Il caso Michelstaedter

Nell’anno 1910 le cronache della Venezia-Giulia si occuparono di un suicidio che molto interessò i letterati dell’epoca sollevando diatribe a non finire. Non vorremmo rilevare che le glorie postume siano le più celebrate ma spesso le morti violente sopraggiunte in giovane età vengono risaltate con editoriali giornalistici avvezzi a cogliere l’onda emotiva per creare un mito nell’immaginario collettivo.
Fu così per la morte di Carlo Michelstaedter, un promettente studente di filosofia giunto all’ultima riga di una tesi divenuta poi famosissima: “La persuasione e la rettorica”. Le pagine schizzate con il sangue sgorgato dalla pistolettata al cervello suscitarono grande impressione e uno spasmodico interesse per quel testo. Ancora oggi fior di letterati cercano di decifrare lo scritto redatto in un metalinguaggio di greco antico con una lunga serie di note.
Non è di più facile lettura neppure il “Dialogo della salute e altri dialoghi” ma almeno qui si trovano alcune dissertazioni in cui si percepivano ancora i piaceri della vita e un suo possibile senso sebbene non del tutto compiuto. “[…] L’occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo ma si dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l’orecchio, così il tatto…” “[…] Ogni attimo della sua vita è prezioso a questo artista, egli sa che basta che lo scriva, lo dipinga lo canti e l’ha reso immortale” declama Rico nel corso della lunga disputa con l’amico Nino presupponendo che nell’esistenza umana una salvezza pur ci fosse. Ma poi enuncia che “l’emozione personale” e la capacità di “foggiarsi una vita” frantumano ogni altra forma esistenziale che non sia alimentata da quegli aliti divini aldilà dei quali c’è solo la noia, il vuoto infinito e i bisogni insoddisfatti. Così quando arriva la frase fatale: “La morte mi darà la libertà e la pace” non ci si meraviglia più che tanto anche se dispiace che Rico si sia lasciato convincere funeree dialettiche filosofico-matematiche dell’amico Nino.
Si potrebbe continuare a disquisire sul folle dialogo dei due ragazzi dove la ragione si perde tra le farneticanti elucubrazioni di Napoleone, Diogene, Socrate e perfino della cometa-parlante Halley che illuminò una notte di maggio di quello stesso anno.
Ma è quel sangue schizzato sulle pagine che ci turba, quella gelida canna puntata sulle meningi surriscaldate e forse esauste. “La teoria che l’autore svolge e che ha la conclusione pratica nel suicidio è insomma la teoria che soltanto l’impossibile è necessario” scrisse Benco in un editoriale del “Piccolo della sera”(dd. 10/8/1913). “Non è certo qui dato riassumere un libro denso, rigoroso e strano come il suo libro postumo” asserì poi e non ce lo permetteremo certo noi. Ma tra cotanti illustri contesti letterari vorremmo ricordare che il giovane Carlo fu anche un dolcissimo poeta e forse tra le righe e perfino negli spazi bianchi delle sue composizioni traspare una parte della sua anima, una chiave di lettura intima e segreta che “tocca” i fili di una sensibilità non comune e di una voglia di vita espressa, dolorosamente espressa, fino agli ultimi versi scritti un solo mese prima del gesto estremo.
“Salve o vita! Dal cielo illuminato/ dai primi raggi del sorgente sole/ all’azzurra compagna!” scrisse quando era ancora adolescente. “…il mio pensiero vola alla luce pura, trionfante/ vola al sole del vero, vola esultante” e ancora: “Sete di gloria e sete di sapere, desiderio d’azione e di piacere” declamano i suoi versi nei primi giorni dell’estate del 1905.
Ma alle porte dell’inverno l’euforia è già scomparsa: “Un brivido mi corre per la nebbia/ la vita è fredda, piena di sgomento/ triste isolato debole mi sento”.
Passano i mesi e i tempi di scuola sono già rimpianti. Il ragazzo sta diventando uomo e la ragione inizia a perdersi negli oscuri meandri filosofici “…e un bisogno amaro di certezze”.
I tormenti si susseguono giorno dopo giorno: “ Ahi! Che svanita come nebbia bianca/ nell’ombra folta della notte eterna/ è la natura e l’anima smarrita/ palpita e soffre orribilmente sola/ sola e cerca l’oblio.”.

Nell’inverno del 1908 qualcosa si spezza nella mente di Carlo. Una pagina bianca, un titolo emblematico: “Il canto delle crisalidi”, un jingle che ripete per 16 volte la parola “morte” seppure compensata con 17 ripetizioni della parola “vita”.
Quando fiorirà l’ultima primavera della sua vita i versi saranno ormai pregni di dolore: “Ed ancor io così perennemente/ e vivo e mi tramuto e mi dissolvo/ ad ogni istante soffro la mia morte” per poi bramarla: “Tu mi sei cara mille volte, o morte/ che il sonno verserai senza risveglio/ su quest’occhio che sa di non vedere/ sì che l’oscurità per me sia spenta”.
Eppure nei “Figli del mare”, un poemetto scritto a Carsia nel settembre 1910, si leggono ancora delle liriche molto belle, come se i pensieri si concentrassero in una reminiscenza epica e perfino catartica. Appare una donna giovane et eterea: “…le vesti al vento, ritta sullo scoglio, … nel mare ondoso/sulla brulla costiera solitaria” Ma non sarà il suo fascino ad attrarlo: “[…] Più forte sullo scoglio/l’onda lontana s’infranse/ e nel fondo una nota pianse/ nei perduti figli del mare.” E fatalmente ritornerà il mortale refrain: “ Il vento e l’onde intanto lentamente/ come un rottame verso la scogliera/ mi spingono alla rovina senza scampo”.
Nel settembre 1910 Carlo inizierà il suo lento commiato: “Ne giorni del dolore e nelle notti/ senza riposo, nella valle triste/ della sorda fatica e del tormento/ senza speranza, nel mio dubitare/ cieco, quando l’abisso dell’inerzia/ dell’abbandono m’era aperto ai piedi.”“Né più mi giova mendicare i giorni/ né chiedere altro più dal dio nemico/ se non che faccia mia morte finita” scrive nell’ultimo poema datato 17 settembre 1910.
“Dopo aver provato essere la vita un inganno, resta ancora da dimostrare se a conti fatti non valga la pena d’essere ingannati” scrisse ancora Benco, “Vi sono inganni più belli della morte” asserendo già nel titolo dell’editoriale che si fosse trattato di un “suicidio filosofico” o “metafisico” come lo definì Papini. Si vociferò anche su un dissidio o, piuttosto, di un malinteso con la madre, alcuni medici, fra cui l’amico Gaetano Chiavacci, avanzarono l’ipotesi di una grave prostrazione nervosa.
A noi modesti lettori, il giovane Carlo non ci ha persuaso affatto e lo avremmo apprezzato di più come poeta se non avesse così tanto attinto, oltre ad alcuni passaggi del Vecchio Testamento (Michelstaedter era di origini istraelite), alle liriche di Leopardi e alle teorie di Schopenhauer, che peraltro non si fece scrupolo di arrivare alla vecchiezza con tranquilla gaiezza.

( Le poetiche di Michelstaedter sono riportate su LiberLiber – Gli scritti sono pubblicati dalla Piccola Biblioteca Adelphi)

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