Archivio mensile:marzo 2014

L’assassinio di J. J. Winckelmann

In una Trieste settecentesca e di aspetto ancora medievale avvenne un omicidio che destò una grande impressione non solo in città ma anche in tutta l’Europa in quanto la vittima era non solo un celebre studioso di storia antica e arte classica ma veniva considerato come il fondatore della moderna storia dell’arte e delle discipline archeologiche.

La vita in breve

Johann Joachim Winckelmann, nato a Stendal (Prussia) il 9/12/1717 in una famiglia di umili origini luterane, si era dedicato fin da giovane allo studio: dalla teologia passò a quelli di medicina, matematica e letteratura moderna e antica, soprattutto greca e latina. Ma nel 1748 l’assunzione come aiutante dell’erudito Henrich von Bunau, segnò il corso della sua vita.
Stabilitosi a Dresda, dopo aver lavorato nella biblioteca del cardinale Passionei ed essersi convertito al cattolicesimo, si trasferì a Roma con una borsa di studio e nel 1758 prese servizio presso il cardinale Alessandro Albani, proprietario di una straordinaria collezione di libri e reperti antichi ai quali l’archeologo si dedicò con grande passione.
Conquistata la notorietà per i suoi importanti scritti, venne assunto dalla Cancelleria vaticana e nel 1763 nominato Prefetto delle antichità del Vaticano, carica di grandi poteri decisionali sugli scavi e sulle esportazioni dei reperti archeologici.

L’antefatto

Già molto famoso in tutta Europa, J. J. Winckelmann giunse a Trieste il I° giugno 1768 con l’intento di trovare un imbarco per Ancona e raggiungere poi Roma.
Di ritorno da Vienna con delle preziose medaglie d’oro e d’argento donategli dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa e avendo una certa fretta, era disposto a offrire due zecchini a chi gli avesse procurato un posto sulla nave, ma nonostante il grande traffico di bastimenti intorno al porto, fu costretto ad attendere la partenza per ben 8 giorni.Del tutto disinteressato all’ambiente e non intendendo presentarsi alle autorità locali, decise di pernottare presso la Locanda Grande nella centrale piazza San Pietro.
La stanza n.10 del II° piano da lui occupata era proprio accanto a quella di un certo Francesco Arcangeli, uno sguattero 28enne di Campiglio (Pistoia) giunto da Vienna dopo una condanna per furto a 4 anni di lavori forzati (ridotti poi a uno) e alla ricerca di un lavoro in città.
L’archeologo ritenne così di occupare buona parte del suo tempo con il bel giovane mostrandogli pure le medaglie che aveva con sé senza rendersi conto quanto costui ne fosse interessato.

Il fatto

Come fu riportato negli Atti del processo, la mattina dell’8 giugno, mentre scriveva sul tavolino della sua stanza, entrò l’Arcangeli chiedendogli spavaldamente di far vedere anche ai commensali della Locanda quelle importanti medaglie della Corte austriaca. Ricevuto un netto rifiuto, lo scellerato infilò una corda al collo dell’archeologo ma la sua pronta reazione sortì l’effetto di farli entrambi cadere a terra in una drammatica colluttazione. Per 5 volte l’affilato coltello dell’Arcangeli penetrò nel torace e nel ventre di Winckelmann prima che un cameriere della Locanda, attratto dagli urli, entrasse nella stanza costringendo il delinquente a una rapida fuga.
I medici immediatamente convocati constatarono la gravità delle ferite e una rapida morte per shock emorragico.
Ricevuti i sacramenti, l’archeologo volle lasciare le sue ultime volontà nominando suo erede il cardinal Alessandro Albani, lo straricco collezionista del Vaticano, predisponendo altre generose donazioni tra cui 20 zecchini d’oro per i poveri di Trieste.
Dopo una breve agonia morì alle ore 16 dell’8 giugno 1768.
Il giorno 10 si svolse la cerimonia funebre con la sepoltura nella tomba della Confraternita del SS. Sacramento sotto il sagrato della cattedrale di San Giusto.
L’Arcangeli sebbene fosse sporco di sangue, nello stesso giorno del delitto era riuscito a passare il confine veneto raggiungendo l’Istria ma quando da Fiume si stava incamminando verso Lubiana, venne fermato dai soldati. Privo di documenti, fu scortato fino al corpo di guardia di Postumia e dopo i controlli e uno stringente interrogatorio, confessò il suo reato.
Ricondotto a Trieste il 15 giugno, venne incarcerato, sottoposto a ulteriori interrogatori e dopo alcune versioni di fantasia, riferì come si svolsero i fatti dichiarandosi pentito del grave misfatto.

Il processo

Il processo dell’Arcangeli si svolse in 15 giorni nell’Ufficio criminali presso la Cancelleria Pretoriale in Piazza San Pietro e venne trascritto in 150 fogli con allegati 13 documenti tra cui i disegni del coltello e della corda usata per lo strangolamento.
Negatagli la possibilità di scontare la pena con il carcere e i lavori forzati, il 18 luglio l’Arcangeli venne condannato a morte per arrotamento davanti la Locanda Grande.

L’esecuzione

A 42 giorni dalla sentenza, nello stesso giorno e alla stessa ora in cui venne commesso il delitto, su un palco alto 18 piedi eretto nella centrale piazza Sa Pietro gremita di folla, il suo giovane corpo venne smembrato dalla terrificante ruota girevole. Dopo la morte sopraggiunta alle ore 10, l’orrendo cadavere fu esposto alla Maina, la cappelletta presso la Porta Cavana.

Il seguito

Come tutti i fatti di cronaca che riguardano personaggi famosi, anche l’omicidio di Winckelmann ebbe un seguito di pettegolezzi e insinuazioni.
Tra i primi a serpeggiare in città fu quello di un probabile legame omosessuale tra l’eccentrico gentiluomo di mezz’età e il giovane proletario, ipotesi che comunque mai fu accennata nelle carte processuali.
Quanto all’asserita accusa dell’archeologo di essere l’Arcangeli una spia a servizio della corte austriaca, rea di un non specificato raggiro, fu interpretata come una giustificazione all’esplosione d’ira che provocò l’omicidio (“sei un coglione” sembra gli avesse urlato la vittima).
Venne invece valutato lo strano comportamento del principe Kaunitz, presente al misterioso incontro di Winckelmann con l’imperatrice Maria Teresa. Costui infatti non solo pretese di essere informato giornalmente sullo svolgimento del processo, ma chiese gli fossero spediti tutti gli averi dell’archeologo prima della loro consegna al cardinal Albani, richiesta che sortì il sospetto sull’esistenza di carte molto compromettenti nei già consistenti bagagli dell’illustre defunto.
Serpeggiò così l’ipotesi di un intrigo internazionale di cui l’archeologo fosse il latore di importanti messaggi riguardanti le diplomazie vaticane e la Casa d’Austria.

Ma la Storia era ormai stata scritta: i fatti, gli interrogatori, le sedute processuali con gli allegati, compresa la descrizione dell’autopsia effettuata nel giorno stesso dell’omicidio e i disegni delle preziose medaglie di Maria Teresa, furono raccolti e conservati nell’Archivio Diplomatico della Biblioteca Civica di Trieste.
Con il passare del tempo i resti dell’illustre archeologo Johan Joachim Winckelmann furono traslati dalla cripta del Santissimo Sacramento, accatastati negli ossari comuni intorno la Cattedrale nell’ indifferenza della città.

Il cenotafio alla memoria

Sin dal 1808 lo storico letterato conte Domenico Rossetti (1774 – 1842) uno dei protagonisti della vita culturale di Trieste, sostenne la necessità di promuovere una sottoscrizione pubblica per erigere un monumento alla memoria di Winckelmann.
Nel 1822 venne accettato il progetto di costruire un cenotafio accanto le antiche lapidi triestine raccolte dietro la chiesetta di San Michele ma appena nel 1833 fu inaugurato il bel monumento di Antonio Bosa (Bassano 1780 – Venezia 1845) collocato in una grande nicchia del ripiano superiore dell’Orto Lapidario.

 Nel 1934 la nicchia venne abbattuta e il monumento venne sistemato all’interno del tempietto-gliptoteca dove erano state riposte le lapidi e le sculture più delicate e preziose.
 Il restauro degli anni Novanta volle creare una struttura ad arco che rievocasse in chiave moderna l’antica nicchia di copertura al cenotafio.

Sul classico sarcofago a zampe leonine che porta incisa l’iscrizione, siede affranto un giovane alato con il braccio appoggiato sul medaglione con le fattezze di Winckelmann. Accanto alla fiaccola riversa, un pugnale ricorda quel lontano fatto di sangue accaduto a Trieste, l’8 giugno 1768.

Fonte: “Un atroce misfatto L’ASSASSINIO DI WINCKELMANN A TRIESTE”, Marzia Vidulli Torlo, Comune di Trieste, 2012; –

Foto: Ritratto di Winckelmann litografia di von Ritter (Civici Musei di Storia e Arte) – Piazza San Pietro disegno Rieger 1765 (CMSA) – Foto storica nell’Orto Lapidario (1922) (CMSA); Foto cenotafio nel tempietto  (1974); Foto attuale del monumento.

 

Eugenio Scomparini

Nella foto un autoritratto (Museo Revoltella)

Lo Scomparini era un bell’uomo, alto, forte e slanciato. Era di buonissimo carattere e genialissimo.” Così l’artista triestino venne descritto dall’amico Carlo Wosty nella sua Storia del Circolo Artistico di Trieste del 1934, asserendo che “Fu sventura per lui d’essersi lasciato abbacinare dal successo locale e di essersi fermato a Trieste. In un centro artistico la sua ala avrebbe spiegato ben altro volo. Ma egli amava il quieto vivere, evitava la lotta che fortifica e sprona. Così la sua arte non fu mai vivificata da nuovi stimoli, da nuovi impulsi” scriveva con spirito polemico il Wostry, prolifico e geniale autore che propose i suoi lavori a Monaco, Vienna, Parigi e perfino agli avveniristici Set cinematografici dell’America. “Ma fu nondimeno un maestro” ammise però, confermando quanto Trieste seppe apprezzare l’allegorismo tiepolesco dello Scomparini con una rivisitazione pittorica moderna e senza precedenti dalle nostre parti (Franco Firmiani).

Nato il I° settembre 1845 da una famiglia di origini venete, Eugenio Scomparini si diplomò all’Accademia di Venezia iniziando ben presto a esporre i suoi dipinti fino a essere nominato dal Curatorio del Museo Revoltella membro della Consulta artistica. Risale al 1878 uno scenografico sipario dipinto per l’inaugurazione del Politeama Rossetti e sciaguratamente perduto durante le successive ristrutturazioni. Il Museo Revoltella ne ha conservato il bozzetto che, seppure dipinto su un acquerello di piccole dimensioni, illustra le simbologie allegoriche.

Dopo un triennale soggiorno a Roma con una borsa di studio, divenne presidente del mitico Circolo Artistico di Trieste; nel 1887 iniziò l’insegnamento del disegno alle Scuole Industriali dove formò un’intera generazione di artisti triestini: Veruda, Orell, Fiumani Parin e di moltissimi altri che si affermarono poi nel vivace ambiente cittadino di quei tempi.
Tra il 1894-95 il maestro elaborò il trittico “Navigazione, Arte, Industria” collocato dal Curatorio del Museo Revoltella accanto la Sala da pranzo del barone. La scenografica cornice in avorio, bronzo, marmo e smalto fu eseguita nel 1888 dall’ebanista milanese Daniele Lovati.

I temi iconografici furono congeniali allo Scomparini il cui slancio pittorico fu ancora più accentuato nei dipinti commissionati per il Caffè alla Stazione. Sui muri dell’ampia sala, ristrutturata nel 1897 con elaborati stucchi e arredata con raffinati mobili intagliati, furono sistemati le 8 grandi tele dedicate ai fasti del progresso rappresentato da altrettante figure femminili.
Purtroppo il frequentatissimo Caffè scomparve nel 1955.
Nella foto sottostante in basso a destra si nota un fabbro, nuovo eroe dei tempi moderni, adagiato sulla densa nuvola di fumo formata dalle ciminiere della Ferriera mentre un’allegorica Gloria dominava l’immagine dall’alto del cielo.

Il dipinto a olio su tela (m. 3,48 x 2,46) e quello di uguale misura raffigurante il Commercio, rappresentato da due figure femminili simbolo della Ricchezza e dell’Abbondanza sovrastate da Mercurio a cavallo di Pegaso, furono poi acquistate dalla Cassa di Risparmio e collocate nella sede della Sopraintendenza ai Beni Culturali di palazzo Economo (a lato di piazza Libertà).

Per il restauro del teatro Fenice, ideato dall’architetto Berlam e inaugurato il 30 settembre 1905, lo Scomparini decorò il soffitto con una rappresentazione in cui erano protagonisti attori e mimi affacciati sul grande cornicione di un proscenio circondato da bianche quinte prospettiche.
Questo splendido teatro venne in seguito completamente trasformato e tutti i decori vennero distrutti; furono conservati soltanto due bozzetti presso i Civici Musei di Storia e Arte.
Nella foto Wulz il cine-teatro Fenice

L’anno successivo il nostro instancabile artista realizzò la scena di un baccanale agreste sulla volta a crociera nella saletta antistante la Sala delle Feste di palazzo Artelli, il bell’edificio dell’attuale via dell’Università 5, firmato dall’ingegnere Giorgio Polli (e attualmente in fase di un lungo restauro).

Lo Scomparini affrescò anche la piccola chiesa in alto della collina dove fu costruito il complesso del Frenocomio Civico di Trieste, i cui progetti iniziarono nel 1877 e si protrassero con l’inaugurazione dell’ospedale nel 1908.
Ristrutturata in tempi recenti, la cappella ha conservato solamente le decorazioni sul timpano esterno al di sopra del porticato.

Nel 1911sulle pareti dell’atrio della Cassa di Risparmio fu appeso il quadro “L’Edilizia” , l’ultimo di questo nostro prolifico artista che vi raffigurò il percorso dell’uomo dalla giovinezza alla vecchiaia attraverso il lavoro, qui ispirato da un’allegorica, femminea Arte.

Sofferente di angina pectoris, il maestro Eugenio Scomparini morì il 17 marzo 1913 tra il rimpianto di tutti i suoi moltissimi allievi. La moglie Caterina Schiellin cedette un gran numero delle sue opere al museo Revoltella ancora oggi esposte nelle gallerie.

Il primo quadro di Scomparini che entrò nelle gallerie del Revoltella fu l’imponente olio su tela (m. 2,36 x 1,53) “Margherita Gautier” l’emanciata dama dalle camelie ormai sfiorite:

L’altera dama dal frusciante abito bianco:

Una drammatica “Sofonisba” avvelenatasi con il veleno per non essere ceduta ai Romani come preda di guerra del vincitore Scipione: Fonti:

Comune di Trieste, Eugenio Scomparini, Litografia Moderna, Trieste, 1984;                                                                                                                                       Laura Ruaro Loseri, Ritratti a Trieste, Editalia, Roma, 1993;                                     Carlo Wostry, Storia del Circolo Artistico di Trieste, Edizioni Svevo, Trieste, 1991.

 

VITO TIMMEL

Figlio del nobile tedesco Raphael von Thümmel e della contessa friulana Adele Scodellari, Vito Timmel nacque a Vienna il 19 luglio 1886. Ricevuta una cospicua eredità la sua famiglia si trasferì a Trieste dove la madre gestirà un negozio di moda.
Superata una malattia che fu definita come meningite, a soli sette anni di età il piccolo Vito iniziò a dipingere con gli acquerelli dimostrando un precoce talento che in seguito lo indurrà a iscriversi alla sezione di Pittura e decorazione della scuola per Capi d’Arte con Eugenio Scomparini come insegnante. Attratto dal movimento austriaco dello Jungenstil, frequentò per 4 anni l’Accademia di Belle Arti a Vienna – dove assorbirà l’impronta dell’Art Nouveau – e successivamente quella di Venezia, poi abbandonata per dissidi con uno dei professori.
Durante gli anni di studio eseguirà i primi paesaggi ripresi dai luoghi dove villeggiava rappresentandoli con riflessi di luce e contrasti di colore di gran limpidezza. Risalgono a questo felice periodo gli splendidi Plenilunio sul mare, Sole cadente, Tramonto e dei romantici scorci di Arzene (tra gli anni 1900-1906). A 18 anni partecipò al concorso indetto dalla Fondazione Rittmayer con Ritratto di donna, Pausa e La dormiente ma fu escluso dalla borsa di studio per il suo scandaloso nudo femminile.
Dopo diversi viaggi di formazione a Roma e Firenze e aver prestato servizio di riservista nell’esercito austro-ungarico, nel 1910 ritornò a Trieste iniziando sotto i migliori auspici la sua produzione artistica.

Estroso e volubile Timmel dipingeva indefessamente paesaggi postimpressionisti con colori intensi e luci di grande effetto ottico alternando lo stile naïf a quello secessionista di Gustav Klimt da cui fu sempre affascinato. Tra i dipinti ispirati dal famoso artista viennese si ricordano Arte pura e arte impura, Arte etrusca (1910) e le superbe Amazzoni (1915-16).
Nel 1916 gli furono affidate le decorazioni per il cinema Ideal, collocato allora nel palazzo della Ras, costruito dagli architetti Ruggero e Arduino Berlam con gli interni dipinti da Piero Lucano, e adibito anche a spettacoli teatrali e di varietà. L’effetto finale dei 20 pannelli a tempera su carta esposti nell’antisala risulterà talmente splendido da entusiasmare gli spettatori fin dal loro ingresso. Nel fregio continuo collocato nella parte alta delle pareti, sarà rappresentata una sequenza di personaggi letterari e teatrali come un aitante Arlecchino con lo sfondo di San Marco, uno stranito Don Chisciotte accanto al mulino-fantasma, il meditabondo Cyrano, la perfida Salomè con la testa mozzata di San Giovanni ai suoi piedi, una fuggitiva Madame Bovary, il mercante Sylok dinnanzi a Palazzo Ducale, Elena di Troia, un osceno Aphroditos, l’ergastolano Valjean, la terribile Elettra danzante tra le fiamme e ancora Gulliver, Melisenda e il surreale Mafarka.

Una serie di fantasiosi mascheroni completerà la serie di pannelli che continueranno a essere ammirati anche dopo il cambio di nome dell’Ideal con quello di Italia (1919) e per altri 43 anni nell’atrio del cinema-teatro Filodrammatico.
Nel 1971 tutta la collezione sarà acquisita dal Comune di Trieste e dopo accurati restauri affidata al Museo Revoltella. Attualmente queste splendide tempere (meno l’Arlecchino di proprietà privata) sono collocate nella sala lettura della biblioteca dove attraggono ancora gli sguardi più sensibili all’arte creativa che mai potrà essere disconosciuta dalle mode come dal tempo.

Rimasto vedovo dopo soli 4 anni di felice matrimonio, durante il primo conflitto mondiale Timmel fu arruolato nel 97° Reggimento di Radkersburg dove trascorrerà un servizio militare più di facciata che di armi. Avendo avuto come diretto superiore Alessandro Marangoni, commerciante triestino appassionato d’arte, ebbe la fortuna di dedicarsi per tutto il tempo alla pittura insieme all’amico-collega Argio Orell. Risalgono ai quei tempi una serie di pannelli caricaturali sulla guerra, fortunosamente recuperati dopo le pazienti ricerche del fotografo Paolo Bonanni presso alcuni parenti di Milano.
Ritornato a Trieste, Timmel continuò la sua intensa produzione negli studi di via Machiavelli 3 e di palazzo Carciotti partecipando a diverse mostre collettive tra Trieste e Venezia che suscitavano l’ammirazione degli spettatori quanto i deprezzamenti della critica ufficiale spesso polemica con gli artisti al di fuori di un determinato star-system.
Durante gli anni Venti ottenne gli incarichi di consulente al museo Revoltella e di decoratore per il Teatro dei Cantieri navali di Monfalcone.

Sull’onda del successo riscontrato nella hall del cinema Ideal, la famiglia Cosulich gli commissionò infatti l’allestimento artistico nella sala interna della palazzina liberty di Panzano e che Timmel completerà in tempi brevissimi ma con un risultato forse inferiore rispetto al precedente. Ai lati della sala teatrale sarà ancora ideato il fregio continuo su ben 40 metri lineari dove verranno dipinte 30 fantastiche figure rappresentanti la storia del teatro e sintetizzate nei cinque mascheroni collocati sopra il palcoscenico: Tragedia, Scherzo, Satira, Commedia, Dramma.

Il teatro sarà purtroppo distrutto nei bombardamenti del 9 marzo 1944.

Solo 12 tele saranno fortunosamente recuperate da Paolo Marangoni, custodite in una villa privata e poi nei magazzini del Comune. In una mostra allestita nel 2008 nella Galleria d’Arte Contemporanea di Monfalcone i pannelli accuratamente restaurati verranno esposti al pubblico assieme alle immagini fotografiche dell’artistico edificio.
Terminate le decorazioni teatrali, il nostro prolifico artista completerà un trittico pittorico ridondante di simbolismi in stile klimtiano e dedicato agli Eroi, intesi come “i viventi della commedia umana”(1) ed esposti nella prima mostra d’Arte Romana nel 1921.

Di questo fortunato periodo si menzionano anche gli eccentrici disegni per delle Carte da gioco e la successiva serie di fantasiose Ballerine del 1927, forse commissionate per qualche specifica destinazione di cui non si hanno tracce. Più che ammiccante o malizioso il loro aspetto sarà piuttosto ambiguo dopo quello decisamente ermafrodita ritratto nel famoso quadro Fochi del 1924 tuttora esposto al Museo Revoltella.
Negli anni Trenta Timmel modificherà lo stile eseguendo tanti piccoli tocchi di pittura che ricorderanno il pointillisme francese, con un risultato aereo e coinvolgente come Il sorgere della luna sul mare (1934), la Marina con scogli (1935), Il viandante (1936), Paese carsico (1939) e l’affascinante Ritratto di Gemma Marangoni (1937-38).

Dopo il tormentato secondo matrimonio con Giulia Tomè e la loro brusca separazione l’anno successivo, inizierà lentamente a sprofondare nella depressione e nel’alcol. Abbandonata la vita sociale e alloggiato in stanze di fortuna, si abbruttirà nelle osterie di Cittavecchia fintanto che il figlio Paolo e l’amica Anita Pittoni riusciranno ad aiutarlo. L’uscita dall’inferno durerà per alcuni anni permettendogli ancora la realizzazione di bellissimi quadri dove i sogni onirici saranno alternati con gli incubi di un dramma esistenziale ormai inarrestabile. Sono di questo periodo intermedio Tempesta notturna, Luna d’oro, Crepuscolo, Bosco d’autunno, Trieste di notte e altri numerosi dipinti recuperati dopo le estenuanti ricerche di Paolo Bonassi presso mercanti e Case d’aste e riprodotti sul bellissimo libro di Franca Marri “Vito Timmel”, Collana d’Arte CRT, 2005.

Sfiancato dai disturbi neurologici e da una patologica pigrizia, Timmel si ritirerà ancora da ogni vita pubblica perdendosi tra luride bettole e disadorne stanzette dove tuttavia non mancheranno colori e pennelli. In quei miseri ambienti continuerà infatti a dipingere tratteggiando aurore sul mare, ombre di luna tra viottoli deserti, angeli biondi sopra soffici nuvole, foglie secche mosse dal vento esprimendo quel lato poetico che sopravviverà anche nei disegni del “Magico taccuino”, ultima testimonianza dei suoi mille disperati giorni trascorsi in manicomio.
La ricaduta al bere smodato provocherà una progressiva perdita della lucidità con gravi ripercussioni comportamentali che alla fine del 1943 lo porteranno a continui ricoveri nella “Villa paganti” del Sanatorio neurologico e in seguito all’internamento in un reparto psichiatrico di San Giovanni. Per ancora 2 anni riuscirà a dipingere alcuni quadri tra cui un notevole Palazzo ducale datato 1944 ed eseguito con tratti sorprendentemente nitidi e sicuri.
Tra dimissioni, fughe e ulteriori ricoveri, Vito trascorrerà gli ultimi anni della sua vita in un penoso stato confusionale con la perdita di ogni memoria e dignità umana. Nei suoi disegni appariranno visioni oniriche storpiate da una sconvolgente regressione infantile.
Compromesso nel fisico anche per le “cure” ricevute, il nostro Vito von Thümmel con la sola vicinanza dell’amico Cesare Sofianopulo concluderà a soli 63 anni la sua vita tormentata in una squallida stanzetta di San Giovanni nel giorno di Capodanno del 1949.

(1) Così definiti da Salvatore Sibilia nella pubblicazione del 1922 “L’Eroica”

Fonte: Franca Marri, Vito Timmel, Collana d’Arte CRTrieste, 2005