Archivio mensile:agosto 2012

L’Oledotto Transalpino

Dopo la vertiginosa richiesta di petrolio negli anni Cinquanta diventò necessaria e urgente la costruzione di oleodotti per consentire l’inoltro del greggio importato via mare alle raffinerie dei centri industriali.

L’interesse della regione si concentrò subito sulla Zona Industriale di Zaule, nella periferia est di Trieste, e sul terminale marittimo dell’impianto ubicato nella piccola baia di Muggia. Il centro di stoccaggio fu dotato di 15 grandi serbatoi (due dei quali da 80.000 metri cubi) per una capacità complessiva di 800.000 mc. Da qui vennero interrate le condutture dell’oleodotto lungo l’altopiano carsico, la pianura friulana, la galleria sotto le Alpi Carniche (dopo Timau) e quindi l’ingresso in Austria. La condotta principale si dirigerà verso la Baviera mentre una sua diramazione alimenterà le raffinerie viennesi.

Nella foto (Civici Musei) la costruzione dell’Oleodotto in Zona Industriale11102972_1601191530095497_5611331164561472282_n

Nella foto (Enciclopedia monografica del FVG) il tracciato del percorso dell’Oleodotto Transalpino da Trieste a Ingolstaadt. Le zone tratteggiate indicano le gallerieimg121Il profilo altimetrico del percorso dell’Oleodotto Transalpinoimg122  L’impianto lungo 464 km (147 dei quali in Italia) venne costruito con tubature a diametro costante di 40 pollici e avrebbe trasportato inizialmente alcune decine di milioni di tonnellate annue di petrolio, volume molto inferiore alla potenzialità massima prevista in 54 milioni di tonnellate.

Il 13 aprile 1967 l’Oleodotto entrò in funzione con l’arrivo della prima petroliera (di nome Daphnella) al pontile d’attracco collegato al parco serbatoi della SIOT (Società Italiana Oleodotto Transalpino) gruppo in cui sono riunite tra le più importanti compagnie petrolifere mondiali ed è destinato esclusivamente per l’inoltro degli idrocarburi alle società proprietarie.

(Fonte: Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia)

I pontili della SIOT

Il Timavo e le terre carsiche

L’altopiano carsico si stende nell’estrema propaggine della zona di corrugamento nell’alta Istria ed è costituito da un anticlinale, una sorta di gobba che estende da sud-est a nord-ovest. Dalle  pendici del monte Nevoso, ultimo rilievo delle Alpi orientali che svetta a 1796 metri sopra il livello del mare e a soli 20 chilometri dal golfo del Quarnero, sgorgano decine di rigagnoli che confluiscono poi in un’unica vena acquifera. Raccogliendo alcuni affluenti, il fiume Reka (nome sloveno) scorre inizialmente per 55 km. su un pianoro tra i 420 e 450 metri sul livello del mare e con caratteristiche torrentizie per altri 4 km. lungo una profonda gola. Giunto in un impressionante baratro sotto il paese di San Canziano (oggi Šcocjan) s’inabissa improvvisamente sotto un’imponente rupe e scompare nelle profondità della terra.

Dopo un misterioso percorso ipogeo di 30 km. (in linea d’aria) tra inghiottitoi, varchi, pozzi, gallerie e immense voragini, il Reka-Timavo riaffiorerà alle risorgive di San Giovanni di Duino, al margine occidentale del Carso e quasi a ridosso del mare Adriatico.

Inizia così la doppia natura del nostro carsismo, quello ipogeo (di profondità) e quello epigeo (di superficie) sulle cui origini si sono ipotizzate infinite teorie. Alcune chiamano in causa il vasto e antichissimo fiume Paleotimavo, che per la sua enorme quantità d’acqua avrebbe agito anche in profondità provocando tutta la gamma dei fenomeni carsici, altre ritengono che sarebbero le naturali fessurazioni calcaree a permettere che nel corso dei millenni le acque pluviali e quelle degli affluenti scavassero un’infinita serie di pozzi fusiformi a loro volta soggetti a fratture verticali e orizzontali causate dalle forti pressioni idrostatiche che hanno dato origine alla “erosione inversa”, cioè alla spinta verso l’alto di masse rocciose con la formazione di bocche sempre più larghe. Molte delle cavità sotterranee hanno infatti degli inghiottitoi a forma fusoide e gallerie quasi orizzontali, a volte anche doppie e di uguale inclinazione. Sono queste le cavità di interstrato, cioè aperte tra due stratificazioni create dalla lenta e continua erosione dell’acqua.

La doppia natura del Carso è dovuta alla diversità dei suoi componenti: le rocce calcaree, composte per la maggior parte da carbonato di calcio, quindi solubili e permeabili, e da quelle dolomitiche, formate dal carbonato di magnesio e altre impurità più o meno diffuse come gli ossidi di ferro e la silice che le rendono impermeabili. Il calcare appartiene al grande gruppo delle rocce sedimentarie organogene, originate da un mare tiepido e poco profondo dove si sono accumulate sostanze organiche di microrganismi animali e vegetali che essendo prive di scorie e impurità insolubili, sono divenute estremamente fessurabili e dunque soggette a tutti i fenomeni sotterranei tipici del carsismo ipogeo.

La contaminazione e l’impermeabilità delle rocce dolomitiche formeranno invece il carsismo di superficie, detto epigeo, la cui caratteristica è la tipica terra rossa dovuta agli ossidi di ferro. Le colline carsiche sono però vulnerabili anche alle particolari situazioni ambientali e la loro vegetazione è soggetta a tre componenti del clima: temperatura, umidità e vento. Le nostre zone sono comprese nell’ampia fascia del clima temperato-marino che tuttavia presenta delle differenze abbastanza marcate. A Trieste il clima è di tipo mediterraneo mentre il Carso assume le caratteristiche continentali, quindi più fredde e umide, e spesso addirittura alpine. Il dislivello geografico causa infatti una diversità di pressione tra il centro Europa e l’alto Adriatico e in particolari condizioni forma delle imponenti masse d’aria che dall’area danubiana si scaricano sulle zone di basse pressioni, si rafforzano nei pressi del valico di Postumia per precipitare poi verso il golfo di Trieste con le violente e fredde raffiche di bora. Le doline carsiche invece, piccole alture alla rovescia, catturano l’aria fredda e assumono un clima subalpino, ed è stato calcolato che una profondità di 20 metri, peraltro frequente, corrisponde a 400 metri di altitudine, con un’umidità media dell’80%. Questa particolare caratteristica è favorevole allo sviluppo della vegetazione in quanto la loro forma a imbuto offre una buona protezione dalla bora.

Dopo il lungo e tumultuoso percorso sotto il Carso, le acque del torrente Reka sgorgate dalle pendici del Monte Nevoso e divenute il grande fiume Timavo, riaffiorano da due bocche rocciose per riunirsi in un unico corso verso la costa dell’Adriatico.  Ai nostri giorni rimangono quindi due sole risorgive dopo il crollo della terza bocca durante gli scavi per le condutture idriche. L’occlusione di una parte del deflusso ha aumentato la pressione interna provocando un ulteriore cedimento della zona fino al limite della strada statale dominata dai Lupi di Toscana e l’apertura di un altro vortice sotto il livello del fiume.

Tutte le terre intorno alle risorgive sono ricche di storia di cui quella dell’antica colonia romana, testimoniata da Marziale e dallo Strabone, sono stati rinvenuti interessanti reperti archeologici come la scoperta della grotta del dio Mitra, avvenuta nel 1965 per merito degli speleologi della Società Alpina delle Giulie.  Tale cavità, inizialmente poco più grande di una tana e del tutto obliterata dai detriti, si apre a una cinquantina di metri sopra l’autostrada, mezzo chilometro prima della chiesa di San Giovanni dopo la percorrenza di un sentiero inerpicato sul pendio del monte Ermada.

Nel 1974 la sezione Antichità della Sopraintedenza con l’apporto di studiosi locali ha eseguito importanti lavori e la ricostruzione del tempietto ipogeo rendendolo così visitabile al pubblico.

Le terre del nostro Carso sono state sempre tormentate e contese, testimoni di conflitti, distruzioni e spargimenti di sangue. Terre di eroi, martiri e poeti. Ma sono le terre che ci sono rimaste. Riusciremo a difenderle?

(Notizie tratte da “Guida del Carso triestino” di Dante Cannarella, Trieste, Edizioni Svevo, 1975)

Le risorgive

l’ inghiottitoio

Continuano i problemi d’approvvigionamento idrico

lobianco766Nell’anno 1849, ottenuta la reggenza municipale di Trieste, ripresero i progetti per aumentare l’apporto idrico per Trieste, fino ad allora ottenuto dalle sorgenti di Zaule alimentate dal torrente Rosandra. Sotto la direzione di un “Comitato alle Pubbliche costruzioni e Lavori idraulici” l’ispettore dei civici pompieri Giuseppe Sigon con una serie di progressive esplorazioni nella grotta di Trebiciano riuscì a raggiungere il sifone di entrata del canyon sotterraneo e a valutare in ben 758.000 metri cubi la sua portata nelle 24 ore e a 410.000 mq/h. durante i periodi di massima siccità, quantità dieci volte superiore a quella giudicata necessaria per l’acquedotto di Trieste. Per l’enorme volume delle acque si dedusse che altri fiumi potessero ingrossare quello di Trebiciano che con altre ramificazioni confluisse poi allo sbocco di San Giovanni di Duino.

Mentre in Comune venivano esaminati i lavori di scavo per costruire gallerie e tubature, un nuovo fatto ribaltò ancora i progetti. Per rifornire i treni a vapore della futura Ferrovia Meridionale, fu costruito in breve tempo un acquedotto che convogliava le non molto abbondanti sorgenti costiere di Aurisina mentre una conduttura parallela avrebbe portato l’eccedenza d’acqua in città. Ma in una Trieste in continuo sviluppo l’erogazione così ottenuta, peraltro con altissimi costi, divenne ben presto del tutto insufficiente. Le risorgive avevano inoltre dei flussi incostanti e spesso commisti ad acqua salmastra e con l’ennesima siccità verificatasi nel 1868, si prosciugarono del tutto.

I progetti estrattivi dal fiume sotto le grotte di Trebiciano non furono comunque mai abbandonati anche perché interessavano molti studiosi.

Nel 1895 l’ingegnere svizzero Polley, ritenendo fattibile l’approvvigionamento idrico di quel torrente sotterraneo, acquistò la grotta di Trebiciano affidando al giovane Eugenio Boegan dei nuovi rilievi. Dopo anni di misurazioni e studi, appena nel 1910 l’ing. Polley presentò i progetti per azzardatissime gallerie con pendenze dello 0,5 per mille dotate di pompe elettriche azionate da turbine per intercettare le acque a 85 metri di quota. Propose poi di allungare le gallerie per intercettare anche le acque delle grotte di San Canziano e perfino la costruzione di un’elettrovia per il trasporto di merci e persone.

Tutte le elaboratissime proposte del Polley terminarono nel 1912 con la cessione della grotta di Trebiciano al Comune di Trieste.

Nell’anno successivo, dopo alcuni riadattamenti e le periodiche misurazioni delle acque, si riuscì a provare con un colorante di cloruro di litio, che le acque del Reka inabissate a San Canziano continuavano il loro segreto percorso fino a congiungersi con quelle sotto la caverna di Trebiciano.                                                                                                                                            Durante le operazioni belliche della prima guerra mondiale le briglie di contenimento alle risorgive del Timavo furono distrutte per impedire di incrementare la portata dell’acquedotto di Aurisina, danneggiato anch’esso dalle artiglierie italiane e le misurazioni nella grotta di Trebiciano divennero saltuarie.

Nel 1927 fu escogitato un nuovo tentativo di marcatura delle acque del Reka – Trebiciano- risorgive del Timavo: un certo numero di anguille (con diverse incisioni) furono immesse nel corso esterno del fiume nella pianura di Vreme, altre nella voragine di San Canziano e un terzo gruppo nel torrente inabissato a Trebiciano. La prima anguilla giunse alle risorgive di San Giovanni di Duino dopo 40 giorni, alcune delle restanti entro un anno.                                            Fu così finalmente raggiunta la certezza che le zampillanti acque provenienti dal Monte Nevoso dopo un tranquillo percorso in valle, la loro scomparsa e il tortuoso tragitto nelle profondità delle terre carsiche, sgorgavano proprio nelle risorgive di San Giovanni di Duino per poi sfociare nell’Adriatico.

Ma ancora nel 1953 e 1977 si tentava di carpire il segreto del sifone di entrata dell’arcano Timavo nelle vicine grotte di Trebiciano: l’immenso bacino di tutti i vasi comunicanti possiede delle dinamiche ancora sconosciute dominate da forze che sfuggono ai più sofisticati studi idrologici e idrodinamici.

Fonti:

Mario Galli, La ricerca del Timavo sotterraneo, Edizioni del Museo Civico di Storia Naturale, Trieste, 2000

 

 

La scoperta dell’abisso di Trebiciano

Dopo il nubifragio del novembre 1840 e l’individuazione delle acque sotto la dolina ubicata fra Orlek e Trebiciano, l’ing. Anton Frederik Lindner assoldò dei minatori per allargare il pertugio da cui era fuoriuscito il più potente e sibilante getto d’aria e cercare il misterioso fiume che scorreva  sotto il carso.

La disostruzione dei passaggi e la scoperta di una successione di pozzi sempre più profondi fu arditissima e non priva di imprevisti.  Procedendo con inaudite difficoltà fra mine e vigorosi colpi di mazza su cunicoli ad assetto verticale, i lavoranti avvistarono sabbie, detriti vegetali e perfino la pala di un mulino incastrata fra le rocce. A 220 metri di profondità giunsero sulla sommità di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi. Dopo altre fessure da forzare e ulteriori scavi in una “finestra” in parete che attraeva le fiamme delle fiaccole, finalmente venne raggiunta una strettoia dove i frammenti di roccia si sentivano cadere a grande profondità. Allargato l’ultimo passaggio, il 6 aprile 1841 a cinque mesi dall’inizio dei lavori, i minatori scesero nel dodicesimo pozzo affacciato a una grandiosa caverna dove furono avvertiti i mormorii di un’ immensa massa d’acqua.

Fu così provata l’esistenza di un fiume che scorreva negli abissi carsici così come Lindner aveva sempre sostenuto.

Con la scoperta della grotta di Trebiciano l’esplorazione speleologica fa il suo ingresso nel mondo scientifico.

Il decano delle vita culturale di Trieste Domenico Rossetti si dedicò con approfonditi studi sul problema del rifornimento idrico per Trieste ma il consistente testo monografico non riuscì a essere pubblicato per l’improvvisa morte dell’illustre nobile il 20 novembre 1820.                           Pietro Kandler riprese le relazioni del Rossetti,concluse con l’asserimento che le acque scoperte sotto l’abisso di Trebiciano potessero veramente derivare dal Reka-Timavo proponendo altre spedizioni per seguirne il lungo corso.

Con  l’allargamento dei passaggi più angusti, la costruzione di impalcature e robuste scale di discesa si giunse purtroppo alla conclusione che quel fiume sotterraneo scoperto con tanto entusiasmo era talmente profondo da rendere troppo elevati i costi degli allacciamenti idrici. Fu infatti calcolato che il precipizio aveva una profondità complessiva di 322,318 metri, con il livello medio dell’acqua a 19 metri sul livello del mare. Inoltre le innumerevoli ricerche di Lindner effettuate in condizioni estreme e senza neppure ottenere il riconoscimento dell’autorità comunale, minarono la sua salute e lo condussero alla morte per tubercolosi a soli 40 anni il 19 settembre1841.

L’abisso di Trebiciano rimase così in stato di abbandono fino al 1849 lasciando insoluto il problema di un adeguato approvvigionamento idrico per Trieste.

Fonte: Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, LIND, Trieste, 2004

I problemi idrici di Trieste

La mancanza d’acqua che periodicamente si verificava a Trieste nel 19esimo secolo, nell’estate del 1828 – dopo più di un anno di siccità continua – divenne gravissimi. Le fontane pubbliche furono razionate e a parte il modesto approvvigionamento dalle sorgenti di Zaule, l’acqua doveva essere attinta dall’Isonzo e portata in città con le botti. Un’apposita Commissione iniziò a esaminare le polle esistenti sul del territorio progettando la costruzione di un acquedotto ma alla fine dell’anno il controllore di cassa del Comune si defilò con tutti i denari provocando una disastrosa sospensione dei lavori programmati, scavi compresi.

I provvedimenti più urgenti ed eseguiti con mezzi limitati e provvisori ebbero degli effetti molto scarsi e quando si verificò l’estenuante siccità del 1834 che si protrasse fino all’autunno del 1835, il rifornimento idrico della città divenne improrogabile.

Fu interpellato allora l’apprezzato perito di Milano ing. Anastasio Calvi che dopo diversi sopralluoghi, studi e misurazioni, ritenne fattibile riattivare gli antichi acquedotti della val Rosandra (costruiti in epoca romana nelle zone di Dolina) e allacciarli a nuove tubature, senza però escludere la possibilità di creare dei condotti alimentati dal fiume Reka prima del suo inabissamento nella voragine di San Canziano.

Considerata la distanza dalla città e gli altissimi costi di entrambi i progetti, l’ingegnere minerario Anton Friedrich Lindner iniziò una sistematica perlustrazione delle colline sovrastanti Trieste ascoltando anche i paesani in merito ai forti sibili da tempo avvertiti in determinate zone e sicuramente provocati dalla rimonta di acque nascoste nelle profondità carsiche.

Nell’aprile 1839 Lindner presentò al Governo del Litorale le mappe del presunto corso di un torrente sotterraneo con la proposta di intercettarlo con i necessari scavi per poi convogliarne le acque in una serie di gallerie. Gli amministratori pubblici però non intesero vincolarsi in questioni dai risvolti giuridici poco chiari circa la proprietà delle acque stesse e prima del ritrovamento effettivo del misterioso fiume.                                                                                  Durante gli improvvisi diluvi che si verificarono all’inizio di novembre del 1840 il fenomeno delle violentissime correnti d’aria sprigionate dalle fessure in una dolina fra Orlek e Trebiciano dimostrarono senza più dubbi la presenza di un torrente in piena.

Iniziò così la lunga e spesso drammatica avventura nelle profondità delle terre carsiche.

(Mario Galli, La ricerca del Timavo sotterraneo, Ed. Museo Civico di Storia Naturale, Trieste, 2000

Aperta al pubblico la Grotta Gigante

Nota da tempo con il nome di “caverna di Brischiachi” l’enorme voragine del Carso venne esplorata per la prima volta nel 1840 da Anton Frederik Lindner.

Per il grande dislivello tra la volta e la base e la totale oscurità fu impraticabile ogni tentativo di discesa fino al 1890 quando fu scoperto un secondo ingresso che rese possibile l’esplorazione.

I primi rilievi furono però attuati ben sette anni dopo da Andrea Perko e Leo Pertsch ma solamente tra il 1905 e il 1908 un Club di appassionati speleologi riuscirono a ottenere dei fondi per i lavori di adattamento e percorribilità.

Con l’illuminazione di 4000 candele e uno scenografico lampadario a 100 fiamme calato dall’alto, la grotta venne solennemente inaugurata il 5 luglio 1908.

Dopo la chiusura durante la prima guerra e la successiva annessione di Trieste all’Italia (3 novembre 1918) la grande caverna carsica passò in proprietà alla Società Alpina delle Giulie che ne curò la gestione assieme alle Grotte di Postumia e a quelle di San Canziano.

In seguito al secondo conflitto mondiale e ai cambiamenti di confine, divenuta ormai l’unica cavità sotterranea attrezzata del Carso, nel 1957 la Grotta Gigante fu dotata di illuminazione elettrica e di un posteggio per i turisti.

Nel 1963 venne inaugurato il Museo Speleologico dotato di un’importante collezione archeologica e due anni dopo un Osservatorio Geofisico Sperimentale fornito di sensibilissimi sismografi. Dalla sommità della volta sono stati inoltre installati due lunghi cavi che intercettano i minimi movimenti della crosta terrestre, delle maree e della flessione dell’altopiano carsico provocata dalle piene sotterranee del fiume Timavo.

Per le sue eccezionali dimensioni (107 metri di altezza e 380 metri di lunghezza) e lo spettacolare scenario, nel 1995 la Grotta Gigante è stata inserita nel Guinness dei primati come la più grande cavità turistica del mondo.

Fonte:

Enrico Halupca, Le meraviglie del Carso, Edizioni LINT, Trieste, 2004

 

GA

Il Civico museo Sartorio espone i disegni di Giambattista Tiepolo

A 95 anni dalla loro acquisizione da parte del ricchissimo collezionista d’arte barone Giuseppe Sartorio (Trieste 1838 – 1910), il 17 dicembre 1988 vengono finalmente esposti al pubblico i primi 100 disegni e bozzetti vari di Giambattista Tiepolo (Venezia 1727 – Madrid 1770), parte di una raccolta di 254 fogli lasciata in eredità al Civico Museo di Storia e Arte di Trieste con il lascito testamentario del nobile filantropo.

L’incredibile storia del loro reperimento è stata narrata da Carlo Wostry (pittore di notevole talento e spregiudicato faccendiere) nella sua “Storia del circolo Artistico di Trieste” (Edizioni Svevo, Trieste, 1991).

Sembra che il prezioso malloppo fosse racchiuso assieme a vecchie cartacce in un baule ritirato dal commerciante triestino Pietro Zanolla dopo la dipartita di un certo Viviani, di professione incisore a Isola d’Istria. La scoperta della geniale mano del maestro veneziano fu il colpo di fortuna del sig. Conti, sconosciuto scultore dell’epoca, che per la distratta sventatezza dello Zanolla, riuscì a impossessarsi in gran fretta e per pochi soldi di tutti i pregiatissimi disegni. Intendendo ovviamente arricchirsi, iniziò a venderli a singoli raccoglitori d’arte finché il barone Sartorio, informato della dispersione di cotanto tesoro, incaricò l’amico Carlo Wostry di recuperarlo con i massimi rialzi di prezzo.

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L’inestimabile collezione raccolta entro il 1893 e custodita con la massima cura fino alla morte del generoso benefattore, ricopre tutto l’arco della produzione artistica di Giambattista Tiepolo e comprende i bozzetti di soggetti rintracciabili in affreschi di palazzi veneziani, chiese, residenze reali e opere esposte in diversi musei.

I restauri dei vetusti e fragili fogli (per la maggior parte a penna con ombreggiature acquerellate ma anche a matita sanguigna, gessetto e inchiostro metallo) sono stati eseguiti dal Centro Studi e Restauro di Gorizia con effetti di straordinaria freschezza.

Al Comune di Trieste venne donata anche la storica villa residenziale dei Sartorio completa di arredi e di una collezione di 2.379 oggetti di grande valore antiquario.

Fonti:

Civico Museo Sartorio“, Rotary Club di Trieste, 1997

Carlo Wostry, Storia del Circolo Artistico di Trieste, Edizioni Svevo, Trieste, 1991

 

Gabriella Amstici