Archivio mensile:ottobre 2012

Elegie rilkiane

Concluso il Libro d’ ore, liriche sospese tra le tensioni dello spirito e quelle dei sensi, intensamente vissute con Lou Salomé, il poeta Rainer Maria Rilke cerca nuove espressioni letterarie. Le vicende del pellegrino errante dei Quaderni di Malte Laurids Brigge testimoniano l’inizio di un percorso retrospettivo ma segnano anche una successiva “desertificazione interiore” che arresta la sua creatività.
In seguito all’incontro a Parigi con la principessa Marie von Thurn und Taxis nel dicembre 1909 e alla corrispondenza tra loro intercorsa, il 20 aprile 1910 Rilke raggiunge il castello di Duino, sulle ultime falesie della costiera triestina.
“So di aver pensato che ci doveva essere da qualche parte un castello e dovunque esso fosse, sarebbe stato proprio quello che io allora avevo cercato” rispose compiaciuto all’invito.

lobianco768Alloggiato nella stanza d’angolo tra la cappella e la sala affacciata sulla balconata sospesa sul mare, il poeta rimane immediatamente affascinato dall’atmosfera dell’antico maniero che dalla bianca scogliera domina il golfo tra le lagune venete e le vicine terre d’Istria.
Quando l’anno successivo la principessa Marie lo ospiterà per tutto l’inverno, riaffioreranno in Rilke quelle emozioni che sembravano perdute e si ritroverà immerso nelle memorie del leggendario castello aldilà dei confini del Leidland, dove la vita e la morte si compenetrano nelle segrete trame dell’esistenza.
La sofferta stesura delle Elegie duinesi si protrarrà per oltre dieci anni affiancata da varie profusioni letterarie ed epistolari a testimonianza della sua esistenza errabonda e inquieta, vissuta nella costante ricerca di quel “nessun dove” forse trovato nella silenziosa fortezza svizzera di Muzot.

Nella foto tratta dal libro Dottor Serafico, Editoriale Lloyd e LINT, Trieste, 1999 la principessa Marie Thurn und Taxis e Rainer Maria Rilke all’epoca del loro incontro.

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“Castello di Duino – aprile 1910″

“Rilke si risvegliò prendendo lentamente coscienza di dove fosse.
Sentendosi ottimamente riposato da quello che doveva essere stato un buon sonno, si alzò, raggiunse la finestra, e scostando il lembo di una tenda, vide i primi chiarori dell’alba. Chiudendo il bavero della vestaglia sul petto, aprì di poco l’anta, curioso di scorgere il panorama e prendere contatto con il paesaggio. Investito dall’aria odorosa di mare e dall’emozione di quelle felici visioni, decise di sfidare i gelidi albori e afferrare il respiro del giorno nascente.
Si vestì frettolosamente e indossato il cappotto, scese in silenzio cercando l’uscita verso la terrazza intravista al piano sottostante.
Appena giunse nel ballatoio del primo piano, fu fermato dalla voce di un uomo che risaliva la scalinata dal pianoterra.
– Buongiorno dottor Rilke! Avete bisogno di qualcosa?
– Scusate il disturbo, volevo prendere una boccata d’aria. Per la verità non sono abituato ad alzarmi così presto, ma neppure a vedere un’aurora come questa! Pensavo di raggiungere la terrazza ecco, ma non sembra cosa facile in un castello.
– Lo è invece, non hanno catene le porte verso il mare. Del resto chi volete che entri? Da qui si può solo uscire. Seguitemi, prego, siete ben coperto? Fa ancora freddo a quest’ora: le lagune portano un’aria umida e pungente.
Precedendo Rilke di qualche passo, attraversò il salone, e scostato il tendaggio, aprì un’anta della portafinestra.
– Desiderate che aspetti o magari potete chiudere Voi? Come vedete è molto semplice. Io dovrei scendere dai cavalli.
– Grazie mille, signor Carlo, scusatemi ancora.
Quando l’uomo si allontanò, Rainer uscì sulla grande balconata e si trovò sotto la volta indaco del cielo. Verso ponente, risplendeva ancora la luce rossastra di Marte, mentre la falce di luna impallidiva dietro le colline dell’Istria.
Accostatosi alla balaustra, scorse lo strapiombo della scogliera ancora nell’ombra. Decine di gabbiani si alzavano in volo per poi ricadere planando sulle onde che si rincorrevano verso le coste.
Un sibilo di vento proveniente dalle lagune attirò il suo sguardo verso una rocca avvolta da una folta vegetazione. Da un covo pietroso si levò all’improvviso il corpo di uno sparviero che, come spinto da una forza innaturale, eseguì una volata ad arco per poi precipitare in picchiata vicino a lui. Per un attimo Rainer ne incrociò il terribile occhio rosso e d’istinto indietreggiò impaurito, ma l’uccello, con un rapido battito d’ali, si rialzò virando, e scomparve tra i boschi alle spalle del castello.
Verso occidente, aldilà del promontorio roccioso da cui era apparso il rapace, le isole lagunari si allungavano come una barriera naturale del golfo, mentre dietro a esse, la distesa pianeggiante si perdeva fino ai monti alpini ancora innevati, che nella foschia del mattino, sembravano irreali e come sospesi fra il cielo e la terra.
“Profili di vette, creste di tutto il Creato, rosse d’aurora….”(1)
Levando lo sguardo verso un assembramento di rondini di mare, ascoltò i loro striduli canti e il rumore ritmico delle onde. L’eco dei suoni si perdeva verso la scogliera e la lontana città bianca.
Ogni cellula del suo corpo era protesa a cibarsi di una nuova linfa che sentiva scorrere.
“ Getta le tue braccia al vento! Agli spazi che respiriamo….” (2)
Assorto e perduto, sentì offuscarsi quella visione sotto l’umido degli occhi.

Rientrato nella sua stanza si sedette al tavolo, dove trovò già predisposto il necessario per scrivere.
Dopo una decina di pagine, s’avvide del giorno ormai fatto.
Non avrebbe voluto interrompere quel flusso di sensazioni che sgorgavano più veloci di quanto la sua penna scorresse sul foglio, ma non intendeva ritardare la colazione con la principessa Marie, dopo la sua deludente presenza della sera prima.
A malincuore posò la penna e ripose gli scritti nella cartella verde.”

1 – 2 “Elegie duinesi
(tratto da “Le terre di Leidland” inedito di Gabriella Amstici)

Il Museo Teatrale “Carlo Schmidl”

Figlio di un direttore di banca trasferitosi da Budapest, Carlo Schmidl nacque a Trieste il 7 ottobre 1859 e qui iniziò a lavorare in un negozio di musica, in seguito da lui stesso rilevato, che originò la sua grande passione per il teatro e tutte le collezioni che lo riguardassero. Nella sua lunga attività lo Schmidl raccolse una tale quantità di materiali sull’ambiente musicale da pubblicare il Dizionario Universale dei musicisti (Ed. Sonzogno, Milano, 1888) che ancora oggi rappresenta un validissimo testo conoscitivo.
Nel 1913, sull’onda degli entusiasmi per la fondazione del Museo Teatrale alla Scala di Milano e di quello goldoniano a Venezia, lo Schmidl iniziò a progettare una cimelioteca che testimoniasse la memoria storica del Teatro Verdi di Trieste. Dovrà però attendere il primo dopoguerra per riuscire a stipulare un accordo con il Comune e trasferire le sue consistenti raccolte in alcune stanze del teatro. La nuova istituzione aprirà i battenti il 20 dicembre 1924 con il nome “Museo del Teatro Comunale Giuseppe Verdi” gestito da un Curatorio e dallo stesso Schmidl fino al 1943, anno della sua morte.
Dal 1946 la direzione verrà affidata a Silvio Rutteri (già amministratore dei Civici Musei di Storia e Arte) con il titolo di “Civico Museo teatrale di fondazione Carlo Schmidl” che verrà collocato fino al 1991 a Palazzo Morpurgo di via Imbriani.
In ottant’anni di attività il Museo Teatrale amplierà notevolmente le proprie raccolte diventando un insostituibile centro di documentazione storica dello spettacolo nel Friuli-Venezia-Giulia nella sede definitiva del prestigioso Palazzo Gopcevich. Ristrutturato dopo il 1850 dall’architetto Giovanni Berlam (1823-1892) e sopraelevato di ulteriori 2 piani, lo splendido edificio dalla singolare facciata bicolore a motivo geometrico si erge di fronte al Canal Grande e dal terrazzo neoclassico si gode la vista di tutto il golfo.
Tra i più importanti del suo genere in Europa, il Museo Teatrale Schmidl possiede una notevole raccolta di strumenti musicali, costumi di scena, centinaia di spartiti e partiture musicali, copioni, e archivi personali donati dagli artisti al Teatro Verdi e allo Stabile di Trieste.
Il percorso del primo piano, che si snoda fra stanze dai soffitti riccamente decorati in stucco e tempere e dai pavimenti in legni pregiati con preziosi intarsi di madreperla, è dedicato alla storia degli edifici teatrali e ai protagonisti della musica e dello spettacolo lungo un arco di 2 secoli.
Un settore dell’esposizione è dedicato alla raccolta di strumenti musicali sia europei che extraeuropei e in un altro è stata fedelmente ricostruita la bottega del liutaio triestino Francesco Zapelli.
Il secondo piano oltre all’archivio personale del grande regista triestino Giorgio Strelher (1921-1997) acquisito nel 2005 per donazione delle due eredi, espone quadri di cantanti, attori e musicisti e alcuni bozzetti degli allestimenti scenografici, costumi originali di opere, operette e spettacoli di prosa nei teatri triestini ormai scomparsi (Armonia, Filodrammatico, Mauroner e Fenice).
Il Civico Museo è dotato di un Centro di documentazione multimediale, di una Fototeca e di una ricca biblioteca costituita da 100.000 pezzi specializzati in musica e spettacoli e da una ricca sezione di spartiti e libretti d’opera.
Nella Sala Leonardo al pianterreno, vengono allestite mostre di rilievo nazionale ed internazionale.

Fonte: Enciclopedia tematica del FVG

Gli ultimi tragici giorni di Massimiliano d’Asburgo

È la notte del 14 maggio 1867. In una stanza del convento di Santa Cruz Massimiliano cerca di riposare in stato di totale stordimento dopo una terribile crisi di dissenteria. Improvvisamente irrompe Miguel López, il colonnello traditore dell’esercito repubblicano, annunciandogli che l’esercito di Juárez sta circondando Querétaro e che deve immediatamente fuggire. Nonostante la fiacchezza Max si veste e con pochi fedelissimi avanza a piedi verso Cerro de Campanas, alle porte della città, dove si erano riuniti i suoi restanti 100 soldati. Ad un tratto dalla collina rocciosa avvolta dal buio, divampano i fuochi di una tremenda sparatoria. López scompare nella notte e per Massimiliano è la fine: innalza la bandiera bianca e si consegna al generale Escobedo. Mentre attraversa la città i combattenti repubblicani ormai vincitori cantano sprezzanti “Adiós mamá Carlotta” sull’aria della Paloma. Imprigionato nel convento di Santa Cruz, sono sufficienti due giorni per la sua condanna a morte sentenziata da Benito Juárez tra l’indifferenza del governo degli Stati Uniti e l’impotenza degli imperatori d’Europa.
Nella lettera d’addio alla madre, l’arciduchessa Sofia, Massimiliano dichiara di essere stato tradito dopo una valorosa resistenza e invia l’affettuoso commiato ai suoi fratelli, parenti e amici cui lascia degli oggetti in suo ricordo. Al suo carnefice Juarez chiede che in nome della pace e della prosperità il suo sangue sia l’ultimo versato su quella terra sventurata.
Il 19 giugno 1867, svegliato alle tre del mattino per essere giustiziato, si veste di nero e trova la forza di consolare il suo confessore padre Soria e i fedeli domestici Blasio e Grill sciolti in lacrime.
Accompagnato in carrozza a Cerro de Campanas, il luogo della resa, giunge davanti al plotone d’esecuzione con 2 generali condannati insieme a lui, Massimiliano consegna una moneta d’oro a ognuno dei soldati prima di essere fucilato a morte.
Il suo cadavere sarà poi consegnato al dott. Liera per l’imbalsamazione ma le pratiche di costui saranno talmente inadeguate che il corpo andrà in putrefazione. Chiamati altri medici per cercare di riparare i danni, incastreranno degli occhi di vetro al posto di quelli ormai liquefatti richiudendo infine la salma deturpata in una cassa di legno per affrontare il viaggio verso l’Europa.
Il comando della fregata “Novara” la mitica nave con cui l’arciduca compì il giro del mondo (1857-59) e raggiunse il Messico con la giovane moglie Carlotta (29/5/1864) verrà affidato all’ammiraglio Wilhem von Tegetthoff dopo lunghe trattative. Imbarcata a Veracruz il 26 novembre 1867, arriva al molo San Carlo di Trieste la sera del 15 gennaio 1868. La mattina seguente la bara circondata da torce mortuarie e la statua di un leone piangente viene adagiata su un catafalco ricoperto da drappi neri. Ai 21 colpi di cannone risponderanno le batterie del porto e le campane di tutta la città. Il mesto corteo attraversa piazza Grande, il Corso, la via Sant’Antonio (oggi via Dante), passa davanti la Caserma proseguendo per via della Torrente (oggi Carducci) verso la Ferrovia Meridionale dove il feretro sarà issato su un treno speciale per Vienna.
Nella cappella della Hofburg tappezzata a lutto, l’arciduchessa Sofia inorridita dalla maschera grottesca dell’amatissimo figlio e sconvolta dal dolore, lo veglierà per l’intera notte.
Il 18 gennaio 1868, dopo il solenne funerale, Ferdinando Massimiliano d’Asbugo, arciduca d’Austria, governatore del Lombardo – Veneto, Imperatore del Messico per 3 anni e 70 giorni, sarà infine inumato nella Cripta dei Cappuccini.

(Michele di Grecia, “L’imperatrice degli addii”, Milano, Mondadori, 2000)

I tormenti di Carlotta del Belgio

Figlia del re del Belgio Leopoldo di Sassonia-Coburgo, la principessa Charlotte nasce a Laeken il 7 giugno 1840 e vive un’infanzia felice fino ai 10 anni. Dopo la prematura scomparsa della madre Luisa d’Orléans subisce passivamente l’influenza religiosa e severa dei suoi educatori che le infonderanno un opprimente senso del dovere in aggiunta a quello già imposto dal titolo nobiliare.
Quando nel luglio 1857 sposa a soli 17 anni l’arciduca Ferdinando Massimiliano d’Asburgo, il biondo e affascinante fratello dell’Imperatore Francesco Giuseppe, ella non si aspetta che uno splendido avvenire tra la corte austriaca e l’amatissima Italia.
Dopo il provvisorio alloggiamento al Gartenhaus, il castelletto nel parco di Miramare, i giovani sposi si trasferiranno nel bianco, incantevole castello sul mare. Ma proprio tra quelle sfarzose stanze l’arciduchessa vivrà i suoi primi tormenti in attesa dell’irrequieto marito sempre alla ricerca di interessanti progetti fra Vienna e Trieste. Dopo soli tre anni di matrimonio la giovane Carlotta s’incupisce e abbandona il letto nuziale per motivi mai chiariti ma che hanno alimentato una serie di sospetti e illazioni sul comportamento libertino di Massimiliano. Certo è che non furono mai esternate critiche o lamentele, anzi, la nobile coppia dichiarò sempre il reciproco affetto anche nel corso delle loro tragiche vicende. Così quando all’arciduca verrà proposta la corona del Messico, affronteranno apparentemente uniti l’ambizioso progetto dedicandovi tutte le loro giovani energie.
Ma nessuno sarebbe mai riuscito a portare a buon fine quell’insensato compito che incombeva su Massimiliano, inadatto al comando eppur designato Imperatore in uno stato sconvolto dalle insanguinate guerriglie interne. Quando l’imperatore di Francia Napoleone III per scongiurare il pericolo di una guerra con gli Stati Uniti, ritirerà le sue truppe dal Messico, la sorte del giovane sovrano è ormai segnata.
Dopo essersi data anima e corpo alla causa di quell’assurdo impero oltreoceano, la povera Carlotta tenterà di chiedere un estremo aiuto alle corti d’Europa. Dopo un torrido viaggio da Veracruz a Parigi e l’umiliante rifiuto di Napoleone III, il 25 settembre 1866 giunge a Roma febbricitante e piena d’angoscia. Dopo essersi prostrata ai piedi di papa Pio IX supplicando l’intercessione con l’imperatore di Francia e ricevuto l’irremovibile diniego, sfinita e disperata esploderà nella prima grave crisi nervosa. Dopo una terribile notte in Vaticano trascorsa in stato di grande agitazione, il 9 ottobre 1866 farà ritorno a Miramare con la mente ormai sconvolta. Inizia a rifiutare il cibo ritenendolo avvelenato, ha crisi di riso convulso, vede gli spettri dei Cavalieri dell’Apocalisse (ricordo del pauroso disegno del Dürer riprodotto in varie edizioni a casa del padre a Laeken), abbandona i suoi svaghi prediletti, percorre turbata e confusa le stanze del castello, corre nei viali del parco o sul moletto della sfinge aspettando l’arrivo del suo Max. Condotta al Gartenhaus (la prima residenza dei giovani sposi) viene rinchiusa in assoluto isolamento tra porte e finestre sbarrate. Per volere dell’imperatore Francesco Giuseppe tutta la corte di Miramare viene sciolta e collocata altrove.
La giovane sovrana sprofondò così in un lento, progressivo deterioramento che appassì il suo ancora giovane corpo reso probabilmente sterile da una malattia contratta da Massimiliano nei primi anni di matrimonio, quando furono evidenti i suoi comportamenti libertini. Con il tempo le crisi di Carlotta tuttavia si attenuarono concedendole dei momenti di lucidità in cui riemergevano le passioni dei tempi felici.
Dopo quei tristissimi mesi di prigionia, ai primi di giugno del 1867 il giornale “L’Osservatore Triestino” riporta due gravissimi fatti: la condanna a morte di Massimiliano e il suicidio di Amalia Stöger, la 33enne moglie separata del tappezziere di Corte e dama di compagnia di Carlotta, impiccatasi in una stanza del castello con 8 giri di laccio intorno al collo. Immediatamente circolarono voci sul suo folle amore verso Massimiliano e il ritrovamento di alcune lettere da lui stesso inviate ne dimostrerebbero la corresponsione. Ancora più inquietante fu l’ipotesi che la Stöger fosse tormentata dai rimorsi per aver somministrato all’imperatrice un veleno che minò la sua ragione. Comunque dopo questo terribile fatto alcuni medici che cercavano di curare la malattia di Carlotta, presero in considerazione l’ipotesi di un possibile avvelenamento avvenuto prima della sua partenza dal Messico. Fu menzionato il “toloache” o “toloatzin” (datura stramonium) oppure il terribile “veleno dei Vaudoux”, una particolare droga del tutto insapore capace di disgregare progressivamente la psiche. Le crisi d’angoscia alternate a uno spasmodico bisogno di solitudine, il rifiuto del cibo e l’ossessione dell’avvelenamento, tutti sintomi manifestati da Carlotta, erano infatti le conseguenze di quella sostanza estremamente tossica. La tesi dell’avvelenamento fu sostenuta dall’illustre neurologo dott. Bolkens, inviato a Miramare dal re Leopoldo II, e dal medico austriaco Riedel, come risulta da un rapporto firmato da Joaquin Garcia Miranda conservato a Madrid e nell’archivio del Consolato di Spagna a Trieste.
Del resto non mancherebbero le supposizioni per spiegare l’inumano trattamento riservato all’infelice imperatrice, forse destinata a essere allontanata dall’abulico e irresoluto Massimiliano per aver intuito le cospirazioni ordite (e forse pagate) dal governo degli Stati Uniti. Meno attendibili sarebbero invece le implicazioni di natura sentimentale, indubbio diversivo del ricco arciduca, e la presunta gravidanza segreta di Carlotta la cui diagnosticata sterilità fu semmai una delle sue afflizioni.
Le notizie del pietoso stato della povera imperatrice giunsero comunque alla famiglia reale di Bruxelles solo dopo la fucilazione di Massimiliano. Sarà però necessario l’intervento di Francesco Giuseppe per ottenere l’autorizzazione a ricondurla al castello di Laeken dov’era nata e vissuta fino al giorno del suo sventurato matrimonio. Partita da Miramare il 29 luglio 1867, Carlotta non vi farà più ritorno. Solamente nel gennaio1868 verrà informata della morte del marito ma dopo un’inaspettata reazione benefica ripiomberà nella demenza.
Il 31 marzo 1879 un nuovo fatto sconvolge la famiglia reale belga: un terribile incendio avvolge le stanze del castello di Tervueren proprio durante un soggiorno della trentanovenne imperatrice. Fu la regina Marie-Enrichette a soccorrere la sorella riportandola nuovamente a Laeken. Qui rimarrà fino all’ultimazione del castello di Bouchout (tra Bruxelles e Laeken) che il fratello Leopoldo II aveva acquistato per lei.
In questa severa fortezza tardo-gotica, rinchiusa da altissime mura e circondata dall’acqua, la nostra Carlotta trascorrerà in solitudine il resto della sua lunga vita, trovando una certa tranquillità tra le letture, il riordino dei documenti portati dal Messico e le passeggiate nel parco. “Egli era così buono il mio Max! Tutti l’amano tanto…” ripeterà spesso ad alta voce. Ma si potrebbe supporre anche la consapevole rassegnazione al suo destino quando talvolta avvertirà i suoi interlocutori: “Non fate attenzione, signore, se si sragiona… Un grande matrimonio, signore, e poi la follia. Ma la follia è fatta dagli avvenimenti…”.

Alle 7 del mattino del 19 gennaio 1927, dopo un indebolimento generale, una paralisi alle gambe e un’agonia di 28 ore, Carlotta raggiungerà finalmente la sua pace.
Il 22 gennaio la sua bara bianca circondata dai fiori attraverserà le tristi brume coperte dai fiocchi di neve per essere tumulata nella cripta reale di Notre-Dame di Laeken.

(Oscar de Incontrera “L’ultimo soggiorno dell’Imperatrice Carlotta a Miramare” 1937, Biblioteca di Storia e Arte, Palazzo Gopcevich, Trieste) 

 

E’ in preparazione un articolo più dettagliato di cui si forniscono le documentazioni  

Dopo lunghe ricerche presso il Regio Consolato di Spagna a Trieste Oscar de Incontrera trovò l’ interessante carteggio di Gaetano J. Merlato (nota 1) (Trieste 1807 – 1873) bibliotecario-segretario di Domenico Rossetti (1774 – 1842), dal 1838 cancelliere del console don Sebastiano Vilar, viceconsole di don Adolfo Guillemard de Aragòn negli anni 1857-1865 e successivamente  di don Joaquin Garcìa Miranda che fu console dal 1865 al 1868 per poi trasferirsi nello Stato Pontificio.

Per le documentazioni che riguardano l’ultimo soggiorno dell’Imperatrice Carlotta e stilate poi da Garcìa Miranda, il Merlato si avvalse anche dalle relazioni con personaggi dell’entourage dell’Imperatrice fra cui alcuni dei delegati che nel 1864 offrirono a Massimiliano d’Asburgo la corona del Messico.

Su alcuni fatti che effettivamente avvennero durante i 10 mesi di segregazione di Carlotta a Miramare, Oscar de Incontrera si avvalse anche dalle notizie riportate in famiglia dal nonno Giovanni, chef de cuisine alle dipendenze di Massimiliano d’Asburgo e che seguì Carlotta nel suo drammatico viaggio da Veracruz, divenendo uno dei testimoni del suo ultimo soggiorno triestino fino alla sua partenza per il Belgio.

Già dopo l’inutile inutile colloquio a Parigi con Napoleone III e il momentaneo ritorno di Carlotta a Miramare sfinita dalla stanchezza, il viceconsole Merlato comprese la gravità della situazione e convinse il console Garcìa Miranda, giunto a Trieste da soli 4 mesi, a riferire i fatti alla Regina di Spagna. Isabella II però ritenne di non dare alcun incarico al consolato limitandosi a ringraziare per gli accurati i rapporti che le erano pervenuti.

 

Ma questi fatti pur gravissimi sommati all’allontanamento forzato dal marito a cui è certo fosse legata da un grande affetto e poi da uno struggente rimpianto in aggiunta alla comprensibile delusione di un Impero per sempre perduto, potrebbero essere sufficienti a ritenere davvero pazza la sfortunata regnante, o avvenne qualcos’altro di ancora più drammatico della cinica indifferenza della corte asburgica, francese, spagnola e vaticana? E se pure la situazione fosse stata, come effettivamente è stata, così perversamente ostile alla nobile coppia da indurre Carlotta a un grave crollo di nervi, è credibile che non avesse potuto riprendersi recuperando il senso della realtà? Se esistono diverse e come vedremo discutibili notizie sull’esordio della malattia nulla invece fu riferito di quanto veramente avvenne nei 10 mesi di reclusione al Gartenhaus se non illazioni e pettegolezzi, ritenendo quindi che le pazienti ricerche di Oscar de Incontrera sulle relazioni del consolato spagnolo e dei medici inviati da Massimiliano stesso inducano a riflettere su alcuni inquietanti indizi.    

 

Gossip storici a Trieste

Giacomo Casanova (Venezia 1725 – Dux 1798)

lobianco767Giunto a Trieste il 15 novembre 1772 pernottò una stanza nella Locanda Grande di Trieste. Preso subito contatto con le cortigiane e i cicisbei del bel mondo cittadino, lo sfrontato cavaliere veneziano ricevette però il rifiuto alle sue avances da una bellissima giovane di nome Zanetta. Già anziano e malato, il Casanova dovette accontentarsi di una contadinella goriziana senza però rinunciare, da buon avventuriero, a ingraziarsi le autorità locali con ogni sorta di traffici e sotterfugi. Nell’attesa della grazia da parte del Cosiglio dei Dieci di Venezia dopo la sua avventurosa fuga dai Piombi, scriveva indefessamente cercando di procurarsi del denaro con cui vivere.

Ottenuta la grazia arrivò nel novembre del 1774 riuscì a ritornare a Venezia ma dopo essere stato definitivamente esiliato nel 1783, continuò la sua odissea esistenziale fino alla morte, avvenuta nel castello di Dux in Polonia nel 1798.

(Da un articolo della rivista La Bora, Trieste, 1978 – Foto da Casanova a Trieste, Luglio Editore, Ts 2015)

 

Napoleone Bonaparte (Ajaccio 1769 – Isola di Sant’Elena 1821)

Napoleone[1]Ventottenne e già generale del Corpo d’armata fu di passaggio a Trieste il 29 e 30 aprile 1797. Dallo storico balcone di palazzo Brigido (attualmente in via Pozzo del Mare, 1) affacciato su Piazza Grande (oggi dell’Unità) assistette a un’improvvisata parata militare in suo onore con un terribile mal di denti. Già di pessimo umore si offese moltissimo quando ricevette in dono dalle autorità municipali un cavallo lipizzano poiché la larga e possente schiena della pregiata razza equina non gli avrebbe permesso una dignitosa monta a causa della sua altezza (1,55 m.) e delle sue gambe troppo corte. Durante la brevissima permanenza in città ebbe comunque modo di compiacersi osservando le fortificazioni costiere erette da Maria Teresa d’Austria.

(Tratto da: Halupca-Veronese, Trieste nascosta, Lint, Trieste,2009)

René de Chateaubriand (Saïnt-Malo 1768 – Parigi 1848)

François-René_de_Chateaubriand_by_Anne-Louis_Girodet_de_Roucy_Trioson[1]L’illustre precursore del romanticismo francese, giunse a Trieste a mezzanotte del 29 luglio 1806. Alloggiato nella centrale Locanda Grande contattò il console Louis Maurice Séguier per trovare una nave diretta a Smirne. Durante la sua breve permanenza Chateaubriand ebbe comunque modo di conoscere la borghesia triestina (fu ospite del Governatore austriaco e di Pietro Sartorio) e di visitare San Giusto omaggiando la tomba delle figlie di Luigi XV, rifugiate a Trieste nel 1799 dopo la fuga da Parigi. Il letterato visconte partì all’alba del 2 agosto: il suo viaggio sarebbe durato un anno.

(Da un articolo della rivista La Bora, 1978)

Stendhal, ovvero il grande romanziere Henry Beyle (Grenoble 1783 – Parigi 1842)

Stendhal_par_Ducis_en_1835[1] Giunse a Trieste il 25 novembre 1830 con la nomina di console di Francia. Pernottato l’albergo “Zum schwarzen Adler” di via San Spiridione 2, lo sconosciuto ospite fu però subito notato dalla polizia asburgica che con serrati pedinamenti rese alquanto sgradevole il suo soggiorno. A peggiorarlo contribuirono anche le sferzanti folate di bora, i mancanti successi amorosi con la cantante Carolna Ungher e madame Goeschen e inoltre le non apprezzate tradizioni culinarie servite a suo dire da camerieri “levantini”. Il soggiorno di Stendhal durerà comunque solo tre mesi e dopo aver ricevuto la nomina di ambasciatore partì per Civitavecchia il 24 dicembre 1830. Da qui, dopo un’altra cocente delusione, deciderà di tornarsene ai suoi quartieri parigini.

(Trieste nascosta, ibid. – Foto di un ritratto di Louis Ducis, 1835)

Eleonora Duse (Vigevano 1858 – Pittsburg 1924)

mostra_d3[1]Appena diciottenne ma già animata dal furor sacro della recitazione, Eleonora Duse venne scritturata nel 1876 come seconda attrice nella compagnia di Adolfo Drago. Tutt’altro che avvenente e troppo enfatica per il gusto del tempo, la Duse raccolse un amaro fiasco per di più rafforzato dai rimbotti del regista e dei colleghi. Nel 1884, già affermata come attrice, ritornò a Trieste con un ingaggio per tutta la stagione di prosa ma continuò a essere contestata da una parte del pubblico per la sua recitazione e le sue pose ancora eccessive. Con apprezzabile autocritica la Duse seppe tuttavia correggere le sue impostazioni troppo marcate e in seguito riuscì a trasmettere grandi emozioni attraverso i personaggi dell’Adriana Lecouvreur e de La Locandiera. Quando due anni dopo ritornò con la Compagnia della Città di Roma, esplose anche a Trieste il più sfrenato entusiasmo consacrando Eleonora Duse alla sua fama immortale.

(Da La Bora, ibid)

Giosuè Carducci (Valdicastello 1835 – Bologna 1907)

00208430[1]Il celebre poeta organizzò un furtivo viaggio a Trieste assieme alla sua musa ispiratrice Lina (Carolina Cristofori in Piva, madre di 3 figli e moglie di un funzionario statale di Rovigo). I due amanti giunsero il 7 luglio 1878 occupando in incognito una stanza dell’albergo “Buon Pastore” (attuale “Hotel Continentale” di via San Nicolò). Ma già il giorno dopo vennero scoperti da un cronista del giornale “L’Indipendente” e la notizia della loro presenza si sparse in un battibaleno. Accompagnati da Attilio Hortis e Giuseppe Caprin, la coppia visitò la città sempre applauditi da una folla festante e chiassosa che non li entusiasmò affatto. Dopo soli quattro giorni il Carducci senza dar a vedere la sua contrarietà partì fra i gioiosi arrivederci dei triestini, ma non ritornò mai più a Trieste.

Il grande poeta in occasione della sua visita a Miramare omaggerà però il fascino del suo bianco castello e la memoria del “puro, forte, bel Massimiliano” nella stupenda elegia delle Odi barbare “Miramar” (1878).

(Trieste nascosta, ibid.)

James Joyce (Dublino 1882 – Zurigo 1941)

crop-e1397934768850[1]L’eccentrico scrittore irlandese arrivò a Trieste nel 1905 facendo immediatamente notare la sua presenza alla polizia. Appena sceso dal treno con la sua fedele Nora Barnacle, nel giardino della stazione centrale s’imbatté casualmente in una zuffa tra marinai inglesi e austriaci e pensando bene di aiutare i suoi compatrioti si buttò nel mucchio. Joyce trascorrerà così la sua prima notte a Trieste in galera mentre Nora attenderà pazientemente il suo ritorno seduta in una panchina. (Da La Bora, ibid)

Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Val-mont 1926)

helmut-westhoff-portrait-of-rainer-maria-rilke-1901[1]L’inquieto e tormentato poeta boemo approdò a Trieste nel 1910 come ospite della principessa Marie Thurn und Taxis nel Castello di Duino. Per quanto la memoria storica dei suoi lunghi soggiorni triestini vanti l’ispirazione delle sue “Elegie duinesi” alle suggestive atmosfere delle bianche falesie e al fascino dell’antico castello sul mare, Rilke non lo amò mai veramente apprezzandone piuttosto la ricca biblioteca e le frequentazioni dei suoi coltissimi salotti dove poteva incontrare il fior fiore dei letterati. In una lettera del marzo 1912 a Lou Salomé, sua ex-amante e divenuta poi una sincera e affettuosa amica, Rilke si lamentava infatti della desolazione che lo opprimeva e del pessimo clima della zona, incolpandolo (ma ironicamente compiacendosene) dello stato della sua salute. “Questa costante alternanza di bora e scirocco non fa bene ai miei nervi e perdo le forze nel subire ora l’una ora l’altra” scriveva nella lettera a Lou. E ancora: “È vero, Duino non mi ha mai fatto bene, quasi ci fosse qui troppa elettricità dello stesso segno che mi sovraccarica, proprio il contrario della sensazione che sento al mare” (nota 1).

Nella sua vita errabonda Rilke, ormai gravemente ammalato, troverà la sua pace nel clima mite e secco del Vallese (Svizzera), recluso nel suo castelletto-fortezza di Muzot. Ma conclusa la sofferta stesura delle mitiche “Die Duineser Elegien” e consapevole della sua imminente morte, pieno di riconoscenza per la dolce e romantica principessa Marie che tanto generosamente lo aveva ospitato e sostenuto, le donerà la proprietà del manoscritto (attualmente conservato nell’Archivio di Stato di Trieste) con una dedica che apparirà su tutte le edizioni dell’opera.

lobianco266(1) Fonte Epistolario 1897-1926, La Tartaruga edizioni, Milano,2002