Archivio mensile:febbraio 2013

L’ampolla votiva per il sepolcro di Dante

In seguito al fermo rifiuto di tornare a Firenze (“lettera all’amico fiorentino” datata 1315) e alla successiva condanna a morte assieme ai figli, Dante Alighieri visse gli ultimi anni a Ravenna (sicuramente dopo il 1318 asserisce la storia) dove concluse la “Divina Commedia” e la sua stessa vita il 14 settembre 1321. .
Nel 1483 il suo sepolcro venne custodito in una cella e solo nel 1780 fu eretto il tempietto così come ancora oggi ci appare.$_12[1]

Nel 1908 la Società Dante Alighieri (sorta a Roma nel 1889 per tutelare e diffondere la cultura italiana nelle terre soggette all’Austria) deliberò il progetto di una lampada votiva da collocarsi nel piccolo tempio sepolcrale del Sommo Poeta.
Riccardo Zampieri, direttore del giornale irredentista L’Indipendente, avanzò la proposta di crearla e donarla come omaggio di Trieste, offerta che fu subito accolta dalla Società dantesca.
Per realizzare il progetto venne incaricato il Circolo artistico e la Società Minerva, associazione di arte e cultura ancora oggi attiva in città.
Per il comitato esecutivo dell’opera fu nominato Attilio Hortis (1850-1926, storico bibliotecario triestino) con Pietro Sticotti come segretario mentre Filippo Artelli avrebbe raccolto i fondi necessari per realizzarla considerato che fu deciso di cesellarla in argento purissimo.
La proposta entusiasmò la popolazione che donò al centro di raccolta ogni sorta di oggetti per la fusione mentre la Società Alpina delle Giulie donò la colonna mamorea che avrebbe sostenuto la preziosa ampolla. Quando Fiume volle partecipare all’iniziativa aggiungendovi una simbolica ghirlanda, i giornali slavi denunciarono irritati che si volesse attuare una manifestazione irredentista, eventualità che fu definita “assurda” da quelli filo-imperiali. L’autorità governativa comunque non intervenne nella pericolosa diatriba in quanto “avrebbe dovuto incarcerare tre quarti della popolazione” scrisse con sarcastico humor Carlo Wostry nelle memorie del suo “Circolo Artistico di Trieste”.

Il vincitore del concorso fu Giovanni Mayer (1836-1946, il grande scultore nostro concittadino) che si mise subito al lavoro creando vari bozzetti prima di procedere alla cesellatura definitiva (nota 1).
Fu realizzata così una stupenda scultura dalla base decagonale su cui si ergevano cinque figure femminili (alternate agli stemmi di Trieste, Gorizia, Trento, Istria e Dalmazia) reggenti la preziosa ampolla coniata con le armi dei comuni di Trieste, Firenze e Ravenna con l’alabarda fiancheggiata dal giglio fiorentino e dal pino ravennate. Sul collo della lampada erano raffigurati Dante stesso, Beatrice e Virgilio assieme a Farinata degli Uberti e Sordello, simbolici personaggi dell’amor di patria mentre sul manico vennero incise le sole parole: “Oleum lucet, fovet ignem”.

$(KGrHqF,!hME-YE6Vj84BPsrIh1D5g~~60_57[1]Dopo il paziente lavoro di Giovanni Mayer, l’ampolla votiva venne fusa dal cesellatore Pascoli con ben 12 chili di argento e trasformata in un opera di grande pregio e bellezza che sarebbe stato consegnata a Ravenna con una grande cerimonia.

Nonostante l’entusiasmo degli artisti triestini fosse stato funestato dalla morte di Felice Venezian (1851-1908, vicepresidente del Consiglio Comunale di Trieste e appassionato irredentista), il 13 settembre 1908 la preziosa lampada votiva fu consegnata a Ravenna tra un corteo di entusiasti patrioti esaltati dalle parole del nostro poeta Riccardo Pitteri (1853-19159) che non perse l’occasione per perorare la causa dell’irredentismo.

Nella foto: Piero Sticotti, Glauco Cambon, Riccardo Zampieri e Carlo Wostry consegnano il prezioso scrigno con l’ampolla dantesca a Ravenna.Autocertificazione 2301Da allora la generosa ampolla giace accanto all’antico sepolcro con le spoglie del grande poeta insieme a una ghirlanda di bronzo donata nel 1921 dai reduci della Grande Guerra “ad imperitura memoria”.

(Fonti: Wikipedia – Salvatore Sibilia, Pittori e Scultori di Trieste, Mgs Press Ed., 1993 – Carlo Wostry, Storia del Circolo Artistico di Trieste, Ed. Svevo, 1991)

(1) Le copie in gesso dei bozzetti della scultura sono esposti nella bellissima gipsoteca del Civico Museo Sartorio, Largo Papa Giovanni, Trieste.IMG_0387

Pierpaolo Luzzatto Fegiz

La prima Società di ricerche statistiche è stata ideata e realizzata dal nostro geniale concittadino Pierpaolo Luzzatto Fegiz.
Nato a Trieste il 9 giugno 1900, terzo di cinque figli dell’avvocato Giuseppe Luzzatto e Alice Fegitz, il giovane Pierpaolo dopo gli studi superiori si iscrive alla facoltà di Legge a Bologna, dove si laurea nel 1922 con una tesi sullo sviluppo demografico di Trieste.
Ritornato nella città natale, inizia a lavorare nello studio legale del padre dedicandosi anche alle sue passioni agonistiche (nel 1925 vincerà il campionato di canottaggio).

lobianco774La villa di famiglia Luzzatto-Fegiz in via Rossetti 42 (nota 1)

lobianco775Ma l’interesse per l’economia e la statistica lo spingerà ad accettare un’occupazione di assistente presso la medesima facoltà universitaria di cui nel 1926 ottiene la libera docenza e successivamente la cattedra di scienze statistiche. Qui si troverà però in un ambiente ostile causato dalle pressioni del fascismo che favorivano le carriere dei fedelissimi e allontanavano i sottoposti alle leggi razziali.
Allo scoppio della seconda guerra, Pierpaolo con la moglie Ivetta e i figli si trasferisce nella casa di Zabodaski, presso Lussino, assumendo da pendolare incarichi per conto dell’Istat.
Dopo la pubblicazione di diversi saggi e monografie scientifiche, Luzzatto Fegiz inizia a lavorare per “scongiurare gli errori commessi in passato, ritenendo che l’azione di un governo democratico debba essere confortata dalla conoscenza dell’opinione pubblica” (Lettere da Zabodaski).
Alla fine della disastrosa guerra i suoi ambiziosi progetti potranno essere realizzati con la fondazione della società Doxa che grazie alle azioni di amici e nomi prestigiosi inizierà a operare in piazza Duse di Milano il 15 gennaio 1946.
Con il referendum tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946 la Doxa condurrà un meticoloso sondaggio sulle intenzioni di voto su un campione di 5.000 intervistati. I dati pubblicati sulle principali testate nazionali susciteranno un interesse planetario.
Grazie a quel clamoroso successo, alla Doxa saranno affidati altri importanti incarichi che spazieranno tutte le componenti del tessuto economico e sociale.
Luzzatto Fegiz riuscirà però a conciliare gli studi statistici con l’incarico di preside alla Facoltà di Economia all’Università di Trieste che ricoprirà dal 1951 al 1960.
Ritenendo anche molto importante la conoscenza delle lingue straniere nelle relazioni internazionali, organizzerà la Scuola di Lingue Moderne (divenuta nel 1978 un’autonoma facoltà universitaria) per il raggiungimento del diploma di traduttore e interprete di conferenze.
Per i primi 10 anni della Doxa il prof. Luzzatto pubblicherà Il volto sconosciuto dell’Italia (Milano, 1956) composto da più di 1300 pagine di tavole statistiche sui temi riguardanti la struttura della società nel contesto familiare, lavorativo, economico, culturale e politico (argomenti poi ritrattati e ripubblicati nella nuova edizione del 1965).
Tra gli anni 1956-58 assumerà un ruolo di dirigente alla Camera di Commercio di Trieste con grandi aspettative per la riorganizzazione della Venezia Giulia dopo la disastrosa situazione post-guerra, ma i dissidi con il Governo centrale di Roma lo costringeranno alle dimissioni.

Dopo l’ordinamento del neo Centro di Calcolo all’ateneo triestino (anni 1961-‘62), Luzzatto Fegiz otterrà la cattedra di Economia e Commercio all’università di Roma, incarico che manterrà fino al 1975, anno del suo pensionamento accademico ma non certo lavorativo.
In occasione delle importanti elezioni del 20 giugno 1976 la RAI commissionerà alla Doxa le prime proiezioni di voto all’atto di chiusura dei seggi ottenute dai rilevamenti eseguiti su una rete di sezioni-campione. Gli scrutini sarebbero così iniziati tra i dibattiti televisivi di politici, politologi, e commentatori con un eccezionale successo di audience.
Nella sua lunga carriera Pierpaolo Luzzatto divulgherà gli studi sulle principali testate giornalistiche (Corriere della sera, La Stampa, Il Sole 24 ore, L’Espresso, Epoca) sondando tutti gli aspetti sociali, economici, politici del nostro paese in relazione agli orientamenti della pubblica opinione.
Delegando progressivamente la responsabilità della Doxa, ormai ben radicata in campo nazionale, l’instancabile docente-divulgatore riuscirà anche a dedicarsi alle sue passioni sportive tra il mare e le amate montagne.
Si spegnerà a Trieste l’11 agosto 1989.

(nota 1): Foto tratte da Una rosa per Joyce, Mgs Press, Trieste

Fonti:

Dizionario Biografico Treccani, 2007,

Trieste 1900-1999, Cent’anni di storia, Publisport Srl, Trieste

Concerto al Castello

Vestito di tutto punto e al meglio della sua eleganza, Rainer prese il quaderno con i recenti versi pensando di leggerli dopo il concerto, seppur proponendoli come bozza. Ne era sufficientemente soddisfatto e ritenne che potessero essere una presentazione di sé in deferenza all’ospitalità che gli era stata offerta.
All’ingresso del Salone trovò Marie, che allegra ed elegantissima, lo prese per mano e lo condusse verso i salotti laterali.
– Venga Rainer, Le presento mio marito, il principe Taxis, mio figlio Alexander, sua moglie Marie e…. – guardandosi attorno però, inaspettatamente scomparve.
– Ohh signor Ilke, che piacere! Mia moglie mi ha parlato molto di Voi. Ho saputo che amate la caccia! – disse il principe stringendogli vigorosamente la mano. – Siete arrivato proprio al momento giusto! Mi ero proprio stancato di prendere solo dei fagiani, sono così insulsi… Ora sui monti dell’Ermada stanno pascolando dei piccoli caprioli: loro sì che hanno una carne tenera e saporita! Questo è mio figlio Alexander, bel ragazzo vero? Un vero principe! E questa è mia nuora Marie… Non è deliziosa?
– Onorato… – disse Rilke spaesato, chinando la testa.
– Piacere mio, caro dottor Rilke – rispose il giovane Alexander. – Non sapevo Vi piacesse la caccia. Di solito i letterati la detestano quanto chi ama la musica, vero cara?
– I miei figli non potrebbero neppure pensare di…
– Vogliate scusarmi. – proferì il principe Taxis – Continueremo dopo. Lietissimo signor Ilke… – e si diresse verso una coppia che stava entrando, già accolta dalle attenzioni di Marie.
– Dunque, dottor Rilke… – continuò Alexander – Voi parlate perfettamente il francese, giusto? Mi chiedevo se Vi occupate anche di traduzioni… Conoscete Mallarmé? Lo conoscerete senz’altro, che domanda! Sapete, il mio francese è piuttosto buono e a leggerlo solitamente lo comprendo, ma Mallarmé è davvero ostico, non Vi pare? Pensando di tradurre una parola non si comprende bene il verso, e anche quando ci si riesce, sfugge il senso.
– Straordinario l’incontro della poesia con lo studio del verso! – rispose Rainer prontamente.
– Il fatto è che quando si termina il poema non si è capito quasi nulla.
– Potrebbe darsi fosse necessaria una rilettura.
– O potrebbe darsi non ci fosse molto da capire, perché vedete, carissimo Rilke, una composizione può essere musicale… Per scrivere ci sono gli scrittori, per meditare ci sono i filosofi…
– Il poema racchiude tutto ciò, Sua Altezza, in una sintesi che estrinseca la materia con il sovrasensibile, il reale con la “res sensibilis”, che congiunge la nostra anima con quella di tutte le cose intorno a noi.
– Interessante quanto mi dite. Insomma questo Mallarmé ha scritto una lirica, L’après-midi d’un faune, che io ammetto di non avere forse capito, ma quando Claude Debussy la musicò, ecco, la suggestione sonora prese la forma di quel bosco popolato da gnomi, folletti e incantevoli fate che danzavano accompagnate da soavi flauti…
– Voi pensate dunque che la visione sia stata di Debussy anziché di Mallarmè che gliel’ha ispirata? Non potrebbe invece essere un’immagine Vostra?
– Oh magnifico! Effettivamente sono delle forme d’arte e questo modo d’interpretarle è davvero geniale! È un nuovo linguaggio, un felice incontro poetico!
Io amo moltissimo la musica, ma trovo così difficili gli spartiti musicali e così dure le corde del violino… Mi esercito da anni, ma non sono mai riuscito a dominare del tutto quello strumento, vero cara? – e osservò la moglie che lo guardava adorante.
– La mia paziente consorte non solo sopporta le mie esercitazioni, ma mi incoraggia pure! Allora pensate di tradurre questo astruso Mallarmè?
– Per la verità sono già occupato nelle astrusità mie per riuscire a occuparmi di quelle degli altri! Ma Vi prometto che se trovo qualche buona traduzione già stampata, Ve la spedirò senz’altro.
Degli applausi interruppero la conversazione. I musicisti stavano entrando nel salone e occupati i loro posti, iniziarono ad accordare gli strumenti.
– Avete ricevuto il programma, dottor Rilke? – chiese Alexander. – Purtroppo il nostro quartetto manca del signor Janesich, momentaneamente indisposto, così si è pensato di eseguire un trio, il Klaviertrios di Schubert. Peccato però, avrei desiderato ascoltare il Quartetto in la minore di Beethoven, proprio l’ultimo. Difficilissimo pezzo musicale, già di rottura con gli schemi classici, quasi antesignano della musica di fine secolo, grandiosamente creata dai Russi e…
– Alexander, per favore! – sussurrò la moglie strattonandogli delicatamente il braccio.
– Certo cara. Lietissimo di averVi conosciuto dottor Rilke! Avremo molto da discutere fra poesia, musica, arte…
– Con vero piacere, Sua Altezza.
Cercando inutilmente un posto defilato e vicino alla porta d’ingresso, Rainer fu alfine costretto a sedersi nella prima fila, accanto alla principessa e a suo marito, già in assetto composto, immobile e come assente. Sbirciando il programma che Marie gli passò con un gran sorriso e vedendo che erano previsti solamente due pezzi, pensò che per fortuna i concerti privati erano piuttosto brevi, considerato che venivano seguiti dai ricevimenti.
Ma fin dalle prime battute del concerto, fu investito dalla esplosione di una musica così sonora da risultare quasi assordante per il suo udito ipersensibile e gli accordi polifonici erano talmente vigorosi da farlo ricredere sulla fama romantica di Schubert.
Osservò il leggero movimento dei tendaggi e pensò che le folate di bora dovevano aver provocato un certo eccitamento all’estro interpretativo. Oppure il frastuono era causato dalla particolare risonanza del salone, non troppo adatto per una musica che di solito si ascoltava nei teatri, mentre nelle sale private venivano giustamente eseguite musiche da Camera.
La risonanza del violoncello era talmente penetrante da sentirla rimbombare nei timpani e propagarsi nei polmoni, che nella ricerca di ossigeno, costringevano il povero muscolo cardiaco a un surplus contrattile. Il suo volto sembrò rinsecchirsi dal calore che si concentrava nelle meningi degli emisferi cerebrali, ormai del tutto starati.
Come la cavernosa voce del violoncello si fermava, partiva quella acuta del violino, per poi sovrapporsi entrambe ma seguendo ognuna il suo motivo, per di più inframmezzato dalle note del pianoforte che seguiva ora l’uno ora l’altro, oppure, peggio ancora, li sovrastava entrambi con un eccesso di toni forti. Ormai avvolto dal panico, avvertì che il suo sommovimento sensoriale stava debordando dall’arduo controllo psicofisico fino a degenerare in uno stato extracorporeo.
Dopo un indefinito tempo di tale supplizio, un pietoso tappo occluse le sue personali quanto silenti trombe d’Eustachio, ma la sensazione che ne derivò si rivelò peggiore del male che l’aveva causata. Quell’improvvisa afasia uditiva aumentò la pressione endocranica a un livello ormai prossimo allo scoppio.
Il risultato fu un senso d’irrealtà talmente terrificante che gli sembrò di essere stato colpito da una paralisi fulminea. In un abisso di terrore vedeva i musicisti agitare su e giù gli archi dei loro strumenti e il pianista picchiare furioso i tasti del piano da destra a sinistra, nella mostruosa eco di suoni deformi. Alle sue spalle percepiva la folla umana che ascoltava estasiata quell’orrore sonoro mentre lui ne era compresso come fosse in mezzo alla forza centripeta di una voragine.
Incollato alla sedia, si sforzò di aumentare la profondità del respiro, ma il diaframma bloccato dall’angoscia, lo costrinse a respirare con la bocca aperta, sperando che si paralizzasse anche il labbro superiore per evitare almeno il suo imbarazzante tic nervoso.
Dopo un indicibile tempo di tale sofferenza, i boati cessarono e il suono degli applausi lo riportò a una percezione acustica più normale.
– Che splendido brano musicale! – sentì dire distintamente. Girando con fatica il collo irrigidito, incontrò lo sguardo radioso di Marie che applaudiva con entusiasmo.
“E che fortuna non fosse stato di un quartetto… Essendo un trio, era mancato il quarto elemento per la dipartita finale” pensò ancora stravolto.
– Siete accaldato, Rainer! So che non è abituato al particolare sonoro di una sala! Ma hanno suonato divinamente, vero? Che affiatamento!!
Rilke abbozzò un sorriso e si sforzò di applaudire, incapace di proferire parola.
Le congratulazioni ai musicisti e i commenti fra gli invitati gli diedero comunque una certa tregua. Ancora immobile, cercava di riprendere l’assetto mentale, o più precisamente, di sbloccare il plesso solare collegandolo al centro cerebrale. I rumori della sala sarebbero stati accettabili se l’insieme vociferante non fosse stato quasi più fastidioso di quel persistente tappo acustico, ma ciò che ora lo preoccupava era il potersi ritrovare vis-à-vis con il principe Taxis e i suoi poveri caprioli… Ma che diamine, sarebbe bastato spiegare il malinteso, non doveva mica scusarsi. Piuttosto sarebbe stato più impegnativo l’incontro con il principe Alexander, così edotto in cultura musicale.
Comunque nessuno sembrava curarsi di lui e alzandosi lentamente, constatò di aver superato il malessere causato da quei fragori, pur necessitando di aria fresca.
Osservò le tende e si accorse che avevano ripreso il loro consueto aplomb, dunque presunse che la bora si fosse calmata, ma non poteva certo sparire dietro a esse per uscirsene come un ladro. Doveva piuttosto trovare un pretesto per defilarsi con una certa eleganza.
Vedendo gli ospiti impegnati a parlare fra loro e Annette che andava e veniva con i vassoi dello champagne, decise di affiancarla e seguirla; così semplicemente uscì, senza essere richiamato.
Percorso il corridoio, scese al primo piano e dopo aver attraversato il salotto rosso, aprì la porta finestra della terrazza.
Il tumulto ventoso della mattina era del tutto svanito, salvo qualche breve folata che si disperdeva verso un cielo limpido e stellato. Nel golfo ancora agitato, le onde si frangevano sulla scogliera, rincorrendosi verso i profili delle coste.
Si trovava davvero in una strana parte di mondo, in altre terre di Leidland con le loro antiche leggende, la memoria di anime tormentate che qui avevano vissuto, amato, sofferto. I suoi lidi emanavano odori di bosco ma le loro brume potevano essere foriere di raffiche furiose; i flutti del mare spargevano profumi di salsedine ma poi montavano in schiume rabbiose.
Qui si percepiva il respiro della terra, sia che fosse flagellata dai venti o accarezzata dalle brezze.
Levò lo sguardo verso le mura di quel castello così pulsante di vita, avvolto dal suono dei violini e dal coro degli uccelli.
Ripensò alla piccola fortezza di Muzot, alle sue valli smosse dalle leggere arie di collina, ai suoi silenzi sotto cieli infiniti, alle sue storie di vita e di morte.
“ Le sofferenze mi seguiranno ovunque io andrò. In tutte le terre di Leidland ritroverò i miei tormenti…” pensò con infinita malinconia.
Ridestandosi dal suo stupore, ormai pervaso da una grande pace, s’incamminò verso le finestre illuminate.

(Da “Le Terre di Leidland” inedito di Gabriella Amstici)

Trieste post-guerra

L’esito del primo conflitto mondiale aveva segnato il confine orientale del Regno d’Italia sulle Alpi ma il decisivo confronto italo-austriaco fu combattuto in larga parte nel Friuli che scontò un prezzo amarissimo: 15000 soldati persero la vita, 5000 rimasero invalidi, chiese ed edifici erano stati abbattuti, il 55% della superficie agraria era inutilizzabile, la zona dell’Isontino minata e il cantiere navale di Monfalcone distrutto.
In tutta la regione le sole spese per la ricostruzione dei danni di guerra sarebbero ammontate a ben 3 miliardi e 100 milioni di lire, una cifra enorme per l’epoca.
Il grande porto di Trieste aveva perduto un terzo di imbarcazioni mercantili e il sistema protettivo che lo aveva sostenuto. La popolazione era sconvolta dai lutti e privata di tutto il suo tessuto strutturale ed economico si trovava in uno stato di estrema povertà.
Nell’autunno del 1918 i socialisti rivendicarono la funzione strategica di Trieste proponendo la creazione di un piccolo stato indipendente ma la conquista della vittoria bellica esaltava il ruolo centralista e unitario dell’Italia nel suo contesto europeo che predominava sull’Adriatico, sui Balcani e sull’Istria.
Fin d’allora Trieste venne considerata più una terra di confine da difendere più che da ricostruire e infatti non solo mancò un piano organico per la sua riorganizzazione ma furono anche fortemente ritardati i risarcimenti dei danni di guerra.
Iniziarono così gli affari localistici inquinati da interessi privati e politici che accantonarono quelli più urgenti per una popolazione già così tanto provata.
Il crollo dell’impero austro-ungarico aveva provocato il collassamento delle attività portuali, private da tutti gli sgravi doganali che avevano contribuito alla fortuna dei suoi commerci e dai privilegi assecondati dagli Asburgo fin dai tempi di Carlo VI.
La Yugoslavia amplierà rapidamente le proprie attrezzature in Dalmazia, La Polonia potenzierà lo scalo di Danzica, l’Austria fonderà una nuova compagnia di navigazione ad Amburgo mentre i porti dell’Italia rappresenteranno una forte concorrenza sul versante Adriatico. Alla fine della guerra anche le riparazioni delle navi erano destinate agli scali alleati creando non pochi problemi sui termini della loro futura gestione. Solamente dopo forti pressioni e trattative diplomatiche gli armatori locali riusciranno ad aggiudicarsi il ripristino di gran parte della flotta apportando lavoro quantomeno negli arsenali e nell’indotto collegato.

La conferenza di pace di Parigi che aveva fissato i confini dell’Italia vittoriosa lasciò comunque aperta la questione del confine orientale che sarebbe stato definito da una trattativa diretta tra Roma e Belgrado. Il compito del governo militare italiano nelle zone di confine doveva però attuare delle procedure italiane senza poter mutare il sistema giuridico e istituzionale che rimaneva ancora quello asburgico.
Nonostante l’indebolimento economico causato dalla guerra la Venezia Giulia godeva infatti di una buona alfabetizzazione e di strutture sociali avanzate o addirittura all’avanguardia come gli ospedali e i ricreatori comunali. Abituata al rigore della burocrazia imperiale, Trieste mal si adattava alla confusione dell’amministrazione italiana con frequenti sovrapposizioni di competenze con la presenza di un sottobosco di trafficanti.
Dopo la conversione nel marzo 1919 delle vecchie corone con un cambio fissato a 40 centesimi di lira per corona – portato poi a 60 centesimi per le proteste dei giuliani e trentini – iniziò l’erosione dei capitali aziendali e un generale impoverimento delle finanze personali.
Fu questo il primo tassello di un progressivo attacco all’economia giuliana che nell’arco di una dozzina di anni si sarebbe del tutto collassata.

(Enciclopedia monografica del FVG, Udine, 1978 – 130 ANNI, “Il Piccolo”, Finegil Ed., Trieste, 2012)