Archivio mensile:novembre 2012

Il castello di San Servolo

Istra culture

Il castello di San Servolo (oggi Socerb in Slovenia) fu costruito in epoca medievale su un dirupo che dominava la valle di Zaule e tutta la zona del golfo di Trieste compresa tra i promontori dell’Istria fino alle lagune venete. La torre originaria venne eretta per arginare l’arrivo degli ungari che dalla prima metà del X secolo iniziarono a depredare i territori più floridi del centro Europa.

Signoria vescovile dal 948 fu poi ceduta al Comune di Trieste, divenendo ben presto luogo conteso fra Austria e Venezia. Nel 1368 cadde infatti in mano al comandante veneto Cresso Molin che vi edificò delle solide mura e un grande bastione rotondo. Dopo alterni cambi di proprietà con i triestini, verso la fine del Quattrocento tutta la vallata sottostante fino alla foce del torrente Rosandra, che segnava la proprietà austriaca, fu riconquistata dai Veneti. Dopo il consolidamento delle cinte murarie si dotò il castello di una capiente cisterna d’acqua per fronteggiare i lunghi assedi.

Con l’avvento del papa-guerriero Giulio II i confini fra Austria e Venezia divennero però incandescenti e tra Trieste e Muggia (di proprietà della Serenissima dal 1420) scoppiò una rabbiosa guerra per imporre la propria influenza e controllare il fiorente mercato del sale.

Nel 1508 l’esercito veneto dopo un bombardamento su Trieste con fuochi d’artiglieria riuscì a entrare nelle mura di Trieste e a impossessarsi della fortezza di San Giusto. Per reagire al dominio straniero e a una terribile epidemia di peste che decimò la popolazione, nel 1511 l’esercito imperiale guidato da Cristoforo Frangipani e i triestini capitanati da Nicolò Rauber raggiunsero la valle di Zaule con l’intento di espugnare i baluardi a difesa del confine veneto e sferrare l’assalto finale a Muggia. Dopo le prime conquiste le legioni si trovarono dinanzi la fiera resistenza dei muggesani che con il capitano Giovanni Farra e gli aiuti via mare degli istriani si batterono “come draghi” ponendo fine all’assedio.

Per i servizi resi all’Impero il capitano Rauber ottenne da Carlo V la Signoria di San Servolo ma già pochi anni dopo un esercito di 600 istri-veneti per volere del Doge attaccò tutta la piana di Zaule e distrusse le saline trasformandole in una palude improduttiva.

In seguito a un ulteriore battaglia che causò la perdita di ben 3000 fanti veneti, il castello fu acquistato dal capitano barone Benvenuto Petazzi, nominato nel 1630 conte di San Servolo.
Estinta la discendenza dei nobili Petazzi, la Signoria passò a varie famiglie italiane con alterne vicissitudini tra cui un incendio sviluppatosi all’interno delle mura per la caduta di un fulmine. Dopo diversi restauri la roccaforte venne abitata dal barone Demetrio Economo, ultimo proprietario prima della sua progressiva rovina per incuria.

Tra la foltissima vegetazione a valle della rupe di San Servolo è stato scoperto in tempi recenti un accesso nella sottostante grotta carsica che tramite un’oscura scala abbarbicata tra le rocce, in seguito purtroppo ostruita, conduceva alla sovrastante piazza d’armi, proprio come riferito nel celebre scritto del 1689 di J.W. Valvasor “Die Ehre des Hertzogthums Crain”.

Ai nostri giorni sopravvivono ancora le antiche mura di questo storico castello sferzato dalla bora, teatro di sanguinose battaglie e superbo dominatore di queste tormentate terre di confine, usufruito oggi come raffinato ristorante in stile medievale con una spettacolare terrazza intorno ai resti della sua torre.

Fonti:

Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Trieste, Lint, 2004
Dante Cannarella, Guida del Carso Triestino, Trieste, Ed. Svevo, 1980

Foto del Castello da www.istria-culture.com

Foto della grotta Enrico Halupca

L’eremo sotterraneo di San Servolo

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In prossimità dell’antico castello, sul margine di una piccola dolina a ridosso del ciglione carsico, si apre la Grotta di San Servolo dove per due anni si ritirò in eremitaggio il bellissimo figlio di Clementia e Eulogius della Gens Servilia. Dopo preghiere e digiuni, bevendo solo l’acqua di stillicidio raccolta in una pozza alla base delle stalagmiti centrali, il giovane Servolo rientrò a Trieste dove la leggenda narra che iniziò a operare guarigioni ed esorcismi fra la popolazione.
Martirizzato nel 284, i suoi resti vennero raccolti in un’urna conservata nella Cattedrale di San Giusto.
All’interno della grotta raggiungibile scendendo una rudimentale scalinata di pietra, è visibile il vano d’ingresso con un piccolo altare dove il 24 maggio venivano un tempo celebrate delle funzioni religiose in memoria della nascita di uno dei Santi protettori di Trieste.

Il castello di San Servolo in una stampa del Valvasor (1689)

Le grotte del Timavo nel cuore del Carso

Dal Belvedere ai bordi della parete occidentale che si affaccia sulla Grande Voragine di San Canziano (Škocjanske jame, oggi in Slovenia) si può ammirare uno dei più affascinanti fenomeni carsici d’Europa: l’ultimo balzo del Timavo prima di essere inghiottito dalle profondità della terra. Per chi volesse inoltrarsi in una parte del suo tortuoso percorso potrà osservare gli straordinari risultati dell’incessante lavoro della natura attraverso milioni di anni e gli eroici sforzi dell’uomo che hanno reso percorribile questo mondo sotterraneo di multiforme bellezza e di indimenticabili emozioni.
In un remotissimo passato il soffitto dell’enorme grotta si collassò formando la Velika dolina (la Grande Voragine con la grotta preistorica e quella detta degli scheletri) e la Mala dolina (Piccola Voragine) a tutt’oggi ancora comunicanti con un ponte naturale. Sopra le pareti a strapiombo che sovrastano l’inghiottitoio giace placidamente l’antico paese di San Canziano con il suo svettante campanile ben visibile dal Belvedere, proprio al di là dell’impressionante baratro dove dopo un tumultuoso percorso di 4 chilometri lungo una rigogliosa gola, il Timavo scomparirà percorrendo ben altri 34 prima di emergere dalle 3 bocche a San Giovanni di Duino per poi affluire nel mar Adriatico.
Dopo la discesa nella grande dolina e l’ingresso nelle cavità sotterranee, si verrà immediatamente catapultati in un’altra percezione del reale dove il tempo e lo spazio si perderanno in uno scenario sconosciuto e inafferrabile, immersi nei primordiali rifugi dell’uomo. Nelle cavità naturali delle pareti della Grande e Piccola Voragine furono infatti rinvenute sepolture preistoriche risalenti agli insediamenti del Mesolitico e Neolitico, databili tra l’8000 al 4000 a. C.; altri reperti risalgono all’età del rame e alla prima età del bronzo (tra il 3000 e il 1700 a.C.) quando iniziarono le attività votive e di culto proseguite fino all’età del ferro e successivamente nei secoli del dominio romano. Oltre la metà delle necropoli preistoriche oggi conosciute sul territorio carsico sono state scoperte proprio sui siti che circondano l’antichissimo fiume Timavo testimoniando il suo incommutabile fascino.
La maggior parte dei siti archeologici fu portata alla luce nel corso dei tre decenni che precedettero la Grande Guerra constestualmente all’esplorazione delle cavità sotterranee effettuate dagli speleologi dopo gli scavi condotti dal dott. Carlo Marchesetti (tra il 1903-1904) e dall’austriaco dott. Josef Szombathy.
Le più antiche cartografie di questa particolare zona carsica risalgono alla Carta del Lazius nel 1573 e il Novus Atlas del Mercatore nel 1637, mentre le prime esplorazioni del corso sotterraneo del Timavo furono compiute dal gesuita Imperato utilizzando delle sonde galleggianti immerse nelle acque vicine all’inghiottitoio. Nel 1689 lo scienziato-ricercatore Johann W.F. von Valvasor (Lubiana 1641 – Krsko 1693) scrisse per la prima volta un trattato illustrato sul presunto percorso ipogeo del Reka-Timavo dando inizio alle avanscoperte nei primi tratti del suo inabissamento. Solamente dopo l’Ottocento però furono intraprese le esplorazioni delle grotte di San Canziano da parte di coraggiosi pionieri come Lindner, Svetina, Hanke, Rudolf, Müller, Schmidl e tanti altri che si spinsero nel sottosuolo fino a 500 metri di profondità. Ma una violentissima quanto inaspettata piena del Timavo trascinò con sé tutti gli attrezzi faticosamente costruiti, comprese le tre imbarcazioni, dando una lunga battuta d’arresto alle arditissime ricognizioni.
Un punto di svolta avvenne nel 1884 con la costituzione della Sezione speleologica della Succursale per il Litorale, un sodalizio tra l’Associazione alpina tedesca e austriaca, che ottenne la gestione delle grotte. Sotto la direzione di un “triumvirato” composto da Anton Hanke, Josip Marinitsch e Friedrich Müller e l’aiuto di generosi abitanti locali, fu intrapresa una sistematica opera di avanzamento nelle caverne seguendo l’alveo del fiume. Ma gli sforzi necessari e gli ostacoli da superare furono di indicibile gravosità: il flusso torrentizio frammezzato da rapide e cascate con l’eventualità di improvvise piene costrinsero gli uomini a progettare delle “vie di scampo” perpendicolari che consentissero di raggiungere in poco tempo quote d’altezza non lambite dalle acque attendendo da posizioni scomode e rischiose il loro deflusso. Nel lento e laborioso avanzamento si sfruttarono le tecniche dell’alpinismo per superare le pareti a strapiombo e scandagliare le pareti o i soffitti delle gallerie laterali sfruttando le mensole naturali e incidendo scalini d’appoggio nella viva roccia. Vennero così apprestati sentieri ferrati, passerelle, ponti e arditi passaggi sospesi sopra le voragini. Nel 1887 venne superata la quattordicesima cascata nel canale di Hanke, nel 1890 fu raggiunta la Sala Martel e quindi la sponda del lago della Morte. L’ultima scoperta la Grotta del Silenzio, chiamata così perché sono del tutto assenti gli echi delle acque, ed è proprio da questa enorme cavità che attraverso una galleria artificiale inizia la traversata di questa affascinante parte del mondo sotterraneo del Carso.
I lunghi lavori all’interno degli antri ingegnosamente illuminati con fasci di luce che accendono le più spettacolari formazioni calcaree hanno ottimizzato i dislivelli e i passaggi più azzardati rendendo la visita del tutto sicura. A tratti sono comunque ancora visibili i primi passaggi scavati quasi a livello del fiume nella Valle dei Mulini e nella stupenda Caverna Michelangelo da dove filtra la luce del sole in uno scenario di sconvolgente bellezza. E la traversata sulla “passerella del gatto” (di Hanke) che a 90 metri d’altezza collega le due sponde dell’enigmatico fiume che schiuma le sue furiose acque in un continuo fragoroso vortice ci fa sentire quello “spiritus movens” che rimanda i perpetui echi della sua storia millenaria. E quando si esce dall’ultima caverna davanti lo squarcio che si apre ai piedi della Grande Voragine vengono in mente gli ultimi versi dell’inferno dantesco:
“Entrammo a ritornar nel chiaro mondo / Tanto ch’io vidi delle cose belle / che porta il ciel per un pertugio tondo: / E quindi uscimmo a riveder le stelle.”
Dal 1986 il Parco con tutta l’area delle Grotte di San Canziano è compreso nel patrimonio mondiale dell’UNESCO come riconoscimento del suo valore internazionale.

(Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Trieste, Edizioni Lint, 2004)
(B. Peric, Il Parco di Škocjanske jame, Ljubliana, 2003)

La grotta Michelangelo
Il ponte Hanke