento di fanteria e di una fiaccolata di 4.000 persone che lo accompagneranno nel piccolo cimitero di Barcola. (nota 3)

Note:
1. Siccome questa storia ci ha intrigato assai, l’abbiamo ripercorsa e scritta nell’articolo successivo che verrà pubblicato a breve.
2. La villa è tuttora esistente (e in attesa di destinazione) nella parte alta del parco di Miramare vicino a via Beirut. Qui una foto recente di Aris Prodani: Casa Radonez
3. La tomba di Eduard Orell sarà in seguito smantellata.

Notizie e foto tratte da:
Enrico Mazzoli, Dall’Adriatico ai ghiacci, edizioni della Laguna, Mariano del Friuli (Go), 2003 – Edda Vidiz, Maximiliano, l’Imperatore dal cuore di marinaio, Luglio Editore, Trieste, 2014.

Terstenico – Monte Radio (seconda parte)

Negli anni Trenta la zona a metà del crinale fu invece scelta dalla direzione dell’ EIAR (Ente Italiano per le audizioni radiofoniche) (nota 1) per allestire l’impianto trasmettitore della Compagnia Marconi collegato con una serie di cavi telefonici nell’allora palazzo della Telve di piazza Oberdan.
Sul colle di Terstenico vennero così costruite due torri alte rispettivamente 86 e 82 metri distanti 120 metri l’una dall’altra e fissate su basamenti di cemento armato per resistere alle più forti raffiche di bora.
Tramite appositi cavi isolati queste torri sostenevano un’antenna a forma di T che avrebbe diffuso i programmi radiofonici fino all’Europa centrale e balcanica.

Nella foto (mediasuk.org) le due antenne (nota 2) antenne Monte Radio
Dopo le prove tecniche iniziate il 3 agosto 1931, Radio Trieste fu ufficialmente inaugurata il 28 ottobre 1931.
Da allora il colle di Terstenico fu ribattezzato Monte Radio.

Agli inizi degli anni Cinquanta la zona soprastante rimasta allo stato boschivo venne invece venne scelta dall’INPS per costruirvi una casa di cura per la tubercolosi, allora molto diffusa.

Nella foto (CMSA) i lavori nel 1952Costruzione santorio
Il nosocomio progettato nel 1951 e inaugurato il 17 marzo 1958 con il nome di Ospedale Santorio Santorio, (nota 3) divenne in poco tempo un Centro di riferimento regionale.

Il Santorio (foto Magajna)img131 
Il colle di Terstenico da Riva Ottaviano Augusto (foto anni Sessanta di Gianni Ursini)Gianni Ursini anni 60

Durante gli anni Settanta, quando regredirono le epidemie tubercolari, la struttura fu convertita in un Polo Pneumologico collegato agli Ospedali riuniti di Trieste.

Negli anni Ottanta vennero aggiunti alcuni reparti per lungodegenti fino alla chiusura di tutto il comprensorio nel 2003.

Dopo varie ipotesi per il suo riutilizzo fu indetta un’asta pubblica che fu vinta dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA). (nota 4)
Iniziate le ristrutturazioni nel 2006 e proseguite fino il 2009, l’edificio venne riadattato a sede universitaria le cui lezioni furono avviate nel 2010.

Foto della Scuola (sissa.it)sissa.it
Oggi sulla lunga e ripidissima via Bonomea sono state costruite delle belle ville con giardini e splendidi panorami che spaziano su tutto il golfo, ma appena ci si avventura oltre villa Bonomo e la Scuola ci si ritrova in un fitto bosco dove circolano indisturbati cerbiatti , lepri, scoiattoli e nidificano una miriade di uccelli.
Foto “Il Piccolo” image (2)
Ci piace molto questo erto colle dove hanno convissuto nobili e mezzadri, malati e anziani e che oggi pullula di scienziati e studenti di ogni nazionalità.

Ci piace anche il motto di questa grande Scuola Internazionale che ha ripreso un frammento degli immortali versi di Dante:
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza”.

Foto sissa.it 1200px-Logo_Scuola_Internazionale_Superiore_di_Studi_Avanzati.svg

Note: 

  1. L’EIAR acquistò i terreni dal conte Alessandro Economo (“Il Piccolo”)
  2. Nel 2011 un’antenna fu drasticamente accorciata in quanto non più sicura e impossibile da riparare. Su quella più a nord, ridotta di alcuni metri, saranno concentrati i trasmettitori di Radio 1 in onde medie e Radio Trieste A (rete di lingua slovena)
  3. Santorio Santorio (Capodistria, 29 marzo 1561 – Venezia, 22 febbraio 1636) fu un medico e fisiologo italiano.
  4. La SISSA è un istituto universitario di formazione post-laurea nelle aree della matematica, della fisica e delle neuroscienze, fondato nel 1978 dal dott. Paolo Budinich, già direttore del Centro Internazionale di Fisica teorica la cui sede si trova in via Beirut nei pressi del Parco di Miramare. 
  5. Fonti: Thesauro – beniculturali.it – biblioteche.comune.trieste.it – sissa.it – Articolo “Il Piccolo” 18/12/210

Terstenico (prima parte)

Il colle situato tra i rioni di Gretta e Barcola, si chiamava un tempo Terstenico, nome quasi scomparso dalle attuali mappe che dagli anni Trenta in poi riportano quello di Monte Radio, e vanta una lunga storia le cui prime tracce, conservate nell’ Archivio Diplomatico del Comune, risalgono al Milleduecento. (nota 1) 

cartaInizialmente nominato Terstenich con le varianti Trstenik, Trstenico, Terstenicco e Triestenicco, disponeva di uno stagno con dei canneti (nota 2)  ma il territorio si prestava solamente per pascoli e vigneti come risulta da alcune documenti di compravendita. Esistevano infatti solo delle mulattiere dove era arduo avventurarsi e ancora nel Seicento risulta una “strada della Draga” che ne attesterebbe la precarietà.

Nella Foto (collezione di Luciano Emili) un’antica mappa 13178045_10206225212125628_3532294787248179166_n
Tuttavia la relativa vicinanza dalla città e la splendida vista in una natura ancora incontaminata, interessò il nobilissimo Andrea Giuseppe Bonomo che lo ritenne un sito ideale per costruirsi una bella villa.
Senza insinuare che l’illustre aristocratico, appartenente a una delle più antiche e potenti 13 Casade di Trieste, avesse delle liason con le autorità governative (nota 3) ma il caso volle che fu proprio il governatore conte Karl von Zinzendorf  (nota 4) a costruire nel 1779 una strada intitolata Zinzerdorfiana e diretta proprio a Terstenico.
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Non solo, ma nei documenti dell’ Archivio Diplomatico risulta che nel 1790 la Magistratura abbia donato ad Andrea Giuseppe Bonomo – “per meriti speciali” –  la zona a lui interessata, che in questo caso venne nominata “Grisa”.

(Foto collezione Luciano Emili)13179429_10206225089802570_2630989892110410581_n
Così l’aristocratico Bonomo sistemò un terrapieno bastionato con l’ingresso sulla nuova strada e si costruì un’elegante dimora con un’alzata a timpano, affiancata da altre costruzioni rurali per servizi e servitù.

La residenza in una stampa di fine settecento425b662735be4951916b9e629f63e265
b412c825910b488a86d951b4fce977e1 (1)E’ da qui che nel 1782 il celebre pittore francese Louis François Cassas dipinse il famoso panorama della città, pubblicato vent’anni dopo nella raccolta di stampe Voyage pittoresque et historique de l’Istrie et de la Dalmatie.
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La villa è tuttora esistente e abitata al numero 261 della via che in seguito fu chiamata Bonomea.
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Nelle foto si nota ancora l’ingresso originario tra le due colonnette, una parte delle mura del contrafforte e al primo piano della residenza il poggiolo in ferro battuto con lo stemma della nobile Casata.
b72Quando fu completata la Nuova Strada per Opicina, che permetteva una più agibile percorribilità, le colline alle spalle di Trieste come Gretta e Scorcola iniziarono a popolarsi mentre sul colle di Terstenico, lussureggiante ma erto, vennero costruite solo alcune case rurali nella zona più a valle conosciuta come “Gretta di sopra”.

Note:

  1. Da triestestoria.altervista.org 
  2. Ancora esistenti nell’Ottocento come scrive Alessandro de Goracuchi nel libro “Attrattive di Trieste”  
  3. Dall’ Archivio Diplomatico risulta che nel 1771 Andrea Giuseppe Bonomo fosse stato incaricato di riordinare gli archivi del Comune sugli affari di Trieste, di stilare un resoconto dei lavori svolti e dei provvedimenti da adottare.  
  4. Nato a Dresda nel 1739 e morto a Vienna nel 1813, Karl von Zinzerdorf fu governatore di Trieste dal 1770 al 1780. 

Notizie tratte da:

Pietro Covre, Cronache di patrizi triestini, Tipografia Moderna, Trieste, 1975 –  Alessandro de Gorachuchi, Attrattive di Trieste, Ed. Svevo, Trieste, 1977 – Atlante dei Beni Culturali – triestestoria.altervista.org  – Trieste di ieri e di oggi

 

La famiglia Geiringer

Se sulle opere dell’ingegner Geiringer esistono dettagliate informazioni, sulla sua famiglia se ne sono trovate molto poche.
Si sa che dal felice matrimonio di Moisè Eugenio con Ortensia Luzzatti, figlia di Alessandro ed Elisa Kohen, avvenuto a Trieste il 28 settembre 1874, nacquero a Trieste 7 figli, tra il 1879 e il 1896.
Sul testo Il mondo ebreo (vedi fonti) risulta che prima del 1886 l’ingegnere si convertì al cattolicesimo e di ciò abbiamo conferma per la sepoltura sua e di alcuni parenti nel cimitero di Sant’Anna.
Non si sono invece trovate notizie sulla situazione della famiglia del quartogenito Pietro che visse la tragica vicenda qui brevemente riportata.

Pietro Geiringer, nacque nel 1886, ricoprì la carica di condirettore delle Assicurazioni Generali, si sposò nel 1921 con Francesca Vivante (detta Fanny) da cui ebbe i figli Claudio e Laura, nati rispettivamente nel 1922 e nel 1924.

Nella foto (di Teresa Vivante): Pietro con la moglie Fanny e i figli Claudio e Laurafam Geiringer
Nel dicembre del 1943 furono tutti arrestati a Portogruaro assieme alla madre di Fanny, condotti alla base di Fossoli (Modena) e il 22 febbraio 1944 spediti su un treno diretto al Campo di concentramento di Auschwitz (nota 1)
Giunti il giorno 26, Pietro Geiringer con la moglie Fanny Vivante e la suocera Emilia Mordo vennero condotti nella camera a gas.
Il figlio Claudio morì di stenti il 31 gennaio 1945, dopo l’evacuazione dal Campo di Auschwitz (nota 2) mentre la figlia Laura, riuscita a sopravvivere, fu curata nel Centro della Croce Rossa Internazionale.
Come risulta dal biglietto ferroviario conservato da Teresa Vivante, giunse a Bologna il 12 agosto 1945. (nota 3)

Giorgio Vivante, fratello di Fanny, dalla prigionia a San Sabba, fu condotto anch’esso al Campo di Auschwitz il 31/7/44 e gasato subito dopo l’arrivo nell’agosto del 1944. (CDEC) (nota 4)
Laura Geiringer, forse per le conseguenze degli esperimenti e delle torture subite al Campo di concentramento nazista, morì a soli 27 anni nel 1851.
Fu sepolta nella tomba di famiglia al cimitero di Sant’Anna mentre i genitori Pietro Geiringer e Fanny Vivante con il figlio Claudio ebbero l’incisione dei loro nomi “in memoria”.

Nella tomba di famiglia al Cimitero di Sant’Anna risultano inumate le salme dell’ing. Eugenio (qui con il nome di Gairinger), della figlia Aglae vedova Mayer, del figlio Riccardo con la moglie Carla, del fratello Gioachino, di Teresa (moglie o sorella e della nipote Laura. I nomi di Pietro, Fanny e Claudio sono stati invece scritti “in memoria”. Non è invece certo chi fosse Giorgio, nato nel 1883 e deceduto nel 1940. La figlia Elisa Gairinger (nata nel 1879) risulta deceduta a Firenze nel 1956, mentre si sono perse le tracce del figlio Giacomo, l’ultimogenito di Eugenio e Ortensia, nato nel 1896 e trasferitosi in Nicaragua.

Nella foto la tomba di famiglia dove appare il nome originario GairingerGairinger_Trieste_grave
Quello che sorprende è la mancanza di notizie sulla vita e sulla morte di Ortensia Luzzatti , moglie dell’ingegnere Eugenio e che le cronache riferiscono essere stata amatissima.

Secondo quanto riportato dalla storia, nel 1910, quindi 6 anni dopo la morte di Geiringer, la Società Alpina delle Giulie, di cui l’ingegner Eugenio fu Presidente dal 1886 al 1892, decise di dare il nome di Ortensia alla vedetta di Opicina, collocata sopra il più celebre Obelisco e che venne inaugurata il 23 novembre 1890, quindi ben vent’anni prima.

E’ pure sorprendente che la vedetta eretta nel parco del castelletto e che la storia riferisce di essere stata costruita proprio per l’amatissima moglie dell’ingegner Eugenio, sia invece stata chiamata “Mafalda”, nome che risulta del tutto estraneo alla famiglia Geiringer. Se poi si considerasse la vista che la signora poteva godere dalle terrazze del suo bel castelletto gotico ci sembra ancora più strano che attraversasse il parco per salire su quella brutta torretta di pietra e per di più intestata a una sconosciuta!
Comunque il fatto che la “vedetta Ortensia” sia stata distrutta durante la seconda guerra e che quella detta “Mafalda” abbia resistito alle devastazioni dei tedeschi, che al Castelletto erano di stanza, deve considerarsi “un caso”.

Nella foto la vedetta e la posizione nel parco (in basso a sinistra rispetto al Castellettoimg104
Mah, le storie della storia presentano sempre alcune varianti e a volte sono riferite persino come leggende. Una di queste riguarda le gallerie scavate proprio sotto alla vedetta sopramenzionata la cui esistenze furono riferite da monsignor Santin che come vescovo della Curia, divenuta nel 1982 di fatto proprietaria del Castelletto con il parco (nota 5) avrebbe ben potuto sapere qualcosa… (nota 6)
Queste storie, o se preferire queste leggende, furono scritte nei diari di Diego de Henriquez che nel maggio del 1945 sembra aver trattato la resa dei tedeschi asserragliati nel Castelletto al comando del generale Likenbach. (nota 7)

Vorrei concludere con una curiosità che mi riporta alla signora Ortensia e ai misteri che circondano la sua vita e la sua morte.
In occasione dell’inaugurazione del “Centro Sociale San Benedetto” il 24 novembre 1980, sul lastrico del castelletto fu posta un’inquietante scultura di Ugo Carà: sarà la prospettiva o forse una suggestione ma a me sembra che la donna sia sul punto di gettarsi giù dalle torrette…img102

Gabriella Amstici

Note:

1. Notizie da digital-library.cde.it – genealogy.rootsweb.ancestry.com)
Dai siti relativi alla genealogia dei Geiringer risultano notizie difformi: alcuni riportano la data dell’arresto nel 1944 con la prigionia al Campo di San Sabba, altri riferiscono che dopo la prigionia a Portogruaro seguì quella di Venezia. Sembra invece certa la partenza del convoglio il 22/2/1944 e l’arrivo ad Auschwitz il 26/2/1944 e l’immediata asfissia nella camera a gas.

2. Come risulta dalla data riportata sulla tomba di famiglia a Sant’Anna.

3. In una cartolina della Croce Rossa Internazionale del 9 maggio 1945 e inviata ai cugini Enrico e Angelo Vivante a Trieste, Laura li informa della morte dei genitori e della nonna, di essere stata curata dai russi dopo la liberazione del campo di concentramento e di essere in attesa di rimpatrio (da: Il libro della memoria di L. Picciotto Fargion).

4. Le notizie su Giorgio Vivante furono trovate molto tempo dopo dal figlio Angelo.

5. Come riportato sulla relazione del 23/1/2008 del Ministero dei Beni Culturali.

6. Notizie riportate da: Trieste nascosta, di A. Halupca e L. Veronese.

7. Ibid

Notizie tratte da:
Giacomo Todeschini e Pier Cesare Ioly Zorattini, Il mondo ebreo, Ed. Studio Tesi, Pordenone, 1991 – digital-library.cde.it – genealogy.rootsweb.ancestry.com – Il libro della memoria di Picciotto Fargion) – caisag.it – slidegur.com – Daniela Agapito, Michele Cisilin, Tiziana Saveri, Tesi di Laurea “Villa Geiringer”, 2004 (Biblioteca Archivio Generale del Comune) –

Scorcola e Castelletto Geiringer (seconda parte)

Durante la seconda guerra, tra il 1943 e il 1945, il Castelletto fu sede di un comando della Wehrmacht che ordinò alcuni lavori di canalizzazione per rendere fruibili i servizi igienici, la costruzione di una casamatta e un sistema di fortificazione collegato a una cannoniera.
Il 2 maggio 1945, dopo la resa del Generale Linkenbach agli anglo-americani, entrambe le strutture furono fatte esplodere.

Sequestrato il Castelletto, il Governo Militare Alleato eseguì alcuni lavori sulle strutture dell’edificio destinandolo al ricovero degli invalidi di guerra con la gestione dell’E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza).
La parte più pianeggiante del parco venne usata per le abitazioni civili dei militari e per il campo di atletica dell’esercito americano, oggi conosciuto come “Campo Cologna”.

Tra il 1947 e il 1949 l’Ufficio dei Lavori Pubblici risanò i terreni circostanti completamente devastati.
Dopo gli anni Cinquanta il Castelletto fu adibito per un breve periodo a Casa dello Studente che accolse anche i profughi di guerra intenzionati a seguire le scuole medie superiori. (nota 1)

Nelle foto (dei Civici Musei) l’inaugurazione alla presenza di monsignor Santin17629737_1876193535928627_4611539246845904473_n

17634527_1876193702595277_1432982806779768287_nBen presto giunsero però gli anni dell’abbandono e del totale disinteresse anche da parte delle legittime proprietarie che negli anni Sessanta risultarono essere Livia e Paola Modiano; così il bel castelletto di Scorcola andò in rovina.

Nelle foto (Gianni Ursini) il panorama dalla vedetta e la desolazione del parco intorno agli Settanta: 11800327_10207045768531662_8605519191961079446_n

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Nel gennaio del 1979, Paola Modiano in Ferrari, ultima erede della famiglia Geiringer, donò il Castelletto e il parco alle Benedettine di San Cipriano che furono costrette a impegnare il loro patrimonio immobiliare e tutte le doti accumulate per attuare gli ingentissimi lavori di ristrutturazione.

Nella foto (da Gazzettino Giuliano) le condizioni dell’ingressoINTERNO-GEIRINGER-1979
Vennero così sistemati i solai e le coperture sfondate, restaurati gli intonaci, ricostruite le merlature, sostituiti i serramenti, riparate le infrastrutture e riarredati tutti gli interni.

La zona del parco di fianco all’edificio interessò gli speleologi della Società Adriatica di Speleologia che ispezionando la zona sotto la vedetta (menzionata da alcuni storici come “Torre Mafalda”), rinvennero le tracce della casamatta costruita dai tedeschi e l’inizio di una galleria che presumibilmente fu una parte di tutto il complesso militare sotterraneo. (nota 2)

Ritornato al suo aspetto originario, il dott. Giuseppe Nobile, procuratore del Monastero di San Cipriano,  affidò il Castelletto al “Centro Sociale San Benedetto”. Inaugurato il 23 novembre del 1980 fu destinato a una scuola privata di lingua inglese e per supportare i costi di gestione venne aggiunta una mensa aperta al pubblico.
(Foto di Nereo Gulli) CASTELLO
Il Centro però fallì dopo soli due anni e la gestione passò alla Curia che si occupò della manutenzione del parco per poi cedere nel 1994 tutta la proprietà alla “Immobiliare il Castelletto” che nel 2000 la trasferì alla “Scuola del Castelletto S.r.l.”
Rinominata European School of Trieste è stata riconosciuta scuola paritaria ed essendo soggetta alle normativa del Ministero della Pubblica Istruzione permette agli studenti il passaggio a una qualsiasi istituzione pubblica scolastica italiana senza dover affrontare esami di ammissione.

Con un decreto del 2008 il Castelletto Geiringer è stato affidato alla Sopraintendenza per i Beni archittetonici e del paesaggio come patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico del Friuli Venezia Giulia. 228819-800x535-500x334

Note:
1. La Casa dello Studente fu poi trasferita al Ferdinandeo e successivamente a villa Haggincosta;

2. Da Trieste sotterranea: “Numerose sono infatti le segnalazioni che indicano ulteriori passaggi ipogei. Per il momento però, queste diramazioni non sono state ancora rintracciate e non è chiaro se il sistema ipogeo sia stato completamente minato e distrutto oppure se vi siano ancora oggi nel sottosuolo ulteriori ambienti ancora percorribili”

Notizie tratte da:
Daniela Agapito, Michele Cisilin, Tiziana Saveri, Tesi di Laurea “Villa Geiringer”, 2004 (Biblioteca Archivio Generale del Comune);
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Relazione storico-artistica, Trieste, 2008;
Atlante dei Beni Culturali, Comune di Trieste;
A. Halupca, P. Guglia, E. Halupca, Trieste sotterranea, Ed. Lint, Trieste, 2010;

Scorcola e Villa Geiringer (prima parte)

Lo sviluppo urbano del colle di Scorcola iniziò dopo l’apertura della Strada Commerciale Nuova (con inizio da piazza Lavatoio, oggi Dalmazia) costruita tra il 1777 e 1781 dal Governatore di Trieste Karl von Zinzerdorf con l’intento di prolungarla verso Sesana, già collegata a Vienna e Lubiana.

Il progressivo aumento dei traffici portuali e la difficoltà di transito, peraltro a pagamento, causato dalla forte pendenza della via, indussero a studiare altri tracciati.
Su istanza del conte Domenico Rossetti, l’imperatore Francesco I realizzò così la Nuova Strada per Opicina (oggi via Fabio Severo) che, inaugurata nel 1830, risaliva il colle con una serie di tornanti più agilmente percorribili.
Sul versante meridionale del colle di Scorcola alcune famiglie dell’élite triestina si costruirono così delle splendide ville circondate da parchi, giardini e grandi serre per la floricultura (nota 1) offrendo agli ospiti dei piacevoli soggiorni tra il verde e gli spettacolari panorami del golfo e della città.
Il panorama nel quadro a olio di Johann Varoni (Milano 1832 – Vienna 1910)17990862_1883743138507000_6229921353351069764_n
Verso la metà dell’Ottocento una vasta area della collina fu abitata dai fratelli Antonio e Giovanni Martin, ricchi negozianti svizzeri che nel 1883 la cedettero a Giacomo de Prandi, nobile de Ulmhort , già proprietario di una villa con parco attorno all’antica Porta San Lorenzo (sulla via san Michele) e che qui si costruì una casa domenicale.

L’ambitissima zona interessò l’architetto-ingegnere Eugenio Geiringer (nota 2) che la acquistò nel 1888 già studiando l’ ambiziosissimo progetto di una funicolare per collegare la città alla vetta del colle di Scorcola.
Nell’attesa dell’approvazione per attuare le avveniristiche strutture della linea ferrata, nel corso degli anni 1896-98 l’ingegnere ristrutturò completamente la casa domenicale del de Prandi trasformandolo in un castelletto secondo lo stile neo-castellano-medievale allora molto di moda. (nota 3)10687967_733460666723561_6262536644490642790_o (1)
L’imponente edificio, posizionato in un punto molto panoramico e chiamato con inaspettata sobrietà “Villa Geiringer(nota 4) era racchiuso da 2 torri laterali di diversa grandezza e merlature di mattoni, con i muri parzialmente in pietra o rifiniti con intonaco color pastello.
Sulle pareti esterne del corpo abitativo affacciato su un grande terrazzamento, vennero posti degli stemmi nobiliari e antiche lapidi romane che l’ingegnere amava collezionare e in parte anche raccolti in una sottostante torretta costruita, come riferisce la storia, per l’amatissima moglie Ortensia, sposata nel 1874 e con cui ebbe 7 figli.

Nella foto CMSA alcuni stemmi:STEMMIGEIRINGER
Nella grande area boschiva circostante furono inoltre realizzati un parco di stile inglese e un giardino all’italiana.

Dopo la bocciatura del primo progetto per la linea Trieste-Opicina presentato dall’ingegnere nel 1894, il 9 gennaio 1901 venne approvato quello sostenuto da importanti esponenti del mondo economico-finanziario triestino e dalla Società Elettrica Union di Vienna, nonostante una serie di polemiche vox populi per il fatto che la linea funicolare passasse sui terreni di Geiringer stesso e degli azionisti della Società che avrebbe gestito i lavori.

Nella foto (L. Smolars) la Ferrovia Trieste-Opicina poco dopo l’inaugurazione avvenuta nel 1902:img100
Ma dopo soli 2 anni, il 18 novembre 1904, si concluse l’intensa vita lavorativa dell’ing.  Geiringer; a Trieste rimasero tutte le grandi opere da lui realizzate e ai figli l’eredità del Castelletto.

Tra gli anni Venti e Trenta una consistente parte dei terreni circostanti fu acquisita dal Comune assieme a quelli delle famiglie Rumer e Krausenek e nel 1934 tutta l’area dalla superficie complessiva di 23,5 ettari di aree verdi fu adibita a parco pubblico nominato “Villa Giulia”.
Mancano invece notizie sull’utilizzo del Castelletto da parte degli eredi ma fu supposto non fosse stato frequentato abitualmente pur rimanendo in discrete condizioni.

Note:

  1. Le romantiche descrizioni furono riportate da Alessandro Goracuchi (medico di fiducia di Massimiliano d’Asburgo e del barone Pasquale Revoltella) nel suo libro Attrattive di Trieste stampato nel 1883 dall’Imprimerie du Lloyd austro-hongrois.
  2. Moisé Eugenio Geiringer, figlio di Ruben Isach Roberto Geiringer, nativo di Gajary (a nord di Bratislava in Slovacchiatra) e di Eva Morpurgo, appartenente alla famiglia di banchieri che fondarono le Assicurazioni Generali, nacque a Trieste nel 1844, e qui morì, nel 1904 dopo una straordinaria carriera di costruttore-architetto e di prestigiose cariche istituzionali. (vedi articolo  https://quitrieste.it/eugenio-geiringer-2/) Sposatosi nel 1874 con Ortensia Luzzatti ebbe 7 amatissimi figli di cui Pietro (1886-1944), condirettore delle Assicurazioni Generali morì con la moglie Francesca Vivante nel campo di sterminio di Auschwitz.
  3. Lo stile gotico-medievale venne diffuso in Europa già alla metà dell’Ottocento; alcuni sostennero per uno spirito di emulazione del bel castello di Miramare costruito dall’arciduca Massimiliano d’Asburgo.
  4. “Una casa dominatrice di 3 orizzonti” la definì Silvio Benco

Notizie tratte da:
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Relazione storico-artistica, Trieste, 2008;
Atlante dei Beni Culturali, Comune di Trieste;
Daniela Agapito, Michele Cisilin, Tiziana Saveri, Tesi di Laurea “Villa Geiringer”, 2004 (Biblioteca Archivio Generale del Comune);
Stella Rasman, Cent’anni col Tram, MGS Press, Trieste, 2002;
G. Alessandro de Gorachuchi, Attrattive di Trieste, Ed. Svevo, Trieste, 1977.

Le scuole nautiche di Maria Teresa d’Austria

Garantita la sicurezza dell’Impero con un’amministrazione corretta e un esercito potente, Maria Teresa d’Austria si occupò dell’insegnamento scolastico poichè riteneva che “Il popolo va tolto dall’ignoranza, ad esso va data istruzione al fine di poter migliorare la propria condizione, essere utile a se stesso, allo Stato, alla prosperità della collettività”.

Quando nel 1753 l’imperatrice volle creare una flotta austriaca addestrando i “suoi marinai”, affidò al padre gesuita Francesco Saverio Orlando l’incarico di organizzare una scuola adatta.
Inaugurata nel novembre del 1754 iniziò i corsi di nautica e matematica con solo 20 iscritti appartenenti all’élite nobiliare tra i 25 e i 30 anni di età.

Nonostante il suo insuccesso, che peraltro continuò anche negli anni successivi, l’imperatrice Maria Teresa non solo la mantenne considerandola necessaria per la Marina mercantile, ma nel 1773 vi aggiunse anche i corsi di ingegneria.

Dopo il trasferimento per alcuni anni della scuola a Fiume nel 1783, ripresero i corsi a Trieste ma già nel 1787 gli studenti, ancora in numero ristretto, si lamentarono di non trovare imbarchi alla fine degli studi.

Durante l’occupazione francese avvenuta tra il 1809 e il 1813, insorsero anche problemi di natura politica e la scuola venne unita per un breve periodo con un liceo-ginnasio chiamato genericamente “collegio”.

Nel 1817 la scuola ottenne la sede a palazzo Biserini di piazza Lipsia (nota 1) appena ristrutturata dall’architetto Pietro Nobile, acquisendo il titolo di Imperiale Regia Accademia di Commercio e Nautica.
(Nella foto palazzo Biserini, collezione privata Giorgetti) img050

Dopo il 1833 venne deciso che per il titolo di costruttore navale si dovessero superare gli esami alla fine dei corsi, ai quali 10 anno dopo furono aggiunti quelli di meccanica applicata alle macchine a vapore.

Le lezioni dell’Accademia proseguirono a palazzo Biserini anche dopo il 1856 quando fu edificato un terzo piano per raccogliere le collezioni del Museo di Storia Naturale.

Nel 1875 il Governo decise di riunire in un’unica sede tutte le scuole del borgo Giuseppino fino allora dislocate in diversi edifici.
Il progetto dell’ingegner Giovanni Righetti fu attuato dalla Banca Triestina di Costruzioni nella zona a sud di piazza Lipsia, quindi di fronte a palazzo Biserini, occupata da due stabili erariali e già nel 1876 iniziarono a funzionare le prime scuole.
(Foto Comune di Trieste) nautico 2Verso la fine dell’Ottocento nel nuovo edificio furono conglobati il Ginnasio (K.K. Staatsgymnasium, al quale spettava l’entrata sulla piazza), la Scuola Reale Superiore (Staats-Ober-Realschule) e la scuola popolare tedesca con sezioni sia maschili che femminili.

Ma l’impero Austro-ungarico si avvicinava ormai al suo epilogo.
Dopo gli anni di guerra e i grandi cambiamenti che ne seguirono, piazza Lipsia (chiamata anche per un periodo “Degli Studi”) venne rinominata piazza Attilio Hortis, come il nome della Biblioteca Civica rimasta a palazzo Biserini, mentre dopo il 1919 la vecchia Accademia divenne il Regio Istituto Nautico “Tomaso di Savoia, Duca di Genova” con una serie di progressive riforme per adeguare gli allievi alle rapide innovazioni tecnologiche riguardanti tutta la Marineria.
Portale nautico
In tempi recentissimi dopo il restauro eseguito dalla Provincia, sul portale dell’ingresso principale dell’attuale piazza Hortis, è riapparsa la scritta originale del Ginnasio austriaco in ricordo del lungo Impero asburgico.
(Foto “Il Piccolo”) image

Nota 1: Oggi piazza Hortis. Nel 1822 a palazzo Biserini sarà sistemata la Biblioteca Civica

Documentazioni tratte da:
Diana de Rosa, Estratto dall’ “Archeografo Triestino” Serie IV – 1999 – Volume LIX;
nauticogalvani.com;
“Il Piccolo”, articolo su Trieste Cronaca dell’ 8 novembre 2015