Archivio mensile:giugno 2014

Villa Gossleth – Economo

In largo Promontorio, alla convergenza di viale Terza Armata con la via Franca, accanto a una serie di palazzine condominiali si trova questa imponente struttura dall’aspetto vagamente neo classico.L’edificio, un tempo circondato da uno splendido giardino, venne costruito nel 1817 per volere dell’inglese George Hepburn, commerciante di foglie di tabacco e di mercurio d’Idria. Secondo alcune cronache cittadine, sembra fosse stata la prima residenza di Trieste dotata di WC con la tazza a sifone e serbatoio d’acqua.
Dopo il 1838 fu acquistata dal ricco industriale ungherese Francesco Gossleth, titolare di una prestigiosa falegnameria dove vennero creati una lunga serie di mobili destinati alle più belle dimore dell’epoca. (nota 1)
Per ingrandire la villa il Gossleth affidò l’incarico all’architetto udinese Valentino Presani, direttore del Dipartimento Tecnico di Trieste che aggiunse un avancorpo centrale con 4 colonne corinzie reggenti un grande timpano dalla cornice dentellata e un balcone in pietra con parapetto a balaustra.
Sul portale ad arco dell’ingresso fu collocata una bella inferriata in ferro battuto decorata da motivi geometrici e floreali e sulla facciata vennero murati una serie di pannelli a rilievo con decorazioni a festoni e immagini mitologiche.
Si ricorda che nel 1850 il Gossleth fondò assieme al barone Pasquale Revoltella la “Scuola domenicale di disegno per artigiani”, diretta dall’abile scultore-intagliatore Giovanni Moscotto.Il palazzo passò poi in eredità alla figlia Emma, coniugata in de Seppi e in seguito acquistato dal barone Leo Economo, proprietario con Edmondo de Richetti degli “Oleifici triestini” (poi passati alla “Gaslini”) da cui derivò l’attuale nome della villa.

Nel luglio del 1883 la Villa Economo fu affittata a sir Richard Francis Burton, l’esploratore-antropologo e console inglese che qui visse, con la devota consorte Isabel Arundell, dedicandosi alla traduzione del libro Le Mille e una notte, iniziato vent’anni prima, del mitico Kama Sutra, L’Arte indù dell’amore e lo scandaloso manuale di erotologia araba Il Giardino Profumato. Gli ultimi anni della sua esistenza saranno però amareggiati da una serie di contestazioni in merito ai suoi libri e dai problemi di una salute pesantemente compromessa.
Due settimane dopo la sua morte, avvenuta all’alba del 20 ottobre 1890, Isabel accenderà nel giardino della villa un grande falò dove getterà alcuni preziosi e inediti scritti del discusso consorte.

Tra gli anni Sessanta e Settanta l’immobile è stato interessato da ampliamenti e rifacimenti, risparmiando solamente l’avancorpo centrale e l’atrio d’ingresso mentre il vasto parco verrà lotizzato in una serie di condominii.

(nota 1): Esistono documentazioni certe sull’attività di Francesco Gossleth che fornì anche diversi arredi per il castello di Miramare e per il palazzo Revoltella

Fonte: Atlante Beni culturali; Museo Revoltella

San Giuseppe della Chiusa

Per raggiungere San Giuseppe della Chiusa, o Ricmanje, ci sono tre strade: dalla deviazione della provinciale di Basovizza in discesa verso i paesi di San Lorenzo e Sant’Antonio in Bosco; dalla strada della Rosandra verso Domio e Log; girando a destra dopo la biforcazione della chiusa di Cattinara con la salita verso Basovizza.
Quest’ultima strada fu aperta all’inizio dell’Ottocento e per segnare il limite del Comune di Trieste con le borgate periferiche fu eretta una colonna con un capitello votivo raffigurante la fuga in Egitto di Giuseppe e Maria. Dopo il 2005 la stele è stata affidata all’Orto Lapidario di San Giusto.

San Giuseppe fu un importante feudo vescovile sia per il numero che per l’agiatezza degli abitanti e visse varie vicende storiche legate alle contese per i transiti dal soprastante pasum Longere lungo l’antica strada dei Carsi.

Un tempo aveva una piccola chiesa, dedicata a S. Giorgio Martire, conosciuta almeno dal 1645, data della sua consacrazione. Ma nel 1749 davanti l’altare del Santo si verificò un fatto prodigioso che provocò grande scalpore.
Sbirciando dalla finestra della chiesa un abitante del posto sostenne di aver veduto ardere la lampada votiva, solitamente spenta in quanto sempre priva di olio. Sparsa la voce iniziarono ad accorrere valligiani, pellegrini finché i cancellieri vescovili decisero di controllare sigillando porte e finestre. Ma la lampada continuò ad ardere. (nota 1)
Riportata la notizia alla Santa Sede, il papa Innocenzo XII si affrettò ad attestare il prodigioso evento vergando il “libro d’onore” con l’istituzione ufficiale della congregazione il cui primo iscritto fu il primogenito di Maria Teresa d’Austria, il futuro Giuseppe II.
La stessa Imperatrice donò alla Chiesa, rinominata nel 1750 Santuario di San Giuseppe, una serie di magnifici paramenti oggi conservati nel vicino Museo Etnografico.
In conseguenza del grande flusso di pellegrini la chiesa fu ingrandita e ricostruita nelle forme attuali con l’aggiunta del doppio campanile. Consacrata nel 1771 dal vescovo Antonio Herberstein, eretta a cappellania nel 1778 divenne parrocchia nel 1905.

L’interno della chiesa settecentesca ha uno stile di tardo barocco settecentesco, piuttosto raro da queste parti e non privo di una certa suggestione. L’altare ha mantenuto le sculture originali, opera di artigiani locali e il grande affresco del soffitto risalente al 1770 e sorprendente dipinto dal napoletano certo Pasquale Perriello raffigurante la morte e l’ascesa al cielo del santo patrono. (2)

Molto bello l’organo a 200 canne risalente al 1750 e una particolarissima croce all’ingresso che ricorda un “ora et labora“.Sulla parete sinistra della navata svetta un sorprendente altare in puro stile Impero: in candido marmo di Carrara con decorazioni dorate, due statue neoclassiche ai lati, una teca in vetro con il Cristo morto e un Cristo risorto sopra.

Negli anni Novanta questo singolare altare è stato restaurato da Boris Zulian, un conosciuto artista di Ricmanije, recentemente scomparso.

Nei primi anni del Novecento la chiesa di San Giuseppe ebbe uno scisma voluto da una parte della comunità slovena e che con alterne vicende tra Vaticano e Impero Austro-ungarico durò dieci anni per poi risolversi grazie a un combattivo vescovo viennese.
Con il recente arrivo di un nuovo parroco, attualmente la Chiesa è aperta per le funzioni giornaliere.

Nel piccolo Museo Etnografico di fronte alla chiesa, si trovano diversi utensili della vita contadina come una vecchia culla in legno per la lievitazione del pane, torchi per il vino e la ricostruzione di una cucina tradizionale. Per la visita è però necessario rivolgersi al Parroco.

Note:
(1) Non è dato sapere se il fenomeno si sia poi ripetuto

(2) Il recente restauro dell’affresco è stato effettuato dalla professoressa Anna Maria Scatola

Fonti:
Carlo Chersi, Itinerari del Carso Triestino, Stab. Tipografico Naz.le, Trieste, 1963;
Borghi e Paesi del FVG, Carsa Edizioni, Pescara, 2009

 

Il distretto di Moccò

Inoltrandosi per la vecchia strada provinciale e superata la Foiba di Basovizza. si raggiunge il piazzale dove si trova la piccola chiesa di San Lorenzo che pur risalendo alla metà del Quattrocento conserva intatte le sue antiche mura di pietra carsica e l’originario campanile a vela.
Superato il fantastico belvedere a 377 metri s.l.m. e le ultime case del borgo che si snodano sull’estremo margine della Val Rosandra, ci sono i due rami dell’antica strada carsica: a nord si scende verso Bagnoli e a sud verso le frazioni del paese di Sant’Antonio in bosco o Boršt, dall’antico nome tedesco di Forst (selva).
Sulla sinistra si apre una spianata il cui breve sentiero porta su un costone a strapiombo con una vedetta con il più spettacolare panorama di tutta la vallata.
Da qui si spazia a nord tra le bianche sassaie del cañon, le acque del Rosandra, i boschi dello Stena e a sud tra le ultime borgate di Trieste, il mare e le verdi colline dell’Istria.
E ci si sente come sospesi: saranno i soffi d’aria fresca, gli odori della terra inaridita dal sole, il profumo del timo e dei ginepri. O sarà forse la percezione delle molte anime di questo Carso così selvaggio, tormentato, conteso.
Su queste terre sono passati pellegrini verso paesi lontani, carovane di mercanti e brigate di predatori, spietati cavalieri al servizio di vescovi e patriarchi, ricchi signorotti assetati di potere e castellani troppo pavidi per difendere i propri territori.
Questa vallata ha sopportato assedi di fuoco e sanguinose battaglie, ha dovuto assistere alla distruzione di case, boschi e campi, è stata tormentata da pestilenze, carestie e terremoti eppure è ancora qui, tra questi monti sferzati dai venti o riscaldati dal sole.
Osservando le brulle pendici del monte Carso e laggiù le foreste di Ocisla vengono in mente le indimenticabili pagine di Slataper che lì visse la sua più intensa e solitaria estate.Alzando lo sguardo verso nord-est si scorge il promontorio dove un tempo lontano sorgeva un torvo castello a difesa di tutta questa splendida valle.
Così ci è venuta la voglia di ripercorrere la sua lunga storia.

Il castello di Muchou
Sebbene la prima notizia certa della sua esistenza risalga al 1233, da un documento pubblico del 1166 risulterebbe che il patriarca di Aquileia avesse acquisito il possesso di una struttura fortificata consegnandola ai fratelli Noppo ed Enrico “de Muchon”, vassalli ministeriali di Wernado, vescovo di Trieste e Capodistria.
L’origine del toponimo potrebbe quindi derivare dal nome di questi fratelli delegati alla custodia del castello e dei villaggi d’intorno: a valle quello piuttosto esteso di Sant’Odorico (nota 1) e verso sud gli abitati di Log (nota 2) anticamente chiamato Gas o Gias (nota 3), di Boršt (Sant’Antonio in Bosco) (nota 4) e della silva Cereti in seguito scomparsa. (nota 5).
Si riporta qui un particolare del documento del 1233 con la prima citazione del castello “in castro de Muchou”.
La valle compresa nel bacino idrografico del torrente Rosandra e conosciuta come de Zaullis sub Bagnolo, era allora percorsa dal pasum Longere, l’importante via di comunicazione che scendendo dal Carso si dirigeva verso Capodistria.
In seguito alle mire espansionistiche del Comune istriano e alle sue azioni armate, il castro de Muchou venne seriamente danneggiato e ricostruito a spese del patriarca di Aquileia.
Dopo essere affidato in custodia al Comune di Trieste nel 1281, iniziò una serie di contenziosi con il vescovado cittadino che vantava il controllo sulle contrade sottostanti nonostante mancassero le linee confinarie. La causa delle diatribe verteva essenzialmente sugli interessi economici legati al passaggio dei mercanti con le provvigioni di grano, farina, olio, vino e soprattutto sale, forniture che peraltro interessavano anche Capodistria e quindi il patriarcato di Venezia.
Nel 1338, dopo vari arbitrati fu stabilito che la contrada di Zaule appartenesse al distretto di Trieste mentre l’interno della valle al feudo vescovile.
Vent’anni dopo però il Comune decise di chiudere l’importante via di comunicazione con l’Istria provocando la reazione dei veneziani che tra il 1368 e 1369 assediarono la città.
Dopo un’estrema difesa il castello di Muchou, oggetto di una trattativa con il doge in persona, fu di fatto venduto e occupato da una guarnigione veneta fino all’atto di dedizione di Trieste all’Austria del 1382 quando si avvicendarono i capitani dell’Impero.
In seguito a ulteriori battaglie con Venezia e alle trattative di pace del 1463, il castello venne nuovamente annesso al dominio dei veneziani fino alla resa nel 1508 e il ritorno dei delegati imperiali.

Ma su quella strategica fortezza continuarono le ostilità perpetuate da guarnigioni venete con sfibranti assedi, razzie sulle coltivazioni agricole e vinicole, danneggiamenti alle vicine saline e blocchi delle vie di transito penalizzando sempre di più la non florida economia di Trieste.

Un’epidemia di peste esplosa nel corso del 1510 e le violente scosse di terremoto del 1511 indebolirono ulteriormente tutto il distretto di Mocho, segnando il suo destino.
L’esercito imperiale costituito da boemi e croati guidati da Cristoforo Frangipani raggiunse la valle di Zaule con l’intento di espugnare i baluardi a difesa del confine veneto. Asserragliato dentro le mura della fortezza l’ultimo castellano Girolamo Contarini, incapace di resistere all’assedio di un contingente dotato di bombarde a distanza, riuscì a fuggire a Trieste grazie al capitano Nicolò Rauber.
Dopo l’11 ottobre 1511 fu compiuta la totale distruzione del castello e delle altre strutture fortificate sparse sul ciglione carsico.
Considerando le proprietà e i diritti vantati dal Vescovado in quella particolare zona non sorprenderebbe la volontà del potente Pietro Bonomo di consiliare l’eliminazione dello strategico fortilizio – ufficialmente per evitare le continue incursioni venete – come non sembrerebbe del tutto disinteressata la compartecipazione di Rauber che per i servizi resi all’Impero ottenne la custodia del castello di San Servolo. (nota 6)
Comunque da allora i transiti commerciali vennero convogliati sui confini dello stato veneto anziché dirottati sulla direttiva di Longera, controllata da Trieste, e solo dopo il 1690 la stazione doganale, rinominata Fünfemberg (nota 7) venne riportata nel distretto di Moccò.
Questo insolito toponimo fu ancora riportato sulle carte del 1700, sulle prime piante catastali del 1800 e sulle Cronache di Ireneo della Croce.

Successivamente sull’area della dogana venne costruito un grande edificio rettangolare nominato “castello nuovo” inizialmente adibito a scopi amministrativi, in seguito acquistato dai conti Petazzi per poi essere trasformato verso la fine dell’Ottocento in un albergo-trattoria.
Divenuto abitazione privata nel 1945 fu completamente distrutto da un incendio e oggi non ne restano neppure le fondamenta.

Dell’antico castello di Mouchou rimangono oggi solo dei piccoli tratti di mura sul lato nord-ovest, ma essendo ricoperti dalla vegetazione, sono visibili solo in inverno.
La sua più antica raffigurazione è una litografia del 1698 riportato sulla Historia Antica e Moderna di Ireneo della Croce dove appare la lunga muratura della facciata, la torre quadrata e la porta d’ingresso sul lato a valle.

Sulla base di questo schizzo Pietro Kandler tracciò poi un disegno inserendolo nella sua copia personale della Storia del Consiglio dei Patrizi di Trieste.
Questa immagine fu ripresa a sua volta da Alberto Rieger che nel 1863 realizzò la nota incisione e per quanto fosse alquanto fantastica, anche per l’improbabile circondario alpestre, venne inserita nella Storia cronografica di Trieste di Scussa e ritenuta ancora oggi plausibile.
L’ultima rappresentazione con i resti del castello è stata dipinta in un acquerello di Antonio Tribel nel 1883 dove si notano la struttura quadrata, la doppia muratura e la scalinata sul lato a valle con il ponte levatoio.
Nella zona gli abitanti del posto hanno trovato diversi materiali ferrosi, punte di freccia e di balestra, ferri di cavallo e frammenti di ceramiche databili al XVI secolo.
Secondo l’interessante saggio di Fulvio Colombo ancora oggi sui pendii sotto il costone sarebbero visibili dei conci di arenaria distinguibili dal contrasto con le bianche rocce calcaree.

NOTE:
(1) Da documenti del 1298-99
(2) In sloveno bosco o boschetto
(3) Dal longobardo gahagi con significato di luogo recintato
(4) Dal tedesco Forst, bosco
(5) Menzionata negli statuti del 1322 e poi disboscata nel 1337 per far posto a terreni agricoli
(6) vedi articolo Il castello di San Servolo  (pubblicato il 21 novembre 2012)                           …          ..
(7) Forse dal nome dei signori della casata Vichumberg

FONTI:

Fulvio Colombo, Moccò – Castello e distretto, Estratto da “Archeografo Triestino” Biblioteca Civica A. Hortis;

Carlo Chersi, Itinerari del carso triestino, Tip. Nazionale, Trieste, 1962;

Dante Cannarella, Guida del carso triestino, Ed. Svevo, Trieste, 1975.

Contovello

Fino alla metà del Duecento tra il confine della signoria di Duino e quello del Vescovado di Trieste esisteva solo il piccolo villaggio di Prosecho o Prosecum.
Agli inizi del Trecento, sulla dorsale prospicente il mare a circa 500 metri dall’abitato e nei pressi della vicina chiesa “de Sancto Ieronimo”, il Comune di Trieste iniziò a costruire un castello per il controllo del mare e delle contrade verso Trieste. L’edificio nominato Castrum montis Collani o Moncolanum si trovava non solo in una posizione dominante ma era collocato in un particolare terreno marnoso-arenaceo che permetteva la coltivazione di vigne e uliveti, fonte di ricchezza per la comunità triestina di allora.
Il 25 febbraio 1369 il castello venne però espugnato rimanendo in mano a una guarnigione di 20 balestrieri veneziani e 30 pedoni trevisani.
Dopo l’assalto del 1380 di una coalizione genovese-friulana e la successiva trattativa di pace, Venezia abbandonò ogni pretesa su Moncolanum e il suo territorio.

Con l’atto di Dedizione all’Austria del 1382, a Trieste subentrarono i delegati e amministratori austriaci che ben presto si misero a presidio della fortezza, da allora identificata come Torre di Moncolano nei pressi del borgo da loro rinominato Prossek, di più facile fonetica e scrittura.

Nel 1413 nei pressi della torre fu deciso di costruire un nuovo centro abitato chiamato come la vicina chiesa e destinato agli slavi dei territori carsici, fatto che provocò malumori e qualche ritorsione da parte degli abitanti di Prosecho.
Con l’atto di acquisto del 1437 per una vigna firmato da un certo Matteo “de Contovello”, appare per la prima volta la scrittura del toponimo anche se lo studioso Mario Doria lo farebbe risalire a un più antico Coltovello o Coltivello che indicava il terreno adatto alle coltivazioni. Gli sloveni invece attribuirono la derivazione del nome da kônta inteso come “valico”, mentre alcuni abitanti del posto asserirono romanticamente che provenisse dal “contar le vele” delle mogli in attesa del ritorno dal mare dei pescatori.

Le mura di Contovello furono costruite dopo i saccheggi e gli incendi di Prosecco da parte di alcune milizie a cavallo provenienti nel 1470 dalla Bosnia.
In seguito a un’altra incursione dei Veneti e a successivi cambi di presidio, nel 1524 la torre fu affidata a Pietro Giuliani, fido segretario dell’arciduca Ferdinando, attestando un nuovo distretto che comprendeva, e di fatto dominava, i 2 villaggi.
Con la cessione al potente uomo di corte Giovanni Gasparo Cobenzel e poi ai suoi eredi, iniziò una serie di lunghi contenziosi con il Comune di Trieste comprese quelle perorate dagli abitanti dei due borghi.
Dopo gli ultimi documenti riguardanti la torre sui quali è stato individuato come ultimo “signore di Prosecco” un certo Giovanni Filippo, figlio di Giovanni Gasparo, le notizie si esauriscono.
Nel frattempo alle mancate manutenzioni della fortezza si aggiunsero dei crolli murari per la caduta di fulmini o di avvenimenti sismici, allora non infrequenti, mentre la progressiva espansione dell’abitato e il riutilizzo dei materiali di costruzione segnarono il lento declino della torre.
Su una mappa delle linee di confine tra Trieste e Duino del 1645 vengono segnati i paesi di Contovello e Prosecco senza più nessun riferimento alla fortezza e dopo l’Ottocento i terreni circostanti vennero definiti “da pascolo”.

Ai nostri giorni, accanto al cimitero di Contovello sopravvivono ancora i ruderi di un muro formato da grossi conci di arenaria addossato a una maceria che un tempo il prof. Lonza ritenne parte di un tumulo preistorico collegato a un antichissimo castelliere. I saltuari scavi hanno effettivamente portato alla luce dei frammenti di ceramiche e di altri materiali riferibili a un arco cronologico molto ampio che avrebbero richiesto una strategia d’indagine oggi divenuta ormai  impraticabile per la presenza di ville e giardini.

Per la disposizione delle stradine, la compattezza dell’abitato in forma allungata e le case allineate entro un perimetro definito, il cuore di Contovello presenta però ancora oggi le caratteristiche di un paese medievale di cui rimane ancora la porta di accesso con le caratteristiche pietre squadrate dell’arenaria.
Tra i viottoli, gli antichi masegni e le balconate in legno, si aprono piccoli cortili con linde casette riadattate e ricolme di fiori.
Nell’antica chiesa in stile gotico-romanico di San Gerolamo, eretta nel 1606 e consacrata nel 1634, si trova l’altare appartenuto alla cappella di Santa Maria di Grignano, soppressa nel 1785, un notevole soffitto affrescato e numerose statue di fattura locale. Nel 1912 sono state aggiunte 4 bellissime finestre istoriate.
Dal prospiciente belvedere si gode una strepitosa vista che spazia dalle colline istriane fino alle lagune venete mentre sui declivi della collinetta si notano le verdi vigne destinate alla coltivazione del nostro pregiato “Prosecco”.
A metà della strada che porta a Contovello, nell’avvallamento che confina con un fittissimo bosco, si trova il piccolo laghetto delle paperelle, oggi risistemato con l’aggiunta di romantiche ninfee.

Sulla strada provinciale, sulla curva prima di Prosecco, c’è una piccola cappella gotica dedicata alla Madonna della Salvia, dal nome dei suoi nobili possessori terrieri. Gli affreschi del presbiterio e le iscrizioni latine farebbero risalire la costruzione al XV secolo o agli inizi del XVI.

E’ proprio bellissimo questo angolo di Carso così verde e così pieno di storia…

Fonti:
Fulvio Colombo, Dal Castello di Moncholano alla Torre di Prosecco, estratto dall’ “Archeografo Triestino”, 1998;
Dante Cannarella, Guida del Carso Triestino, Ed. Svevo, Trieste, 1975;
Fulvio Colombo, Prosecco, patrimonio del Nordest, luglio editore, Trieste, 2014