Archivio mensile:novembre 2014

Michel

Tutto quello che sapevo di lui era il suo nome e l’età.
Soltanto una settimana prima l’associazione di volontariato di cui facevo parte mi aveva contattato per chiedermi la sostituzione di un’assistente presso un convitto di ragazzi senza famiglia. Dopo l’iniziale perplessità e la sensazione di essere forse l’unica persona disponibile, guardai oltre, già interessata, e molto, al caso in questione.

Non appena scesi dalla corriera, fui stupita dall’aria fresca che mi accolse. L’umida e opprimente calura di quel giorno d’agosto era rimasta giù in città, mentre sulla collina arrivava una piacevole brezza di mare il cui profumo si mescolava a quello dei cedri del Libano.
Il prato oltre le aiuole di bosso che affiancavano il breve sentiero era ricolmo di violette selvatiche mescolate alle spighe di gramigna.
Alzai lo sguardo verso la torretta del castelletto e notai che i muri erano stati recentemente ridipinti a calce. Il primo piano era occupato da una rinomata scuola privata, chiusa per le vacanze estive, dalle cui lucenti finestre trasparivano ricchi tendaggi azzurri mentre quelle del secondo piano apparivano opache e oscurate da tele blu.

Dopo un po’ di tempo dalla scampanellata, lo scatto automatico sbloccò il portone che si rinchiuse veloce alle mie spalle.
Mi ritrovai in un elegante atrio con il pavimento di ardesia e i muri trattati con una pittura a cera color avorio e decorati con fregi floreali in gesso. Sulla sinistra una soave Madonna illuminata dalle luci dorate del giorno tendeva le mani a due bambini intenti al gioco.
Per raggiungere il secondo piano, sede dell’Istituto, salii le scale di pietra a destra dell’ingresso trovandomi poi in un lunghissimo corridoio il cui pavimento di linoleum verde rifletteva come uno specchio deforme una fila di porte chiuse.

Dal fondo, davanti all’unica finestra che dava luce a quel posto triste e buio, apparve Michel.
Era un bel ragazzo, alto e piuttosto robusto, ma incurvito e come affossato nelle spalle un po’ cadenti. Mi venne incontro con passi lenti e uno sguardo tristissimo e io d’istinto gli presi la mano stringendola nelle mie.
Non aveva che dodici anni Michel ma la sottile peluria sopra le labbra annunciavano ormai prossima la pubertà. Sollevandogli il mento incontrai dei dolcissimi occhi nocciola incorniciati da folte ciglia scure.
– Dobbiamo andare dalla Direttrice – mi bisbigliò con un filo di voce – La stanza è laggiù.
La signora ci fece entrare indicando con il palmo della mano le due sedie di fronte a lei porgendomi un foglio dov’erano evidenziati i giorni e gli orari in cui avrei prestato il servizio sostitutivo comunicando a voce le materie da ripassare.
Il suo viso privo di espressione e la freddezza dei suoi occhi grigi fissi su di me mi provocarono un improvviso getto di sudore e mi chiesi con un senso di disagio se avesse notato le mie impronte sul piano della scrivania.
Senza pormi nessuna domanda né darmi modo di farne io, mi congedò e rimanendo seduta mi congedò allungando una mano fredda e ossuta stringendomi appena la punta delle dita.
Uscì con Michel con il cuore in tumulto, realizzando sgomenta che del ragazzo non sapevo che l’età e il suo nome.

Ci fu assegnata una stanza arredata spartanamente ma illuminata da due grandi finestre affacciate sul giardino che subito spalancai per farci entrare il sole e i profumi della terra. Disponevamo di un tavolo, 4 sedie, uno scaffale dove si trovavano i libri e i quaderni di scuola, un block quadrettato, una penna e 2 pennarelli.

Compresi ben presto che Michel non conosceva nulla di Trieste, né il suo mare o le colline del Carso e che non gradiva domande né aveva voglia di farle. Ma gli piaceva ascoltarmi dimostrandosi molto attento alle lezioni di tutte le materie dimostrandosi perfino bravo nell’aritmetica.
Il primo giorno uscì turbata. Come poteva nascondere una realtà così desolante quel bellissimo castelletto che spaziava tra terra e cielo? L’aria che vi si respirava sembrava risucchiare tutta la bellezza della natura e delle stagioni ma soprattutto l’allegria che così giovani vite avrebbero diritto di aspettarsi.
L’anima infelice di Michel era entrata nella mia mente e nei miei pensieri. Avrei voluto scuoterlo da quell’apatia penetrando nel suo piccolo mondo fatto di nulla. Avrei voluto portarlo via con me correndo tra i boschi del Carso e le vedette della Val Rosandra, tra le terrazze e i sentieri della Costiera, tra i palazzi del centro e le strade di cittavecchia. Lo avrei voluto immergere nella calda acqua di mare o spingerlo sotto docce freddissime, strizzarlo di paura sulla ruota di un Luna-park, sventolarlo sulla prua di una motonave, intontirlo con la musica dei Rasta Mens e saziarlo con enormi pizze e gelati alla panna.

Invece per tutto il mese di agosto dovevamo starcene chiusi in quella torrida stanza dell’Istituto ripassando le lezioni prescritte e guardando dalle finestre la vita che scorreva.

Passarono veloci quelle quattro settimane e giunse l’ultimo, triste giorno.
– Vola alto Michel! – gli dissi alzando la mano per batterla contro la sua come si fa tra giovani amici. Poi non seppi resistere e lo abbracciai forte annusando quel suo odore che sapeva di sabbia.
– Tornerai? – mi chiese e senza aspettare la risposta mi sfiorò il viso con un dolcissimo bacio.
Dal giardino mi volsi guardando la finestra del secondo piano e con gli occhi pieni di lacrime vidi Michel con il capo chino. Sapevamo tutti e due che non avremmo potuto rivederci mai più. Gabriella Amstici: Racconto ispirato a una storia vera

L’immagine è di ioarte.org.

Intermezzo: Due ragazzi, due storie

Le foto di Manuel

Il grande giorno era finalmente arrivato. Mentre Manuel regolava la direzione degli spot per dare la giusta luce ai poster, io controllavo il tavolo imbandito per il rinfresco nella Sala Esposizioni del Comune.
In attesa dell’apertura della mostra, la gente già guardava attraverso le vetrate le immagini di una Trieste fantastica, onirica, quasi stregata.
C’era molto del mio Manuel in tutto quel lavoro, ma solo io potevo saperlo. Per gli altri
sarebbe stato solo l’espressione di un talento tecnico come tanti altri, ma che importava, il mio Manuel avrebbe potuto adesso avere un futuro, una vita normale, forse perfino un lavoro.

Mi stavo staccando dai ricordi terribili della sua difficile infanzia, dalle angosce vissute per tanti, lunghissimi anni. Sentivo ormai lontano lo sfinimento di notti e notti insonni, fra i suoi pianti infiniti, le sue grida improvvise nei rari momenti di pace e quel suo stringermi così violento da togliermi il fiato. Con la punta delle dita gli accarezzavo i polsi e le sue esili braccia cercando di calmare quell’ansia che non gli dava tregua. Contavo i mille rintocchi della pendola riavviando il carillon che scandiva lento la solita nenia, trattenevo il respiro per rallentare i battiti del mio cuore lacerato, osservando poi sfinita il dolce viso del mio Manuel finalmente immerso nel sonno.

Dopo due anni di quella difficile vita mio marito si esasperò e m’impose di somministrargli i sedativi che gli erano stati prescritti dai medici.
Si calmò il mio povero bambino, dormiva e mangiava, ma il suo sguardo era spento.
Provai a diminuire le dosi e ad organizzarmi per gestire al meglio i tempi del mio riposo per riuscire ad affrontare i problemi con lucidità, ma a volte ero costretta a ricorrere anch’io a qualche pillola per dormire, alternando così un’apatica stanchezza ai tanti momenti d’angoscia.

Quando Manuel compì tre anni mio marito se ne andò, ed io non feci nulla per trattenerlo. Non era stato capace di sostenere quella situazione e io lo capivo: le responsabilità del lavoro, i problemi del figlio. la moglie stressata… Non potevo stimarlo come padre né amarlo come uomo, ma lo capivo. Superai presto quel momento di disperato smarrimento pensando che avrei gestito meglio le nostre vite senza la sua insofferente quanto inutile presenza.
Manuel accettò quello stacco e sembrò anzi felice di avermi tutta per sé. Ci stringevamo nel lettone facendoci reciprocamente coraggio in quel mare di solitudine dove stavamo affogando, ma nonostante tutto, giorno dopo giorno eravamo di nuovo pronti a lottare.
Gli psichiatri continuavano a proporre farmaci su farmaci, convinti di poter dominare il suo cervello mentre gli psicologi cercavano di carpirgli qualche pensiero segreto, qualche verità nascosta, ma Manuel sembrava aver preso gusto a fare il matto con tutti loro senza concedere nulla della sua anima.

Cresceva forte e sano il mio Manuel, ma isolato da tutti gli altri bambini.
Gli anni di scuola furono pesantissimi. Le maestre, convinte di eseguire pedissequamente il loro lavoro, mi parlavano di Manuel come fosse un estraneo anziché mio figlio. Non contavo più la quantità di bocconi amari che dovevo inghiottire quando ero costretta ad ascoltarle, chiedendomi cosa potessi fare per porre fine a quello strazio.

Finalmente un giorno arrivò Marianna, l’insegnante d’appoggio, una ragazza giovane, solare, di grande sensibilità e intelligenza che non solo ottenne in poco tempo risultati insperati ma rimase fissa per tutti i restanti anni delle elementari.
Grazie al suo aiuto alla fine della terza classe Manuel iniziò a leggere e scrivere speditamente. Attraverso di lei imparai anch’io i sistemi di comunicazione con il suo cervello e e mi affiancai a loro per tutta la durata delle elementari, giungendo così tutti al meritato diploma.

Alle scuole medie Manuel era abbastanza allineato con gli altri ragazzi, anche se continuava ad avere sempre bisogno di stimoli per raggiungere risultati appena sufficienti.
Diventò un bellissimo ragazzo, il mio Manuel. Avrebbe fatto volentieri dello sport con il suo fisico forte e pieno di energie, ma purtroppo era impossibile la convivenza con gli altri ragazzi che, avvertendolo diverso, lo schernivano e lo provocavano.
Comunque, grazie alle disponibilità economiche di suo padre, Manuel aveva potuto dedicarsi agli sport individuali e divenne abilissimo nel nuoto e nello sci, ma senza partecipare mai, per nostro comune accordo, a nessuna competizione collettiva.

La vera svolta nelle nostre vite avvenne senza che me ne rendessi conto.
Ottenuto con passabile profitto il diploma di scuola media, Manuel ricevette in regalo dal padre una macchina fotografica digitale completa di scanner, stampante e programmi di photo-shop. L’iniziale modesta qualità delle foto sul computer non lo scoraggiò affatto, anzi, iniziò a cercare prospettive diverse, luci particolari elaborando le immagini del reale secondo una sua singolare visione. Togliendo o aggiungendo particolari diversi, trasformava le fotografie come fossero delle storie.
Non riuscivo a capire come avesse potuto imparare da solo quelle tecniche così elaborate e per me complicatissime, ma per la prima volta lo vedevo impegnato in un’attività che sembrava renderlo felice.

Organizzammo così delle gite nei dintorni di Trieste. Nulla poteva fermarci, né le calure d’agosto, né le piogge autunnali o le folate di bora.
Partivamo di buon’ora, provvisti di panini e frutta di stagione. Ci siamo rincorsi per i sentieri del carso scivolando sui ghiaioni di Val Rosandra, abbiamo marciato sulla neve fresca e sul ghiaccio arrancando sulle ferrate del Lanaro, siamo stati spintonati da una capretta dispettosa e minacciati da feroci cani da guardia. Abbiamo sradicato un abete per farci l’albero di Natale e interi cespugli di timo per profumare la casa.

Ci siamo tuffati nel mare fresco della mattina, rosolati al sole fra le rocce, ubriacati d’aria sulla prua del Delfino Verde; abbiamo visto sorgere il sole dal monte Carso e assistito a stupendi tramonti dalle falesie di Duino.

Manuel inquadrava e scattava e poi per interi giorni si chiudeva nella sua stanza scomponendo e ricomponendo le foto in nuove immagini irreali, fantastiche, a volte crude e violente, a volte piene di poesia.
Su una spiaggia sotto il sentiero Rilke si scorgevano delle vecchie barche abbandonate con brandelli di vesti e sulle rocce a strapiombo dei scheletrici corpi umani tentavano l’impossibile scalata verso quel mondo che credevano migliore.
Nell’immagine di un prato era stata sovrapposta una discarica a cielo aperto contornata da cespugli le cui foglie erano gocce rosse di sangue. Il canalone di Val Rosandra era stato riempito da un vortice di foglie che avanzava verso l’obiettivo dando l’impressione di investirti. Un prato primaverile appariva coperto da un’infinità di bottiglie e i bianchi masegni di piazza Unità da una miriade di grandi macchie nere dei gewing-gum sputati.
Alcune immagini elaborate dal mio Manuel mi commossero alle lacrime: sulle onde schiumose nel golfo di Trieste centinaia di persone venivano spinte da tremende folate di bora verso quelle terre d’Istria abbandonate, più di sessant’anni fa, in senso opposto.
Altre invece mi sorpresero: da oscure nubi s’intravedeva un’enorme piovra con i lunghi tentacoli protesi sul nostro vecchio porto.

Dopo tutto quell’immane lavoro scegliemmo le foto più belle affidando a una ditta specializzata le loro stampe ingrandite. Il risultato fu talmente fantastico che decidemmo di farci coraggio ed esporlo al pubblico. La segreteria del Comune accettò subito con entusiasmo e ci mise a disposizione la sala di piazza Unità annunciando la mostra con un bell’articolo sul Piccolo di Trieste.

In tutti gli anni della sua vita, il mio Manuel aveva dunque compreso tutta la realtà che lo circondava rappresentandola con quella sua particolare capacità di comporre e scomporre le immagini. Quanto era stata per lui difficile la comunicazione cosiddetta “normale” tanto invece era stata semplice una diversa, espressa con la sua grande sensibilità.

Quando all’ora stabilita aprimmo le porte, la folla in attesa si riversò nella sala Esposizioni manifestando un autentico entusiasmo. Il mio Manuel era molto, molto emozionato, ma riusciva a sorridere senza più sentire l’ostile incomprensione del prossimo.
Aveva ormai diciott’anni e la sua vita adesso gli apparteneva. Il nostro difficile passato era alle nostre spalle ed io mi sentivo sfinita.
Quando avvertii che la commozione stava per travolgermi serrandomi la gola come una morsa, fui costretta ad uscire e a respirare a pieni polmoni. Una luce mi investì il volto. Guardai l’orizzonte e attraverso la visione offuscata delle mie lacrime vidi l’ultimo raggio verde del sole al tramonto. 

Gabriella Amstici (racconto non autobiografico ispirato a una storia vera)

Foto di Mario Amstici