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Incontri: Massimiliano e Sissi (prima parte)

Quando nel settembre del 1850 Massimiliano d’Asburgo giunse per la prima volta a Trieste (1)  la duchessa Elisabetta di Wittelsbach ne aveva solo 13, e già da 8 possedeva il titolo di “Sua altezza reale” conferitole dalla nomina del padre come discendente dei duchi di Baviera.
Il loro incontro avverrà nella primavera del 1854 quando l’arciduca, dopo i suoi lunghi viaggi nel Mediterraneo e nei mari d’Oriente ritornerà a Vienna per incontrare il fratello e la promessa sposa che aveva appena abbandonato la casa paterna di Monaco per divenire a soli 17 anni Imperatrice d’Austria.questa

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Accolto da un amabilissimo Francesco Giuseppe, Massimiliano partecipò ai festeggiamenti nuziali e alle pompose nozze del 24 aprile, ammaliato dalla bellezza e dall’affascinante personalità della giovanissima cognata.
HofburgQuel giorno fu festeggiato anche a Trieste: in porto si schierarono il piroscafo Kaiserin Elisabeth con una parata di navi austriache imbandierate, le chiese furono addobbate con fiori e nastri bianchi e rossi, sui sagrati vennero distribuiti cibi e denari per i bisognosi e molti condannati ottennero la grazia per volontà dell’Imperatore.

Nell’aprile del 1851 Massimiliano si recherà nuovamente a palazzo reale per un incontro con il fratello ed Elisabetta, divenuta un mese prima madre della piccola Sofia.
Condividendo i loro ideali, la passione per la poesia, l’arte, la natura e il mare, i due cognati strinsero una grande amicizia che sarà ulteriormente risaldata quando Max, reduce da un viaggio sulla Novara, nel settembre del 1855 soggiornerà per più di un mese nella Hofburg.

Quando il 19 novembre 1856 gli Imperatori d’Austria giungeranno in piazza Grande di Trieste tra una folla entusiasta, saranno accolti da Massimiliano che li affiancherà per tutti i 5 giorni del loro soggiorno, partecipando alla rappresentazione di gala della Traviata a teatro Verdi e al grande ballo nel salone della Camera di Commercio.Csan carmen

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Mentre Francesco Giuseppe tra udienze, visite e parate militari assolveva i suoi incarichi istituzionali, l’Imperatrice, da luglio mamma della secondogenita Gisella, risalirà sulla Kaiserin Elisabeth, per l’occasione ridipinta in azzurro e bianco, e scortata da 12 navi navigherà verso Santa Croce e Miramare dov’era in corso la costruzione del castello e ancora verso il golfo di Muggia.

Doveva essere stato felice quell’incontro con il nostro mare se rifiutando il rientro con la scialuppa di gala l’Imperatrice volle farsi accompagnare dall’Ammiraglio di porto e da una dama di corte su una semplice barca a sei remi per godersi un ultimo giro tra le acque triestine.
Forse nacque proprio allora la sua passione per le mete lontane dalla noiosa corte di Vienna, seguendo quel “gabbiano che vola di onda in onda” menzionato nei suoi versi.

Sarà questo l’ultimo viaggio felice di Elisabetta, allora solo diciannovenne; l’anno successivo gli imperatori avranno accoglienze ben diverse nelle provincie del Lombardo-Veneto e durante la successiva visita in Ungheria la piccola Sofia, che avevano voluto portare con loro assieme alla secondogenita Gisella, si ammalò e morì a soli due anni nel maggio del 1857.
SophieDopo il tristissimo ritorno a Corte la giovane Imperatrice iniziò a rifiutare le sue apparizioni in pubblico, e isolandosi in un’angosciata solitudine iniziò a rifiutare il cibo.

Intanto l’arciduca Massimiliano, tra un viaggio e l’altro e gli impegni governativi a Milano, nel luglio del 1857 convolò a nozze con la giovanissima Carlotta, principessa del Belgio, e quando si recarono a Schönbrunn per i saluti, furono accolti con grande affetto da Francesco Giuseppe e da Elisabetta, che per loro abbandonò gli abiti di lutto.

Ma erano già iniziati i disturbi nervosi che tormenteranno la vita della giovane Imperatrice che  la indurranno ad allontanarsi dalla Corte austriaca soggiornando nel castello di famiglia a Possenhofen, in Baviera.

Nell’autunno del 1860 Elisabetta colpita da un’infezione ai polmoni e consigliata dai medici a trascorrere alcuni mesi al Sud decise di partire per Madera. (2) Dopo il rifiuto dell’Imperatore a concederle le navi austriache (3) Sissi si rivolgerà alla sua vecchia amica la regina d’Inghilterra Vittoria che le mise a disposizione lo yacht Victoria and Albert.

(continua nella seconda parte) 

Note:

  1. Massimiliano deciderà di stabilirsi a Trieste nel febbraio del 1852 prendendo in affitto la villa Lazarovich a San Vito;
  2. Alcune notizie storiche riferirono che si trattò di un inizio di tisi ma non mancarono i pettegolezzi sui suoi rapporti con il marito e la Corte austriaca;
  3. Le cronache imperiali asserirono che Francesco Giuseppe si fosse adirato con il fratello Massimiliano per aver descritto così entusiasticamente Madera da suscitare l’interesse della cognata. 

Notizie tratte da: Carizzoni-De Rosa – De Vecchi, Sissi. Elisabetta d’Austria. L’impossibile altrove, Silvana Editoriale, 2000 – Ed. Silvana; Ruaro Loseri, Massimiliano. Da Trieste al Messico, Edizioni LINT, Trieste, 1986

 

Antiche cappelle

li sviluppi architettonici e urbanistici hanno spesso sacrificato degli edifici storici per favorire i quartieri residenziali e la viabilità ma alcune strutture sono state risparmiate dalle ruspe e continuano a sopravvivere. Forse per rispetto dei credenti o per le tradizioni di un tempo, alcune antiche cappelle di città e dintorni sono state conservate e restaurate testimoniando le storie del loro passato.

Sul monte di San Pantaleone, quand’era ancora ricoperto dalle campagne, nel 1724 venne eretta una piccola chiesa nella proprietà di Anton Pietro de Giuliani e della consorte Elena. Nelle Reminiscenze storiche di Trieste lo storico Pietro Tomasin riporta che l’edificio fu dedicato alla Beata Vergine in memoria di una tremenda bufera avvenuta il 5 agosto del 1710 e dove in seguito si svolse una processione dei confratelli del Santissimo Sacramento.disegno

Soppressa nel 1785 per ordine di Giuseppe II, nel 1830 la chiesetta accolse le spoglie dell’ultimo erede della nobile famiglia.
Caduta in rovina fu restaurata nel 1969 e alla fine degli Novanta; ancora ai nostri giorni il 24 luglio, giorno di San Pantaleone, viene officiata una breve messa sul campo adiacente.

Nella foto l’antica cappella intestata alla Madonna della neveMaria delle nevi
La cappella di via Giarizzole com’è oggigiarizzole
Tra le case di Strada Vecchia dell’Istria e la Salita di Zugnano si trova la cappella dedicata a Sant’Anna (1) dove il 26 luglio, giorno della sua commemorazione, veniva celebrata una messa propiziatoria per le partorienti (2). Nello spazio esterno le popolane vendevano fiori e candele tra le musiche della banda di Raute-Kolonkovec per poi continuare la festa nell’attiguo cortile dov’erano offerti biscotti e cioccolate calde per i bambini e trippe con vino per gli adulti.corretta sepia

Dallo storico carmelitano Ireneo della Croce sono state tramandate alcune notizie dell’antichissima cappella San Canciano, martire di Aquileia, eretta sul promontorio di Grignano e di cui rimangono le mura in un angolo del parco di Miramare, vicino al Castelletto.
Nel Milletrecento la zona era interamente coperta di vigneti e apparteneva alla potente casata tergestina dei Ranfi; in seguito alla leggendaria congiura del Rettore Marco con la sua uccisione e la condanna a morte della sua famiglia, nel 1322 il figlio Pietro vendette le terre di Grignano al Vescovado. Nel 1365 il decano Alberti le affittò insieme alle case e agli orti a un certo Marino di Prosecco e l’anno successivo nella chiesetta risulterebbe officiata la prima messa.
Mancando notizie successive si dedurrebbe che nei secoli successivi la spartana vita tra quelle campagne fosse proseguita tranquillamente fino alla perdita delle vigne e al successivo crollo della cappella.
Quando a metà dell’Ottocento l’arciduca Massimiliano d’Asburgo acquistò tutto il promontorio di Grignano, volle mantenere gli antichi ruderi preservando la nicchia dell’altare dove in seguito fu aggiunto un Cristo sulla croce ricavata dal legno della sua leggendaria nave Novara.Canciano due

La piccola chiesa di Cavana, voluta per volere testamentario del vescovo Nicolò Aldegardis dedicata a San Sebastiano fu consacrata nel 1459 ma in seguito alle terribili epidemie di peste avvenute nella prima metà del Cinquecento fu demolita e sulle sue rovine venne ricostruita una nuova cappella con il nome aggiuntivo di San Rocco, protettore degli appestati.
Quando però nel 1602 fu eretta la nuova Chiesa in piazza Grande intitolata al santo, la cappella di Cavana venne sconsacrata dall’imperatore Giuseppe II, nel 1782 messa all’incanto e dopo essere sottoposta ad alcune modifiche sulla facciata fu riadattata ad abitazione privata.
Nel 1871 venne ereditata dalla contessa Nugent e nel 1951 l’ultima proprietaria della nobile famiglia la donò al Comune.
Caduta in rovina nei decenni successivi sono in tempi recentissimi è stata ristrutturata e affittata a un centro commerciale. san sebastiano

La chiesetta gotica di lato alla Cattedrale di San Giusto risale al XII secolo ma divenne proprietà del Capitolo della Cattedrale nel 1328 (3). Dedicata a San Michele Arcangelo con l’appellativo “al Carnale” fu la cappella dell’antico cimitero cattolico e usata anche per la raccolta dei resti dei defunti che venivano gettati attraverso le 3 finestre rotonde sul lato dell’edificio per essere raccolte in un ossario comune sotto la cripta.
Quando nel 1784 l’imperatore Giuseppe II emanò il decreto di abolizione di tutte le sepolture delle chiese e dei cimiteri minori della Madonna del Mare, San Francesco, Santi Martiri e di San Nicolò, quello della Cattedrale fu ampliato rimanendo l’unico cattolico della città fino al suo smantellamento avvenuto nel 1825 per l’entrata in funzione del Campo santo di Sant’Anna.
San Michele al Carnale divenne così una cappella mortuaria usata fino al luglio del 1924; con le ristrutturazioni del 1929 venne riportata all’aspetto originario del Milletrecento quando iniziò la sua storia secolare.Carnaleal carnale
Note:
1. Sant’Anna, madre della Vergine Maria, è invocata come protettrice delle donne incinte che si rivolgono a lei per ottenere un parto felice, un figlio sano e il latte per poterlo allevare;
2. L’usanza continuò fino agli anni Cinquanta:
3. Il Capitolo Cattedrale di San Giusto Martire è la più antica istituzione ecclesiastica della Diocesi ed è costituita dal Vescovo e da un insieme di clerici per l’assistenza della chiesa e la conservazione dei documenti.

Notizie tratte da: Pietro Tomasin, Reminiscenze storiche di Trieste – dal IV al IXI sec., Tip. G. Balestra, Trieste, 1900 – Civici Musei di storia e Arte, San Giusto, ritratto di una Cattedrale, Stella Arti grafiche, Trieste, 2003 – Atlante dei Beni Culturali – Enciclopedia Treccani

Collegamento  esterno con Trieste segreta:

https://triestesegreta.blogspot.com/2018/10/la-cappella-di-santandrea.html

Cronache burlesche di Trieste

 

corettoVerso la metà dell’Ottocento, quando le strade notturne erano illuminate dalle flebili fiamme dei fanali a olio e percorse solo da pochi viandanti muniti di lanternino, si vociferava che dopo la mezzanotte in contrada Prandi si aggirasse un’eterea e silenziosa dama bianca in cammino verso il vecchio cimitero di San Giusto. Quando un celebre artista scritturato al Teatro Grande (1) attestò la sua esistenza le apparizioni della dama furono riportate sui giornali diventando cronaca di città per poi durare fino alla comparsa dei nuovi fanali a gas illuminante. (2) 

 

HydeIn contemporanea alla “dama bianca” non poteva mancare “l’uomo nero” che però non fuggiva alla luce diurna ma anzi si specificava che all’ora del liston passeggiasse addirittura lungo il Corso tra il fuggi-fuggi dei cittadini terrorizzati dal suo sguardo iettatore.

damaneraMa la più surreale leggenda di quei tempi riferiva la presenza di una misteriosa signora velata giunta a Trieste durante la Quaresima dell’anno 1852 e alloggiata nella Locanda Grande. Nessuno l’aveva vista ma con la celerità del telegrafo, allora appena introdotto, si diffuse la notizia che fosse una nobile gentildonna, colta, ricchissima e in cerca di marito. I numerosi pretendenti che si presentavano al suo cospetto, venivano accolti nella sua stanza dove costei, elegante e slanciata appariva nella penombra. I suoi modi erano cortesi e la sua voce angelica ma quando si toglieva dal volto il fitto velo (per alcuni un drappo di velluto nero) appariva la spaventosa faccia di un morto.
corrNaturalmente gli spasimanti fuggivano a gambe levate, alcuni sarebbero addirittura svenuti per la scale e rianimati con la Melissa dei Frati scalzi, però poi nessuno udì la loro testimonianza in quanto rimasero sempre irreperibili.

Allora un curioso quanto intraprendente giornalista deciso a scrivere un articolo sulle Cronache e a tacitare cotanti pettegolezzi, si presentò alla Locanda Grande chiedendo il permesso di fare un’intervista alla misteriosissima dama. L’albergatore ridendo a crepapelle ammise il soggiorno di una una forestiera che secondo la sua cameriera cercava marito velandosi il viso per un sua personalissima ragione specificando che queste informazioni erano state da costei confidate a uno sguattero che poi le riferì al portinaio il quale le riportò a una “tabacchina” per essere subito raccontate, con tanto di aggiunte e di ricchezza di particolari, al marito barbiere. Così, come nel tradizionale ruolo del Figaro rossiniano, non solo la notizia venne diffusa in un battibaleno ma fu pure esageratamente dettagliata e diffusa per tutte le contrade di città.
“A Trieste si fa di ogni mosca un elefante” asserì il giornalista nel suo articolo, ciononostante la signora dalla testa di un morto riapparve a più riprese a Gorizia, a Fiume e di nuovo a Trieste.

Dopo solo 2 anni dall’arrivo in città della enigmatica signora velata, lo scrittore Adalberto Thiergen (3) si ispirò alla sua storia scrivendo il tragicomico racconto “L’avventura di un barbiere triestino” dove il ruolo del Figaro concittadino era affidato a un certo signor Leone Spaccagnocchi.
Da allora la terrificante dama velata divenne una delle leggende della città che ci siamo divertiti a raccontare.

Note:
1. Non è dato sapere chi mai fosse stato
2. Dopo il 1864 quando nacque l’Officina Comunale del gas illuminante
3. Adalberto Thiergen, pseudonimo di Tito Delaberrenga, nacque nel 1822 a Landstrom in Boemia ma 2 anni dopo si trasferì a Trieste con la famiglia. A soli 18 anni iniziò a collaborare con la rivista “La Favilla” che tra il 1842/43 pubblicò tutti i suoi racconti.
Nel 1844 scrisse il romanzo popolare La Marinella, figlia del garzone gobbo dell’usuraio Falco in una storia ispirata dalla famiglia Marinellis che intorno al Cinquecento visse in un’androna di Cittavecchia.
Il romanzo non solo ebbe uno strepitoso successo ma fu rielaborato in un dramma teatrale e in un libretto d’opera musicato da Giuseppe Sinico.
In seguito Thiergen scrisse I misteri di Trieste raccolti in 4 volumetti pubblicati nel 1858, anno della sua morte.

Notizie tratte da: Riccardo Gurresch (Ricciardetto), Vecchia Trieste, Anonima Libraria Italiana, Trieste, 1930img156  

Il cotto in crosta di pane

Il prosciutto cotto nella crosta di pane è una tradizione triestina ma le tracce della sua origine risalgono nientemeno che ai tempi dell’Impero Romano quando Marcus Gavius Apicius, un celebre gastronomo vissuto tra il I° secolo a.C. e il I° d.C., scrisse un gran numero di Praecepta culinarum (1) dell’epoca. 51QSxpIBwsL._SX331_BO1,204,203,200_

Nel settimo libro del testo risalente al V secolo d.C. “De arte coquinaria(2) (o “De re coquinaria“) appare una ricetta per la preparazione del prosciutto ottenuta con la della coscia di maiale lessata con alloro e fichi e passata con una “lardellatura” di miele successivamente cotta e poi avvolta in una “crosta” preparata con farina e olio. Le fette così ottenute venivano accompagnate con il vino cotto. img363

Le stravaganti e raffinate ricette di Apicio continuarono fino al Medioevo anche se via via vennero modificate secondo le evoluzioni storiche delle varie regioni.

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Anche la preparazione del prosciutto ebbe delle varianti: dopo la cottura s’iniziò a ricoprirlo con la pasta di pane al posto di farina e olio e poi a sottoporlo ad affumicatura ottenendo degli affettati dal gusto dolce e delicato.

In seguito la carne venne disossata, cotta in apposite caldaie, avvolta nell’impasto di pane e infornata per un minimo di 8 ore (secondo l’”Accademia della cucina italiana” era necessaria i ora di cottura per ogni chilo).
Con questo procedimento i profumi e i sapori restavano imprigionati nella crosta di pane che quando veniva tolta diffondeva un golosissimo profumo.

In passato l’usanza di questo particolare procedimento fu adottato in Boemia che serviva come antipasto le fette ancora calde accompagnate da radici di rafano grattuggiate e senape.
Ben presto Trieste né importò la tradizione assieme ai wurstel e ad altri salumi .
I fratelli Masè furono i primi nel lontano 1870 ad avviare in città una produzione artigianale del prosciutto cotto raggiungendo un tale livello di qualità da divenire un prodotto tipico servito nei buffet e quindi nelle salumerie.
Per prolungarne la freschezza fu adottato l’uso di un’iniezione manuale di salamoia in vena, procedendo a una cottura molto lenta e una leggera affumicatura con truciolo di faggio.
La coscia veniva poi avvolta nella pasta di pane e sottoposta a una cottura a 200 C° per circa due ore.
Le fette di prosciutto così ottenute acquistavano così un bel colore rosato e un sapore delicatamente affumicato. Cotto mase

Servito con un’affettatura rigorosamente a mano, non sorprende che il cotto in crosta di pane sia ancora richiestissimo, un vero brand tipicamente triestino, non vi pare?

1. Ricette gastronomiche
2. Arte culinaria

Fonti: accademiaitalianacucina.it – cibo.360.it – Wikipedia

I mulini del torrente Lussandra

Come si è scritto nei precedenti articoli dal versante a ovest della Val Rosandra (nota 1) sgorgavano diverse fonti d’acqua che si ricongiungevano a quelle più abbondanti della Fonte Oppia (chiamata anche Glinščica ) che vennero sfruttate fin dal I° secolo d.C. da tutto l’Agro romano stabilitosi nell’antica Tergeste. (nota 2)
Quando nel corso del VI e VII secolo il lunghissimo acquedotto venne distrutto dall’avvento dei barbari, le acque della Val Rosandra continuarono a scorrere liberamente scavando un alveo naturale e arricchendo la portata del fiume anche se dovettero trascorrere ancora molti secoli prima dello sfruttamento della loro energia.

A partire dal IX secolo finì la schiavitù e lo sfruttamento umano e animale mentre il progressivo aumento demografico necessitava di una maggiore produzione di farine.
Fu cosi escogitato un sistema per la macinazione delle granaglie mediante l’uso di grandi ruote che, spinte dall’energia delle portate fluviali, azionassero i torchi permettendo un forte aumento produttivo di farine.

Nei nostri territori la più antica testimonianza dell’esistenza dei mulini ad acqua risale all’anno 1085 quando il patriarca Wolrico destinò a una confraternita di frati l’antico monastero di San Giovanni in Tuba, vicinissimo quindi alle ricchissime risorgive del Timavo.

Come si è già scritto nelle vicinanze di Trieste l’unico corso d’acqua era quello del torrente Rosandra, sufficientemente ricco per azionare le pale delle macchine idrauliche sebbene durante i mesi estivi si verificassero dei periodi di siccità e in quelli invernali vi fosse il rischio delle gelate.
Le prime notizie scritte sull’uso dei mulini si trovano su un atto di compravendita della Vicedomineria di Trieste risalente al 1276 dove risultò l’esistenza di altri 3 in proprietà del Vescovado.

Negli statuti trecenteschi conservati nell’Archivio Diplomatico (presso la biblioteca Hortis di via Madonna del Mare) si trovano interessanti testimonianze dell’attivita molinaria presente a Trieste

Nei cinque secoli successivi i mulini aumentarono di numero e nel 1757 nel tratto del torrente tra Bollunz (Bagnoli) e il mare se ne contavano ben 16 a ruota singola, doppia o tripla.
Nella mappa sottoriportata si nota la collocazione dei mulini (segnati in rosa) lungo il fiume “Lussandra” e un canale parallelo che convogliava lungo la “Strada dei mulini” diretta a Trieste.

In questa mappa della metà del XVIII secolo è segnato il mulino di San Martino situato su un’ansa del Rosandra a monte dell’attuale frazione di Mattonaia e identificabile con quello che diverrà poi il mulino comunale di Trieste.

I mugnai che lavoravano in questi mulini erano anche esperti nello scolpire la pietra per le ruote e nella costruzione di supporti in legno, mentre le loro mogli si occupavano del commercio della farina, trasportata a dorso d’asino in città e in luoghi più lontani.
Nei canali di alimentazione scavati nella roccia, chiamati struge si trovavano anche gamberi e anguille cucinati nel sugo e serviti con la polenta durante le feste d’agosto.

Il progresso tecnologico causò l’interruzione dell’attività di molti mulini che furono abbandonati o trasformati in laboratori per fabbri mentre le struge vennero via via sepolte dalla vegetazione senza lasciare testimonianze delle attività un tempo svolte.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale tutta la zona si trovò su un confine conteso e subì un depauperamento che si protrasse fino agli anni Trenta quando l’avvento delle Scuole di Roccia rianimarono tutta la vallata.

Note:
1. Le due fonti di Botazzo e quella dell’Antro delle Ninfe
2. Vedi articolo https://quitrieste.it/lacquedotto-romano-di-val-rosandra/

Fonti:

Enrico Halupca, “Le meraviglie del Carso“, LINT Editoriale, Trieste, 2004

L’acquedotto romano di Borgo San Sergio

Tra il 1976 e 1977 durante gli scavi per la costruzione di nuove palazzine residenziali nella periferia di Borgo San Sergio (nota 1) emerse un tratto dell’ acquedotto romano proveniente dall’antro di Bagnoli, uno dei tre che serviva la Tergeste costruita tra il I° e II° secolo d.C.

La conduttura si trova a mezza a mezza costa della piccola collina sul versante a est della Val Rosandra, a 3,2 chilometri in linea d’aria dalla fonte Oppia, sorgente situata sotto il monte Carso e che all’epoca romana costituiva la principale fonte d’acqua.
Il segmento, lungo 216 metri con una pendenza dell’1,1 per mille a una quota di 74 metri s.l.m., era dotato di cinque pozzi posti ad una distanza variabile da 30 a 36 metri.

Intervenuta la Soprintendenza, fu provveduto a conservare una parte degli storici reperti in un locale protetto dagli agenti atmosferici titolato Antiquarium (nota 2). Qui sono visibili un tratto del canale ed uno dei cinque pozzetti di ispezione sulla volta della conduttura, nonché il materiale archeologico rinvenuto negli scavi.

Sul terrazzamento posto tra le abitazioni della zona, è tuttavia sempre visibile il segmento originario della conduttura romana (allora interrata) che è stato racchiuso in un parallelepipedo dalla base in cemento e ricoperto da lastre trasparenti.
Anche qui si può notare il piedritto costituito da blocchi irregolari di arenaria con la volta a sesto acuto che chiudeva il canalone e la malta idraulica sul fondo per permettere lo scorrimento delle acque.

Dagli studi seguiti a questa interessante scoperta venne stabilito che la lunghezza dell’acquedotto romano dovesse avere una lunghezza di ben 17 chilometri e mezzo di pendenza costante prima di giungere al fontanone collocato in zona Cavana.

Dai terrazzamenti di via Donaggio è visibile la collina dove recentissimamente sono stati scoperti i resti di una Tergeste romana risalente addirittura nel 178 a.C. e quindi precedente a quella sorta tra il I° e II° secolo d.C. intorno al colle di San Giusto di cui sono invece rimaste moltissime documentazioni.

Dagli studi eseguiti con il georadar su questo colle sono state individuate le strutture sepolte del principale campo militare di San Rocco e i forti più piccoli di Grociana piccola e Montedoro, forse edificati durante uno dei conflitti con gli Istri. (nota 3)
Per 2.200 anni i preziosissimi resti sono rimasti protetti in quelle zone talmente vegetate e battute dalla bora da essere usate solo per pascoli e che non sono state soggette a edificazioni che avrebbero compromesso la loro lunghissima sopravvivenza.

Note:
1. In via Donaggio n. 17

2. Visitabile il sabato mattina su richiesta alla Soprintendenza

3. Il campo grande si estendeva su 13 ettari, quanto 13 campi da calcio ed era strategicamente situato nei pressi della baia di Muggia, un porto naturale protetto.

Fonti:
– A.Halupca – L.Veronese – E. Halupca “Trieste nascosta”, LINT Editoriale, 2015, Trieste;
– “Il Piccolo” articolo del 16/3/2015;
– Musei del Friuli Venezia Giulia
– Archeocartafvg

FEED Tergeste romana, Borgo San Sergio, Antiquarium, acquedotto romano

Santa Maria in Siaris

Questa piccola, modesta chiesetta che svetta su uno zoccolo di roccia a mezza costa del crinale della Val Rosandra ha una lunghissima vita.

I più antichi documenti che attestano la sua esistenza si trovano su documenti risalenti all’anno 1260 (o addirittura nel 1213) che riportavano la seguente prescrizione: “Se alcuno bestemmiasse Dio o Sancta Maria, overo altri Santi, o alcuna parola desonesta dicesse che fosse contra l’onor de Dio, per obedienza e disciplina andar debba a Sancta Maria in Siaris descalzo”.(nota 1)
L’iscrizione ufficiale venne scritta nell’anno 1367 nello statuto della Confraternita del S.S. Sacramento (detta anche Corpus Domini o dei “Battuti”) la cui chiesa si trovava all’esterno delle mura della Tergeste medievale, contrassegnata nella mappa sotto riportata con il numero 6: (nota 2)

Il nome Siaris potrebbe derivare dall’antico termine ladino masiarjs , ovvero una zona piena di pietre scelta per l’asprezza del suolo a un eremitaggio di espiazione. A noi piace invece pensare che fu collocata su quel costone per ricevere gli ultimi raggi del sole di maggio accendendosi come una piccola isola di luce.

L’iscrizione sull’architrave della porta centrale ricorda il restauro avvenuto nel 1647 con la dotazione di due altari laterali, oggi andati distrutti, seguito da altri lavori di ammodernamento solo nel 1954. (nota 3)
Nel 1979 questa romantica chiesetta fu danneggiata sia all’interno che all’esterno da atti vandalici ai quali porsero rimedio alcuni volontari nel 1982
Vorremmo concludere questo breve articolo con un passo del Vangelo di Luca riportato da Enrico Halupca e che ci piace molto:
Chi ascolta le mie parole sarà simile a un uomo che ha costruito la sua casa sulla roccia. E’ venuta la pioggia, sono straripati i fiumi, i venti hanno soffiato con violenza contro quella casa, ma essa non è crollata, perché le sue fondamenta erano sulla roccia

Note:
1. Un’altra meta dei pellegrinaggi di espiazione era la Chiesa di Santa Maria di Grignano, oggi non più esistente;
https://quitrieste.it/i-templari-a-grgnano/

2. La chiesa del Santissimo Sacramento ebbe un grande impulso con la terribile epidemia di peste del 1348;

3. Nel 1953 l’abside fu affrescata dall’artista Riccardo Bastianutto

Notizie da:

Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Edizioni Lint, 2004, Trieste;

Dante Cannarella, Il Carso della Provincia di Trieste, Edizioni I. Svevo, 1998, Trieste

Val Rosandra

Questa valle di confine ha una storia millenaria di cui ne conserva ancora le tracce: da quelle rinvenute nelle sue caverne a quelle narrate in antichissimi libri che scrivevano di spietati cavalieri al servizio di vescovi e patriarchi, di ricchi signorotti assetati di potere e in perenne lotta con briganti e predatori.
Sembra impossibile che a un passo della città ci si trovi in un paesaggio di soli 2 chilometri e mezzo dove storia, natura e leggenda si sono armoniosamente fuse creando un paesaggio di straordinaria bellezza.
E sembra ancora più incredibile che proprio qui l’uomo preistorico possa aver lasciato le impronte del suo passato nelle moltissime caverne suborizzontali aperte sul versante destro della Valle chiamate “Grotte delle Gallerie” (o anche “delle Finestre”) che per la loro conformazione e il buon tiraggio permettevano l’accensione di fuochi. Gli scavi archeologici condotti verso la fine dell’Ottocento testimoniarono che le presenze umane fossero state addirittura continuative, seppure come rifugi stagionali o luoghi di transito verso la costa e il mare.

La conformazione della vallata fu dovuta a una grande frattura avvenuta negli strati calcarei e la piegatura di un lembo dell’altopiano verso l’altopiano di Beka-Ocisla formando lo spettacolare Crinale dalle pareti a strapiombo. Con il tempo tutta la saccatura si riempì di marne e arenarie che vennero poi lentamente erose dallo scorrere delle acque piovane e dalle numerose sorgenti carsiche formando una serie guglie e piccole torri intervallate da estese sassaie.
Le colline di Moccò e monte San Michele che chiudono la valle presentano invece un aspetto del tutto diverso mantenendo una serie di declivi ricoperti di prati e boschetti di roverelle che si susseguono fino al piccolissimo borgo di Bottazzo.

Nel corso dei millenni fu il torrente Rosandra, nato da piccole sorgenti a monte della frazione di Klanez (presso Cozina) a scavare il profondo alveo della vallata. Un tempo le sue acque erano molto più abbondanti rispetto ai nostri giorni e la con la loro irruenza formarono piccoli cañons dalle pareti alte fino a 60 metri.
Nel tratto mediano del suo percorso il torrente Rosandra precipita per una trentina di metri in una grande vasca formando una pittoresca cascata, fotografatissima quando gela e appare come una stalattite di cristallo.

Dagli strati calcarei alla base del Crinale sgorga la Fonte Oppia, la sorgente più abbondante del Rosandra sfruttata fin dal I° secolo d.C. per alimentare uno degli acquedotti romani che fornivano l’antica Tergeste.
Ancora oggi, nei pressi del rifugio Premuda, esistono i resti dell’eccezionale opera di ingegneria idraulica che si estendeva per circa 12 chilometri e alimentandosi lungo il percorso con altre sorgenti, raggiungeva il centro cittadino.
Fin d’allora tutta la vallata assunse così il suo valore strategico, tra l’altro testimoniato da precedenti opere di fortificazioni molto più antiche, come i Castellieri dell’età del bronzo rinvenuti sui monti Carso e San Michele.
L’acquedotto durò fino alla sua distruzione per opera dell’arrivo dei barbari nei secoli VI e VII d.C. provocando il libero scorrimento delle acque del Rosandra nel suo alveo naturale.
Per sfruttare la nuova morfologia della valle furono così creati i mulini idraulici che permettendo la macinazione delle granaglie rappresentarono un grande aiuto per il sostentamento della popolazione.
Il corso del Rosandra era infatti uno dei rari fornitori d’acqua con una portata che consentisse il movimento delle pale molitorie e in un documento di compravendita risalente al 1276 (conservato nell’Archivio Diplomatico) risultò l’esistenza di già 3 mulini.
Nel 1757, nel tratto di torrente tra Bagnoli e il mare si potevano contare addirittura 16 mulini, sebbene la loro attività fosse ridotta sia durante le siccità dei mesi estivi che per le formazioni di ghiaccio nei mesi invernali.

Per le sue caratteristiche morfologiche l’ampia vallata fu un’importante via di comunicazione con la vicina zona delle saline di Zaule con i cui commerci dipendeva in larga misura l’economia dell’antica Tergeste.
In epoca medievale i traffici aumentarono notevolmente e per garantire il controllo della Strada dei Carsi che si snodava lungo il vasto distretto di Moccò, vennero così edificati i castelli-fortezza di Funfenberg, all’imbocco della valle sopra l’abitato di Bottazzo (detto anche di Draga) e quello “de Mucho”, all’uscita della valle sulle pendici di monte San Michele.
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Questa vallata sopportò così assedi di fuoco e sanguinose battaglie, la distruzione delle case e dei boschi, fu tormentata da pestilenze, carestie e terremoti fino a diventare del tutto disabitata.
Riprese vita solo nel 1887 con la costruzione della linea ferroviaria Trieste-Erpelle progettata per favorire i collegamenti con l’Istria. Divenuta facilmente raggiungibile si trasformò in una meta di escursioni e arrampicate e nel 1929 in una Scuola di Roccia dei CAI fondata nel 1929 da Emilio Comici.

La Val Rosandra dopo aver cambiato più volte i suoi molteplici ruoli nel corso dei secoli rappresenta oggi uno dei più suggestivi e affascinanti scenari naturalistici di tutto il Carso.

Il carsismo

L’altopiano carsico si estende fino all’estrema propaggine della zona di corrugamento nell’alta Istria ed è costituito da un anticlinale, una sorta di gobba che estende da sud-est a nord-ovest.
Dalle pendici del monte Nevoso, ultimo rilievo delle Alpi orientali che svetta a 1796 metri sopra il livello del mare e a soli 20 chilometri dal golfo del Quarnero, sgorgano decine di rigagnoli che confluiscono poi in un’unica vena acquifera. Raccogliendo alcuni affluenti, il fiume Reka (nome sloveno) scorre inizialmente per 55 km. su un pianoro tra i 420 e 450 metri sul livello del mare e con caratteristiche torrentizie per altri 4 km. lungo una profonda gola.
Giunto in un impressionante baratro sotto il paese di San Canziano (oggi Šcocjan) il fiume s’inabissa improvvisamente sotto un’imponente rupe e scompare nelle profondità della terra.
Dopo un misterioso percorso ipogeo di 30 km. (in linea d’aria) tra inghiottitoi, varchi, pozzi, gallerie e immense voragini, il Reka-Timavo riaffiorerà alle risorgive di San Giovanni di Duino, al margine occidentale del Carso e quasi a ridosso del mare Adriatico. (Nota 1)

Inizia così la doppia natura del carsismo, quello ipogeo (di profondità) e quello epigeo (di superficie) sulle cui origini si sono ipotizzate infinite teorie. Alcune chiamano in causa il vasto e antichissimo fiume Paleotimavo, che per la sua enorme quantità d’acqua avrebbe agito anche in profondità provocando tutta la gamma dei fenomeni carsici, altre ritengono che sarebbero le naturali fessurazioni calcaree a permettere che nel corso dei millenni le acque pluviali e quelle degli affluenti scavassero un’infinita serie di pozzi fusiformi a loro volta soggetti a fratture verticali e orizzontali causate dalle forti pressioni idrostatiche che hanno dato origine alla “erosione inversa”, cioè alla spinta verso l’alto di masse rocciose con la formazione di bocche sempre più larghe. Molte delle cavità sotterranee hanno infatti degli inghiottitoi a forma fusoide e gallerie quasi orizzontali, a volte anche doppie e di uguale inclinazione. Sono queste le cavità di interstrato, cioè aperte tra due stratificazioni create dalla lenta e continua erosione dell’acqua.

La doppia natura del Carso è dovuta alla diversità dei suoi componenti: le rocce calcaree, composte per la maggior parte da carbonato di calcio, quindi solubili e permeabili, e da quelle dolomitiche, formate dal carbonato di magnesio e altre impurità più o meno diffuse come gli ossidi di ferro e la silice che le rendono impermeabili.
Il calcare appartiene al grande gruppo delle rocce sedimentarie organogene, originate da un mare tiepido e poco profondo dove si sono accumulate sostanze organiche di microrganismi animali e vegetali che essendo prive di scorie e impurità insolubili, sono divenute estremamente fessurabili e dunque soggette a tutti i fenomeni sotterranei tipici del carsismo ipogeo.
La contaminazione e l’impermeabilità delle rocce dolomitiche formeranno invece il carsismo di superficie, detto epigeo, la cui caratteristica è la tipica terra rossa dovuta agli ossidi di ferro.
Le colline carsiche sono però vulnerabili anche alle particolari situazioni ambientali e la loro vegetazione è soggetta a tre componenti del clima: temperatura, umidità e vento.
Le nostre zone sono comprese nell’ampia fascia del clima temperato-marino che tuttavia presenta delle differenze abbastanza marcate. A Trieste il clima è di tipo mediterraneo mentre il Carso assume le caratteristiche continentali, quindi più fredde e umide, spesso addirittura alpine. Il dislivello geografico causa infatti una diversità di pressione tra il centro Europa e l’alto Adriatico e in particolari condizioni forma delle imponenti masse d’aria che dall’area danubiana si scaricano sulle zone di basse pressioni, si rafforzano nei pressi del valico di Postumia per precipitare poi verso il golfo di Trieste con le violente e fredde raffiche di bora.
Le doline carsiche invece, piccole alture alla rovescia, catturano l’aria fredda e assumono un clima subalpino, ed è stato calcolato che una profondità di 20 metri, peraltro frequente, corrisponde a 400 metri di altitudine, con un’umidità media dell’80%. Questa particolare caratteristica è favorevole allo sviluppo della vegetazione in quanto la loro forma a imbuto offre una buona protezione dalla bora.

NOTA 1:
Ai nostri giorni rimangono quindi due sole risorgive dopo il crollo della terza bocca durante gli scavi per le condutture idriche. L’occlusione di una parte del deflusso ha aumentato la pressione interna provocando un ulteriore cedimento della zona fino al limite della strada statale dominata dai Lupi di Toscana e l’apertura di un altro vortice sotto il livello del fiume.

Dante Cannarella, “Guida del Carso triestino”, Edizioni Svevo, Trieste, 1975

Michel

Tutto quello che sapevo di lui era il suo nome e l’età.
Soltanto una settimana prima l’associazione di volontariato di cui facevo parte mi aveva contattato per chiedermi la sostituzione di un’assistente presso un convitto di ragazzi senza famiglia. Dopo l’iniziale perplessità e la sensazione di essere forse l’unica persona disponibile, guardai oltre, già interessata, e molto, al caso in questione.

Non appena scesi dalla corriera, fui stupita dall’aria fresca che mi accolse. L’umida e opprimente calura di quel giorno d’agosto era rimasta giù in città, mentre sulla collina arrivava una piacevole brezza di mare il cui profumo si mescolava a quello dei cedri del Libano.
Il prato oltre le aiuole di bosso che affiancavano il breve sentiero era ricolmo di violette selvatiche mescolate alle spighe di gramigna.
Alzai lo sguardo verso la torretta del castelletto e notai che i muri erano stati recentemente ridipinti a calce. Il primo piano era occupato da una rinomata scuola privata, chiusa per le vacanze estive, dalle cui lucenti finestre trasparivano ricchi tendaggi azzurri mentre quelle del secondo piano apparivano opache e oscurate da tele blu.

Dopo un po’ di tempo dalla scampanellata, lo scatto automatico sbloccò il portone che si rinchiuse veloce alle mie spalle.
Mi ritrovai in un elegante atrio con il pavimento di ardesia e i muri trattati con una pittura a cera color avorio e decorati con fregi floreali in gesso. Sulla sinistra una soave Madonna illuminata dalle luci dorate del giorno tendeva le mani a due bambini intenti al gioco.
Per raggiungere il secondo piano, sede dell’Istituto, salii le scale di pietra a destra dell’ingresso trovandomi poi in un lunghissimo corridoio il cui pavimento di linoleum verde rifletteva come uno specchio deforme una fila di porte chiuse.

Dal fondo, davanti all’unica finestra che dava luce a quel posto triste e buio, apparve Michel.
Era un bel ragazzo, alto e piuttosto robusto, ma incurvito e come affossato nelle spalle un po’ cadenti. Mi venne incontro con passi lenti e uno sguardo tristissimo e io d’istinto gli presi la mano stringendola nelle mie.
Non aveva che dodici anni Michel ma la sottile peluria sopra le labbra annunciavano ormai prossima la pubertà. Sollevandogli il mento incontrai dei dolcissimi occhi nocciola incorniciati da folte ciglia scure.
– Dobbiamo andare dalla Direttrice – mi bisbigliò con un filo di voce – La stanza è laggiù.
La signora ci fece entrare indicando con il palmo della mano le due sedie di fronte a lei porgendomi un foglio dov’erano evidenziati i giorni e gli orari in cui avrei prestato il servizio sostitutivo comunicando a voce le materie da ripassare.
Il suo viso privo di espressione e la freddezza dei suoi occhi grigi fissi su di me mi provocarono un improvviso getto di sudore e mi chiesi con un senso di disagio se avesse notato le mie impronte sul piano della scrivania.
Senza pormi nessuna domanda né darmi modo di farne io, mi congedò e rimanendo seduta mi congedò allungando una mano fredda e ossuta stringendomi appena la punta delle dita.
Uscì con Michel con il cuore in tumulto, realizzando sgomenta che del ragazzo non sapevo che l’età e il suo nome.

Ci fu assegnata una stanza arredata spartanamente ma illuminata da due grandi finestre affacciate sul giardino che subito spalancai per farci entrare il sole e i profumi della terra. Disponevamo di un tavolo, 4 sedie, uno scaffale dove si trovavano i libri e i quaderni di scuola, un block quadrettato, una penna e 2 pennarelli.

Compresi ben presto che Michel non conosceva nulla di Trieste, né il suo mare o le colline del Carso e che non gradiva domande né aveva voglia di farle. Ma gli piaceva ascoltarmi dimostrandosi molto attento alle lezioni di tutte le materie dimostrandosi perfino bravo nell’aritmetica.
Il primo giorno uscì turbata. Come poteva nascondere una realtà così desolante quel bellissimo castelletto che spaziava tra terra e cielo? L’aria che vi si respirava sembrava risucchiare tutta la bellezza della natura e delle stagioni ma soprattutto l’allegria che così giovani vite avrebbero diritto di aspettarsi.
L’anima infelice di Michel era entrata nella mia mente e nei miei pensieri. Avrei voluto scuoterlo da quell’apatia penetrando nel suo piccolo mondo fatto di nulla. Avrei voluto portarlo via con me correndo tra i boschi del Carso e le vedette della Val Rosandra, tra le terrazze e i sentieri della Costiera, tra i palazzi del centro e le strade di cittavecchia. Lo avrei voluto immergere nella calda acqua di mare o spingerlo sotto docce freddissime, strizzarlo di paura sulla ruota di un Luna-park, sventolarlo sulla prua di una motonave, intontirlo con la musica dei Rasta Mens e saziarlo con enormi pizze e gelati alla panna.

Invece per tutto il mese di agosto dovevamo starcene chiusi in quella torrida stanza dell’Istituto ripassando le lezioni prescritte e guardando dalle finestre la vita che scorreva.

Passarono veloci quelle quattro settimane e giunse l’ultimo, triste giorno.
– Vola alto Michel! – gli dissi alzando la mano per batterla contro la sua come si fa tra giovani amici. Poi non seppi resistere e lo abbracciai forte annusando quel suo odore che sapeva di sabbia.
– Tornerai? – mi chiese e senza aspettare la risposta mi sfiorò il viso con un dolcissimo bacio.
Dal giardino mi volsi guardando la finestra del secondo piano e con gli occhi pieni di lacrime vidi Michel con il capo chino. Sapevamo tutti e due che non avremmo potuto rivederci mai più. Gabriella Amstici: Racconto ispirato a una storia vera

L’immagine è di ioarte.org.

Intermezzo: Due ragazzi, due storie

Le foto di Manuel

Il grande giorno era finalmente arrivato. Mentre Manuel regolava la direzione degli spot per dare la giusta luce ai poster, io controllavo il tavolo imbandito per il rinfresco nella Sala Esposizioni del Comune.
In attesa dell’apertura della mostra, la gente già guardava attraverso le vetrate le immagini di una Trieste fantastica, onirica, quasi stregata.
C’era molto del mio Manuel in tutto quel lavoro, ma solo io potevo saperlo. Per gli altri
sarebbe stato solo l’espressione di un talento tecnico come tanti altri, ma che importava, il mio Manuel avrebbe potuto adesso avere un futuro, una vita normale, forse perfino un lavoro.

Mi stavo staccando dai ricordi terribili della sua difficile infanzia, dalle angosce vissute per tanti, lunghissimi anni. Sentivo ormai lontano lo sfinimento di notti e notti insonni, fra i suoi pianti infiniti, le sue grida improvvise nei rari momenti di pace e quel suo stringermi così violento da togliermi il fiato. Con la punta delle dita gli accarezzavo i polsi e le sue esili braccia cercando di calmare quell’ansia che non gli dava tregua. Contavo i mille rintocchi della pendola riavviando il carillon che scandiva lento la solita nenia, trattenevo il respiro per rallentare i battiti del mio cuore lacerato, osservando poi sfinita il dolce viso del mio Manuel finalmente immerso nel sonno.

Dopo due anni di quella difficile vita mio marito si esasperò e m’impose di somministrargli i sedativi che gli erano stati prescritti dai medici.
Si calmò il mio povero bambino, dormiva e mangiava, ma il suo sguardo era spento.
Provai a diminuire le dosi e ad organizzarmi per gestire al meglio i tempi del mio riposo per riuscire ad affrontare i problemi con lucidità, ma a volte ero costretta a ricorrere anch’io a qualche pillola per dormire, alternando così un’apatica stanchezza ai tanti momenti d’angoscia.

Quando Manuel compì tre anni mio marito se ne andò, ed io non feci nulla per trattenerlo. Non era stato capace di sostenere quella situazione e io lo capivo: le responsabilità del lavoro, i problemi del figlio. la moglie stressata… Non potevo stimarlo come padre né amarlo come uomo, ma lo capivo. Superai presto quel momento di disperato smarrimento pensando che avrei gestito meglio le nostre vite senza la sua insofferente quanto inutile presenza.
Manuel accettò quello stacco e sembrò anzi felice di avermi tutta per sé. Ci stringevamo nel lettone facendoci reciprocamente coraggio in quel mare di solitudine dove stavamo affogando, ma nonostante tutto, giorno dopo giorno eravamo di nuovo pronti a lottare.
Gli psichiatri continuavano a proporre farmaci su farmaci, convinti di poter dominare il suo cervello mentre gli psicologi cercavano di carpirgli qualche pensiero segreto, qualche verità nascosta, ma Manuel sembrava aver preso gusto a fare il matto con tutti loro senza concedere nulla della sua anima.

Cresceva forte e sano il mio Manuel, ma isolato da tutti gli altri bambini.
Gli anni di scuola furono pesantissimi. Le maestre, convinte di eseguire pedissequamente il loro lavoro, mi parlavano di Manuel come fosse un estraneo anziché mio figlio. Non contavo più la quantità di bocconi amari che dovevo inghiottire quando ero costretta ad ascoltarle, chiedendomi cosa potessi fare per porre fine a quello strazio.

Finalmente un giorno arrivò Marianna, l’insegnante d’appoggio, una ragazza giovane, solare, di grande sensibilità e intelligenza che non solo ottenne in poco tempo risultati insperati ma rimase fissa per tutti i restanti anni delle elementari.
Grazie al suo aiuto alla fine della terza classe Manuel iniziò a leggere e scrivere speditamente. Attraverso di lei imparai anch’io i sistemi di comunicazione con il suo cervello e e mi affiancai a loro per tutta la durata delle elementari, giungendo così tutti al meritato diploma.

Alle scuole medie Manuel era abbastanza allineato con gli altri ragazzi, anche se continuava ad avere sempre bisogno di stimoli per raggiungere risultati appena sufficienti.
Diventò un bellissimo ragazzo, il mio Manuel. Avrebbe fatto volentieri dello sport con il suo fisico forte e pieno di energie, ma purtroppo era impossibile la convivenza con gli altri ragazzi che, avvertendolo diverso, lo schernivano e lo provocavano.
Comunque, grazie alle disponibilità economiche di suo padre, Manuel aveva potuto dedicarsi agli sport individuali e divenne abilissimo nel nuoto e nello sci, ma senza partecipare mai, per nostro comune accordo, a nessuna competizione collettiva.

La vera svolta nelle nostre vite avvenne senza che me ne rendessi conto.
Ottenuto con passabile profitto il diploma di scuola media, Manuel ricevette in regalo dal padre una macchina fotografica digitale completa di scanner, stampante e programmi di photo-shop. L’iniziale modesta qualità delle foto sul computer non lo scoraggiò affatto, anzi, iniziò a cercare prospettive diverse, luci particolari elaborando le immagini del reale secondo una sua singolare visione. Togliendo o aggiungendo particolari diversi, trasformava le fotografie come fossero delle storie.
Non riuscivo a capire come avesse potuto imparare da solo quelle tecniche così elaborate e per me complicatissime, ma per la prima volta lo vedevo impegnato in un’attività che sembrava renderlo felice.

Organizzammo così delle gite nei dintorni di Trieste. Nulla poteva fermarci, né le calure d’agosto, né le piogge autunnali o le folate di bora.
Partivamo di buon’ora, provvisti di panini e frutta di stagione. Ci siamo rincorsi per i sentieri del carso scivolando sui ghiaioni di Val Rosandra, abbiamo marciato sulla neve fresca e sul ghiaccio arrancando sulle ferrate del Lanaro, siamo stati spintonati da una capretta dispettosa e minacciati da feroci cani da guardia. Abbiamo sradicato un abete per farci l’albero di Natale e interi cespugli di timo per profumare la casa.

Ci siamo tuffati nel mare fresco della mattina, rosolati al sole fra le rocce, ubriacati d’aria sulla prua del Delfino Verde; abbiamo visto sorgere il sole dal monte Carso e assistito a stupendi tramonti dalle falesie di Duino.

Manuel inquadrava e scattava e poi per interi giorni si chiudeva nella sua stanza scomponendo e ricomponendo le foto in nuove immagini irreali, fantastiche, a volte crude e violente, a volte piene di poesia.
Su una spiaggia sotto il sentiero Rilke si scorgevano delle vecchie barche abbandonate con brandelli di vesti e sulle rocce a strapiombo dei scheletrici corpi umani tentavano l’impossibile scalata verso quel mondo che credevano migliore.
Nell’immagine di un prato era stata sovrapposta una discarica a cielo aperto contornata da cespugli le cui foglie erano gocce rosse di sangue. Il canalone di Val Rosandra era stato riempito da un vortice di foglie che avanzava verso l’obiettivo dando l’impressione di investirti. Un prato primaverile appariva coperto da un’infinità di bottiglie e i bianchi masegni di piazza Unità da una miriade di grandi macchie nere dei gewing-gum sputati.
Alcune immagini elaborate dal mio Manuel mi commossero alle lacrime: sulle onde schiumose nel golfo di Trieste centinaia di persone venivano spinte da tremende folate di bora verso quelle terre d’Istria abbandonate, più di sessant’anni fa, in senso opposto.
Altre invece mi sorpresero: da oscure nubi s’intravedeva un’enorme piovra con i lunghi tentacoli protesi sul nostro vecchio porto.

Dopo tutto quell’immane lavoro scegliemmo le foto più belle affidando a una ditta specializzata le loro stampe ingrandite. Il risultato fu talmente fantastico che decidemmo di farci coraggio ed esporlo al pubblico. La segreteria del Comune accettò subito con entusiasmo e ci mise a disposizione la sala di piazza Unità annunciando la mostra con un bell’articolo sul Piccolo di Trieste.

In tutti gli anni della sua vita, il mio Manuel aveva dunque compreso tutta la realtà che lo circondava rappresentandola con quella sua particolare capacità di comporre e scomporre le immagini. Quanto era stata per lui difficile la comunicazione cosiddetta “normale” tanto invece era stata semplice una diversa, espressa con la sua grande sensibilità.

Quando all’ora stabilita aprimmo le porte, la folla in attesa si riversò nella sala Esposizioni manifestando un autentico entusiasmo. Il mio Manuel era molto, molto emozionato, ma riusciva a sorridere senza più sentire l’ostile incomprensione del prossimo.
Aveva ormai diciott’anni e la sua vita adesso gli apparteneva. Il nostro difficile passato era alle nostre spalle ed io mi sentivo sfinita.
Quando avvertii che la commozione stava per travolgermi serrandomi la gola come una morsa, fui costretta ad uscire e a respirare a pieni polmoni. Una luce mi investì il volto. Guardai l’orizzonte e attraverso la visione offuscata delle mie lacrime vidi l’ultimo raggio verde del sole al tramonto. 

Gabriella Amstici (racconto non autobiografico ispirato a una storia vera)

Foto di Mario Amstici

Castrum Ospi

La grotta carsica di Ospo (Osapska Jama) si trova sotto il ciglione del monte Carso e si raggiunge percorrendo il ripido sentiero che dal ponte sulla strada principale del paese sale alla sinistra orografica dell’omonimo torrente.


Nell’ampia sala aperta sull’ingresso sono visibili i due tronconi di un’antica fortezza costruita nel corso del Millequattrocento per proteggere il territorio dalle distruzioni dei predoni islamici.
Secondo le cronache pervenute, il primo attacco risalirebbe al 1470 ma particolarmente cruento fu quello del 1499 guidato dall’albanese Scander.
Nella foto un disegno con la ricostruzione del Castrum Ospi come si presentava nel XV secolo:
La fortezza poteva ospitare una guarnigione fissa di soldati, cavalli e scorte di cibo mentre l’acqua era assicurata dal torrente che sgorgando dalle cavità interne della caverna defluiva dalla grande grata posta alla sinistra della muraglia.

Nel 1513 per colpa di un certo Barot Mocor de Gabroviza, il Castrum Ospi passò in mano dei Veneti che vi si stabilirono fino all’anno 1615 con la loro sconfitta nella battaglia di Zaule.
In seguito all’attenuarsi delle tensioni tra Veneti e Austriaci, la fortezza, così come tutti gli altri della zona carsica, perderà la sua funzione difensiva e verrà abbandonata nel corso del XVIII secolo. Lo spazio della  caverna assume diversi aspetti a seconda della stagione: nei periodi di piena, quando rio Ospo s’ingrossa notevolmente, si forma un lago dalle acque verdi e silenziose nonostante il gorgheggio delle numerose cascate che dalla parete rocciosa si riversano nello stretto canalone fino alla verde vallata di San Clemente, in passato sfruttata per alimentare alcuni mulini.

La caverna fu esplorata già nel 1883 dalla Società degli Alpinisti Triestini, ma solo dopo il 1929 la Società Alpina delle Giulie per mezzo di una piccola imbarcazione, scoprì ben 14 laghetti interni di cui il più grande si trovava a più di un chilometro dall’ingresso.
Dopo il 1980 gli sloveni effettuarono ulteriori esplorazioni inoltrandosi per 1600 metri di ramificazioni sotterranee.

Gli studi successivi hanno portato a nuovi tracciati del corso del torrente asserendo che le acque dell’Ospo, oltre a provenire dagli inghiottitoi dei monti Brkini, si mescolano con quelle del fiume Pivka (Piuca) che nascendo ai piedi del monte Gradisce scorre nelle grotte di Postumia per ricomparire nei pressi di Planina.

Fonte: Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Ed. LINT, Trieste, 1998-2004

Le foto sono di Halupca (di cui sono grande fan) e rimovibili in caso di violazione dei diritti