Archivio mensile:aprile 2013

“Vorrei dirvi”

Con queste due parole, incipit di Il mio Carso e ripetute poi per tre volte, Slataper riesce a catturare l’immediata attenzione del lettore: “una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo, la foresta di roveri coperta dalla neve, la pianura morava dalla terra piena di barbabietole” come se questi tre luoghi, rispettivamente del Carso, della Croazia e della Boemia volessero attestare il suo sentirsi italiano, slavo e tedesco insieme.
Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste” asserisce poi l’autore: “E’ meglio ch’io vi confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardo trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra cultura e ai vostri ragionamenti”: quasi un’umile asservimento all’ideologia irridentista che pulsava nei salotti liberal-letterari di Trieste.
Ma presto s’inoltrerà in liberi spazi: “Penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento, penso avidamente al sole sui colli…” iniziando il lungo racconto che si svolgerà nelle mutevoli scenografie delle nostre terre, fra i calcari e i ginepri avvolti dalla bora e dal sole o nell’ombrosa vallata di Strugnano con i ricordi felici dei bagni infantili, degli odori dolciastri svaporati dai mosti durante le allegre vendemmie.

Le pagine dove più si percepisce l’anima nascosta di Scipio, avida di emozioni e di un’intensa sensualità, inizieranno in una piccola casa di pietra nel cuore del carso, in quella zona aspra e selvaggia del monte Kâl, sopra la val Rosandra e il grande golfo di Trieste. In convalescenza dopo una malattia cerebrale e improvvisamente libero dagli impegni scolastici, il ragazzo si immergerà in quella natura selvatica che descriverà con immagini di grande poesia: “Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i muriccioli e i gineprai” sarà il ricordo di quei giorni solitari “e ansante mi buttavo a capofitto nel fiume per dissetarmi la pelle, inzupparmi d’acqua la gola, le narici, gli occhi e m’ingorgavo di sorsate enormi, notando sott’acqua a bocca spalancata come un luccio. Andavo controcorrente abbrancando nella bracciata i rigurgiti che s’abbattevano spumeggianti contro il mio corpo, addentando l’ondata vispa, come un ciuffo d’erba fiorita quando si sale in montagna. …Il sole sul mio corpo sgocciolante! Il caldo sole sulla carne nuda, affondata nell’aspre eriche e timi e mente, fra il ronzo delle api tutt’oro! Allargavo smisuratamente le braccia per possedere tutta la terra, e la fendevo con lo sterno per coniugarmi a lei e rotare con la sua enorme voluta nel cielo, fermo, come una montagna radicata dentro al suo cuore da un’ossatura di pietra, come un pianoro vigilante solo nell’arsura agostana e una valle assopita caldamente nel suo seno, una collina corsa dal succhio d’infinite radici profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori irrequieti e folli.
E a mezzo mese nell’ora in cui la luna emerge dal lontano cespuglio e si fa strada fra le nubi, candida e limpida come un prato di giunchiglie in mezzo al bosco, io mi sentivo adagiato in una dolce diffusità misteriosa, come in un tremor di quieto sogno infinito.”
Quel “tremor di quieto sogno infinito” ci emoziona come fosse anche un nostro ricordo di gioventù vissuto altrove.
“…la terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un sasso o un ramo stroncato o una foglia più grande o il terriccio d’una talpa o il passo di qualche animale… Tutto m’era fraterno. Amavo le farfalle in amore impigliate nella trama nerastra del rovo, sbattenti disperatamente le ali in una pioggia di bianco pulviscolo. Ronzava disperata nel mio pugno la mosca colta al volo; accarezzavo il bruco liscio e fresco che si raggrinziva come una fogliolina secca; tenevo avvinta per le grandi ali cilestrine la libellula; affondavo il braccio nell’acqua per sollevar di colpo in aria il rospicino dalla pancia giallonera; tentava di ritorcersi l’addome della vespa contro le mie dita e partorirvi il pungiglione: Squarciavo a sassate le biscie. Sorridevo agli sbalzelli alati dei moscerini, tagliati dal colpo imperioso d’una mosca smeraldina, al pispillare roteante delle rondini, alle nuvole che si trastullano nella luce, rabbrividenti pudiche sotto le fredde dita curiose del vento, alla foglia navigante con rulli e beccheggi nell’aria, alle stelle germoglianti nel cielo quando col vespero si diffonde sul mondo un tepore leggero come fiato primaverile.
Scivolando negli arbusti, tenendomi agganciato al masso dirupante con due dita artigliate in una ferita muscosa della pietra, palpeggiando e sguazzacchiando con la palma aperta sull’orlo degli stagni, andavo spiando la nascita della primavera. Nel nascondiglio più benigno del boschetto, in un calduccio umido di seccume, ancora ancora quasi riscaldato dal sonno di una lepre, io frugando trovavo la prima primula, il primo raggio di sole! L’occhio stupito della piccola primavera svegliata! E seguivo l’ondeggiar lieve del suo passo, annusando come cane in traccia, fra radici gonfie e germogli diafani, dietro un alioso sbuffo di rugiade erbose, di terra umida, di lombrichi, di succhi gommosi; un odor di latte vegetale, di mandorle amare – eccolo qui il sorriso roseo dei peschi, incerto com’alba invernale, cara, cara! e scuoto freneticamente questo tronco e quello e questo, spargendomi di petali e di profumo. ….”
Immagini tenere e fresche che ci fanno sentire lì, nel cuore del carso e sembra proprio di annusare l’odore della terra, di percepirne i fruscii, lo stordimento di quell’aria pura e incontaminata.

Il monte Kâl è una pietraia. … La bora aguzza di schegge mi frusta e mi strappa le orecchie. Bella è la bora. E’ il tuo respiro, fratello gigante. Dilati rabbioso il tuo fiato nello spazio e i tronchi si squarciano dalla terra e il mare, gonfiato dalle profondità, si rovescia mostruoso contro il cielo.” Quelle sferzate fredde e violente lo sveglieranno dal suo torpore pigro e spaesato: “All’alba rinacqui. Non so come fu. Il cielo era puro e io scorsi la bella bianca città laggiù e la terra arata. E di un balzo, come chi abbia visto Dio, mi buttai su di lei. Sparito era il sogno e l’incubo. Tremando mi caccio nel solco e mi ricopro della terra gravida, sconvolgendo le sementa. E questo tocco di zolla ghiacciata io l’addento come pane. Sotto, pulsano le radici. E la mia anima veramente s’allarga come acqua in una conca immensa, e sento che un albero lontano sussulta per il vento comprimendo intorno a sé la terra e certo quest’idea che mi nasce è la prima primola nei campi.
A carponi e a tentoni cerco le cose, sbarrando gli occhi, e i rami invernali pingui di gemme contenute, gli stecchi senza linfa del vigneto, la terra ghiaiosa che mi preme i calzoni sul ginocchio, tutto freme com’io lo tocco, perché son io la primavera.”

Andiamo per i prati senza sentieri” un andare senza mete, senza seguire delle tracce che portassero da qualche parte, un andare libero “perché oggi un tiepido sole ci carezza le palpebre”.
“…E’ un giorno che l’anima è portata in alto dal proprio fiato. Se respiriamo, lasciamo bianca, vaporosa traccia di noi nell’aria.”

Ecco come il nostro poeta descrive l’estate, quando gli umori delle terre carsiche si rinsecchiscono sotto la ventosa calura e il paesaggio diviene improvvisamente brullo: “Carso, che sei duro e buono! Non hai riposo e stai nudo al ghiaccio e all’agosto, mio carso, rotto e affannoso verso una linea di montagne per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo.
Tutta l’acqua s’inabissa nelle tue spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla roccia bianca, gli occhi vacillano nell’inferno d’agosto. Non c’è tregua.
Il mio carso è duro e buono. Ogni suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso.
Egli è senza polpa. La sua poca terra rossastra sa ancora di pietra e di ferro.
Il carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti aguzzi. Ginepri aridi.
Lunghe ore di calcare e ginepri. L’erba è setolosa. Bora. Sole.
La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato.
Grotte fredde, oscure. La goccia portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora altri centomila.
Ma se una parola deve nascere da te, bacia i timi selvaggi che spremono la vita dal sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera.”

Il mio Carso uscì alla fine di maggio del 1912 sui Quaderni della voce  raccolta di Giuseppe Prezzolini stampati nello Stabilimento Tipografico Aldino di Firenze. Il testo fu accolto a Trieste con diffusa ostilità e il ferreo silenzio della stampa, l’unica recensione essendo quella del foglio scandalistico “La Coda del Diavolo” con il titolo “Triestini degenerati”, con il perverso gusto di disprezzare chi non appartenesse a una certa élite letteraria e le sue storiche fobie del “pericolo slavo”.

Assieme a Giani e Carlo Stuparich Scipio partirà al fronte il 2 giugno 1915. Dopo una ferita al braccio trascorrerà la convalescenza a Roma per ripartire in novembre verso le trincee di guerra con il grado di sottotenente della Brigata Re dei Granatieri di Sardegna. Il 3 dicembre invierà l’ultima lettera alla moglie informandola di un prossimo rischioso pattugliamento sul Podgora. Qui sarà colpito a morte dalla pallottola di un soldato dell’impero da cui nacque come suddito.
Slataper verrà sepolto fra i cipressi di un viottolo ai piedi del monte Calvario sotto una semplice pietra con la croce bianca su cui sarà ricordato il suo eroico sacrificio. A noi che l’abbiamo perduto piace ricordare una sua dolce e toccante frase:

Vogliamo bene a Trieste per l’anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute”.La lapide in ricordo della morte di Slataper sul Monte Calvario

(Da: Scipio Slataper, Il mio Carso, RCS Libri S.p.a., Milano, 2000)
Il testo integrale è anche disponibile su LiberLiber

Il caso Michelstaedter

Nell’anno 1910 le cronache della Venezia-Giulia si occuparono di un suicidio che molto interessò i letterati dell’epoca sollevando diatribe a non finire. Non vorremmo rilevare che le glorie postume siano le più celebrate ma spesso le morti violente sopraggiunte in giovane età vengono risaltate con editoriali giornalistici avvezzi a cogliere l’onda emotiva per creare un mito nell’immaginario collettivo.
Fu così per la morte di Carlo Michelstaedter, un promettente studente di filosofia giunto all’ultima riga di una tesi divenuta poi famosissima: “La persuasione e la rettorica”. Le pagine schizzate con il sangue sgorgato dalla pistolettata al cervello suscitarono grande impressione e uno spasmodico interesse per quel testo. Ancora oggi fior di letterati cercano di decifrare lo scritto redatto in un metalinguaggio di greco antico con una lunga serie di note.
Non è di più facile lettura neppure il “Dialogo della salute e altri dialoghi” ma almeno qui si trovano alcune dissertazioni in cui si percepivano ancora i piaceri della vita e un suo possibile senso sebbene non del tutto compiuto. “[…] L’occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo ma si dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l’orecchio, così il tatto…” “[…] Ogni attimo della sua vita è prezioso a questo artista, egli sa che basta che lo scriva, lo dipinga lo canti e l’ha reso immortale” declama Rico nel corso della lunga disputa con l’amico Nino presupponendo che nell’esistenza umana una salvezza pur ci fosse. Ma poi enuncia che “l’emozione personale” e la capacità di “foggiarsi una vita” frantumano ogni altra forma esistenziale che non sia alimentata da quegli aliti divini aldilà dei quali c’è solo la noia, il vuoto infinito e i bisogni insoddisfatti. Così quando arriva la frase fatale: “La morte mi darà la libertà e la pace” non ci si meraviglia più che tanto anche se dispiace che Rico si sia lasciato convincere funeree dialettiche filosofico-matematiche dell’amico Nino.
Si potrebbe continuare a disquisire sul folle dialogo dei due ragazzi dove la ragione si perde tra le farneticanti elucubrazioni di Napoleone, Diogene, Socrate e perfino della cometa-parlante Halley che illuminò una notte di maggio di quello stesso anno.
Ma è quel sangue schizzato sulle pagine che ci turba, quella gelida canna puntata sulle meningi surriscaldate e forse esauste. “La teoria che l’autore svolge e che ha la conclusione pratica nel suicidio è insomma la teoria che soltanto l’impossibile è necessario” scrisse Benco in un editoriale del “Piccolo della sera”(dd. 10/8/1913). “Non è certo qui dato riassumere un libro denso, rigoroso e strano come il suo libro postumo” asserì poi e non ce lo permetteremo certo noi. Ma tra cotanti illustri contesti letterari vorremmo ricordare che il giovane Carlo fu anche un dolcissimo poeta e forse tra le righe e perfino negli spazi bianchi delle sue composizioni traspare una parte della sua anima, una chiave di lettura intima e segreta che “tocca” i fili di una sensibilità non comune e di una voglia di vita espressa, dolorosamente espressa, fino agli ultimi versi scritti un solo mese prima del gesto estremo.
“Salve o vita! Dal cielo illuminato/ dai primi raggi del sorgente sole/ all’azzurra compagna!” scrisse quando era ancora adolescente. “…il mio pensiero vola alla luce pura, trionfante/ vola al sole del vero, vola esultante” e ancora: “Sete di gloria e sete di sapere, desiderio d’azione e di piacere” declamano i suoi versi nei primi giorni dell’estate del 1905.
Ma alle porte dell’inverno l’euforia è già scomparsa: “Un brivido mi corre per la nebbia/ la vita è fredda, piena di sgomento/ triste isolato debole mi sento”.
Passano i mesi e i tempi di scuola sono già rimpianti. Il ragazzo sta diventando uomo e la ragione inizia a perdersi negli oscuri meandri filosofici “…e un bisogno amaro di certezze”.
I tormenti si susseguono giorno dopo giorno: “ Ahi! Che svanita come nebbia bianca/ nell’ombra folta della notte eterna/ è la natura e l’anima smarrita/ palpita e soffre orribilmente sola/ sola e cerca l’oblio.”.

Nell’inverno del 1908 qualcosa si spezza nella mente di Carlo. Una pagina bianca, un titolo emblematico: “Il canto delle crisalidi”, un jingle che ripete per 16 volte la parola “morte” seppure compensata con 17 ripetizioni della parola “vita”.
Quando fiorirà l’ultima primavera della sua vita i versi saranno ormai pregni di dolore: “Ed ancor io così perennemente/ e vivo e mi tramuto e mi dissolvo/ ad ogni istante soffro la mia morte” per poi bramarla: “Tu mi sei cara mille volte, o morte/ che il sonno verserai senza risveglio/ su quest’occhio che sa di non vedere/ sì che l’oscurità per me sia spenta”.
Eppure nei “Figli del mare”, un poemetto scritto a Carsia nel settembre 1910, si leggono ancora delle liriche molto belle, come se i pensieri si concentrassero in una reminiscenza epica e perfino catartica. Appare una donna giovane et eterea: “…le vesti al vento, ritta sullo scoglio, … nel mare ondoso/sulla brulla costiera solitaria” Ma non sarà il suo fascino ad attrarlo: “[…] Più forte sullo scoglio/l’onda lontana s’infranse/ e nel fondo una nota pianse/ nei perduti figli del mare.” E fatalmente ritornerà il mortale refrain: “ Il vento e l’onde intanto lentamente/ come un rottame verso la scogliera/ mi spingono alla rovina senza scampo”.
Nel settembre 1910 Carlo inizierà il suo lento commiato: “Ne giorni del dolore e nelle notti/ senza riposo, nella valle triste/ della sorda fatica e del tormento/ senza speranza, nel mio dubitare/ cieco, quando l’abisso dell’inerzia/ dell’abbandono m’era aperto ai piedi.”“Né più mi giova mendicare i giorni/ né chiedere altro più dal dio nemico/ se non che faccia mia morte finita” scrive nell’ultimo poema datato 17 settembre 1910.
“Dopo aver provato essere la vita un inganno, resta ancora da dimostrare se a conti fatti non valga la pena d’essere ingannati” scrisse ancora Benco, “Vi sono inganni più belli della morte” asserendo già nel titolo dell’editoriale che si fosse trattato di un “suicidio filosofico” o “metafisico” come lo definì Papini. Si vociferò anche su un dissidio o, piuttosto, di un malinteso con la madre, alcuni medici, fra cui l’amico Gaetano Chiavacci, avanzarono l’ipotesi di una grave prostrazione nervosa.
A noi modesti lettori, il giovane Carlo non ci ha persuaso affatto e lo avremmo apprezzato di più come poeta se non avesse così tanto attinto, oltre ad alcuni passaggi del Vecchio Testamento (Michelstaedter era di origini istraelite), alle liriche di Leopardi e alle teorie di Schopenhauer, che peraltro non si fece scrupolo di arrivare alla vecchiezza con tranquilla gaiezza.

( Le poetiche di Michelstaedter sono riportate su LiberLiber – Gli scritti sono pubblicati dalla Piccola Biblioteca Adelphi)